di Mauro Seminara
Il Giudice per le indagini preliminari, Alessandra Vella, non ha ritenuto di dover convalidare la richiesta di arresto di Carola Rackete, comandante della nave Sea Watch. L’udienza si è tenuta ieri pomeriggio alla presenza degli avvocati difensori della 31enne tedesca, Alessandro Gamberini e Leonardo Marino. L giudice ha depositato il provvedimento che nega arresto e divieto di dimora in virtù di una primaria premessa che ha classificato gli episodi contestati alla Capitana. La disposizione redatta ieri reca infatti una osservazione che recita: “Il fatto contestato all’indagata Carola Rackete non può essere atomisticamente esaminato, ma deve essere vagliato unitamente ed alla luce di ciò che lo precede, ossia il soccorso in mare e gli obblighi che ne scaturiscono”. Già la premessa basta per far impallidire il ministro dell’Interno, ma la dottoressa Alessandra Vella, Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Agrigento, non si ferma a questa osservazione e procede in analoga premessa con la citazione della Carta Costituzionale, delle convenzioni internazionali, del diritto consuetudinario e dei Principi Generali del Diritto riconosciuti alle Nazioni Unite. La Gip passa quindi in rassegna tutte le Carte che già esperti in Diritto avevano enunciato nelle scorse settimane quali motivo ostativo di base ai Decreti legge del Governo in materia di flussi migratori. Tra queste si notano gli specifici articoli 10 e 117 della Costituzione italiana, la convenzione UNCLOS del 1994 e la convenzione Solas del 1974, infine la convenzione SAR, ratificata ad Amburgo nel 1979 e da molti considerata la “legge del mare” tradotta in Legge internazionale.
I reati contestati a Carola Rackete e le “navi da guerra”
La Capitana era stata arrestata dalla Guardia di Finanza e veniva accusata delle violazioni dell’articolo 1100 del Codice della navigazione e dell’articolo 337 del Codice penale. Rispettivamente, i due articoli riferiti alle ipotesi di reato contestate riguardano “gli atti di resistenza e violenza nei confronti di nave da guerra” e la resistenza a pubblico ufficiale. Sulla prima accusa, quella sulla “nave da guerra”, ha già annunciato l’opposizione il team di avvocati della Capitana, asserendo che verrà vagliata la reale classificazione navale della motovedetta V-808 della Guardia di Finanza. L’articolo 239 del Dlgs 15 marzo 2010 n. 66, recante norme sul Codice dell’Ordinamento Militare, prevede infatti che: “Per «nave da guerra» si intende una nave che appartiene alle Forze armate di uno Stato, che porta i segni distintivi esteriori delle navi militari della sua nazionalità ed è posta sotto il comando di un ufficiale di marina al servizio dello Stato e iscritto nell’apposito ruolo degli ufficiali o in documento equipollente, il cui equipaggio è sottoposto alle regole della disciplina militare”. Inoltre l’articolo precisa che per essere classificate come nave da guerra queste “sono iscritte nel ruolo del naviglio militare, classificate, per la Marina militare, in base alle caratteristiche costruttive e d’impiego, in navi di prima linea, navi di seconda linea e naviglio specialistico e collocate nelle categorie e nelle posizioni stabilite con decreto del Ministro della difesa”. Alla luce della norma sopracitata emerge forte e legittimo nei legali di Carola Rackete il dubbio che la piccola motovedetta della Guardia di Finanza, non classificabile come pattugliatore d’altura o nave, priva di armamento di bordo – come dalle più grandi classe Bigliani in poi, dotate di cannone a prua – e identificativi militari, comandata da un maresciallo della Guardia di Finanza, possa non essere iscritta nel ruolo del naviglio militare come “nave da guerra”. Ciò malgrado La Guardia di Finanza, con il suo assetto navale, che è inserita “nella organizzazione generale dei servizi di polizia di frontiera è da considerare collegato agli altri servizi che il Corpo esplica lungo la linea di confine, tra cui il concorso alla difesa politico-militare delle frontiere, cui è obbligatoriamente tenuto in base a quanto disposto dalla legge ordinativa n. 189/59.”
Due inchieste parallele
Alla Capitana Carola Rackete quindi rimarrebbe solo la contestazione della resistenza a pubblico ufficiale senza i rischi di pena da tre a dieci anni di reclusione per la presunta violenza su nave da guerra. E quanto scritto dalla Gip Alessandra Vella vuole anche considerare l’ipotesi inversa, e cioè che la sedicente “nave da guerra” abbia opposto una non legittima resistenza alla nave che si atteneva alle norme internazionali delle convenzioni UNCLOS, Solas e SAR. Di contro, come indirettamente suggerito nell’osservazione in premessa dal giudice Vella, la motovedetta V-808 potrebbe aver concorso alla violazione delle leggi conformate agli articoli 10 e 117 della Carta Costituzionale. Un drastico ribaltamento di fronti tracciato già nel disposto di respingimento della convalida di arresti domiciliari e divieto di dimora in provincia di Agrigento di Carola Rackete. Ma parallelamente a questo procedimento d’inchiesta della Procura della Repubblica di Agrigento ce n’è un altro che il procuratore capo Luigi Patronaggio ha preferito stralciare per la tipologia e complessità della materia che attiene in modo estremamente delicato al tema dell’anno: le Ong ed i flussi migratori. Carola Rackete è accusata della violazione dell’articolo 12 del Testo Unico sull’immigrazione clandestina. L’articolo prevede già aspre sanzioni pecuniarie ed il carcere. Su questo fronte, come annunciato dal procuratore capo Patronaggio ed osservato dal giudice per le indagini preliminari Vella, sarà necessario vagliare approfonditamente tutte le norme nazionali ed internazionali, tutte le leggi ordinarie e quelle costituzionali, tutte le convenzioni e tutti i trattati in materia. Il processo che potrebbe nascere nel caso di un rinvio a giudizio di Carola Rackete risulterebbe una strana anomalia in cui, solo in apparenza il nome suonerebbe – all’americana – come “Lo Stato contro Carola Rackete” ma nei fatti parrebbe molto più idoneo “Lo Stato contro il Governo”.
Lo Stato contro il Governo
Ad andare indirettamente sul banco degli imputati sarebbe infatti il Decreto sicurezza bis e le disposizioni ordinate, nero su bianco, dai ministri che hanno negato per giorni il Place of Safety – il “porto sicuro” più vicino – alla nave Sea Watch 3 in violazione delle norme di Diritto nazionale ed internazionale enunciate anche nella sentenza della Giudice per le indagini preliminari Alessandra Vella. In tale contravvenzione, messa in atto per volontà politica del potere esecutivo o parte di esso, c’è il respingimento di persone che avevano diritto – come previsto dalla Costituzione italiana – di poter formulare richiesta d’asilo e queste persone sono state “respinte” a largo negando loro di poter approdare su territorio nazionale. Inoltre pende sempre il mancato riconoscimento dello “Stato di necessità” dichiarato a bordo dalla comandante Carola Rackete, convalidato da un trasbordo per motivi sanitari già dopo che la nave aveva violato il Decreto sicurezza bis entrando in acque territoriali e dichiarato tale stato a bordo. In opposizione a tale formale dichiarazione fatta da bordo e ricevuta dalla Capitaneria di Porto di Lampedusa, il Governo ha poco o nulla per confutare, visto che a bordo della Sea Watch 3 sono saliti medici per visite fisiche ai profughi “sequestrati” a bordo, ma non psichiatri che ne possono aver diagnosticato lo stato mentale. Di contro ci sono invece dei parlamentari della Repubblica italiana che possono testimoniare l’esigenza di monitorare giorno e notte, con turni ai quali hanno preso parte, i profughi a bordo per i rischi concreti di atti di autolesionismo o tentativi di tuffarsi in mare a due chilometri dalla Porta d’Europa di Lampedusa. Anche in questo senso si potrebbe profilare la contestazione di una negligenza ordinata per ragioni politiche e culminata con il tentativo, da parte della motovedetta V-808 della Guardia di Finanza, di impedire che la nave della Ong attraccasse anche a costo di dare vita ad una manovra pericolosa di ingombro banchina a manovra in corso.
Commenta per primo