di Fulvio Vassallo Paleologo
Il sequestro della nave umanitaria Iuventa
Dopo essere stata attirata verso le acque territoriali italiane con il pretesto di portare a terra alcuni naufraghi già soccorsi da una nave della marina militare italiana, il 3 agosto del 2017, nel porto di Lampedusa, si disponeva il sequestro della nave umanitaria Iuventa della ONG tedesca Jugend Rettet. Si era alla vigilia dell’entrata in vigore del “Codice di condotta Minniti”, che l’associazione tedesca Jugend Rettet non aveva sottoscritto, come del resto Medici Senza Frontiere, per alcuni suoi contenuti che nel tempo si sono rivelati contrari agli obblighi di soccorso sanciti dalle Convenzioni internazionali, in particolare per quanto concerneva il ruolo attribuito alla sedicente Guardia costiera “libica”, in base agli accordi del 2 febbraio 2017 conclusi tra il governo italiano e le autorità di Tripoli.
La contestazione del reato di agevolazione dell’immigrazione clandestina come presupposto del sequestro seguiva ad una intensa campagna di disinformazione. Dopo mesi di attacchi alle ONG, “colpevoli” di salvare troppe vite umane in mare nella zona SAR libica (allora istituita soltanto sulla carta come progetto da realizzare, nda) e di non “collaborare” abbastanza con le autorità di polizia nel “contrasto dell’immigrazione illegale” e nella caccia a trafficanti e scafisti. Accuse precise formulate dalla Procura di Trapani nel corso di una conferenza stampa. Le accuse formulate dalla Procura di Trapani, arrivavano quindi dopo mesi di attacchi da parte di Frontex, di diversi settori politici delle destre europee e di buona parte dei grandi mezzi di informazione, oltre che dal governo Serraj, tutti concentrati sulle attività di ricerca e soccorso in acque internazionali, allora operati dalle cosiddette Organizzazioni non governative sotto lo stretto coordinamento della Centrale operativa della Guardia costiera italiana (IMRCC di Roma) e delle autorità europee a capo delle missioni Triton di Frontex ed Eunavfor Med.
Secondo quanto riferito allora dai mezzi di informazione, la Procura di Trapani, sulla base di un vasto materiale probatorio che ad oggi non si conosce ancora per intero, salvo alcuni video visibilmente artefatti e singolari testimonianze di persone presenti a bordo della nave Vos Hestia di Save The Childen (secondo l’organizzazione si tratterebbe di almeno un agente imbarcato “sotto copertura”), tre o più componenti della nave Iuventa, battente bandiera olandese, si sarebbero accordati con alcuni scafisti che scortavano un barcone stracolmo di migranti per imbarcarli a bordo della nave della ONG e trasportarli quindi in Italia. Negli episodi contestati si sarebbe verificata addirittura la “restituzione” di una imbarcazione poi riutilizzata dai trafficanti, con una presunta “collaborazione” tra i fiancheggiatori degli scafisti e componenti del battello di appoggio usato dalla nave della Ong tedesca Jugend Rettet. Eppure tutte e tre le operazioni di soccorso contestate agli operatori umanitari a bordo della Iuventa erano avvenuti sotto il coordinamento della Centrale operativa della guardia costiera italiana e della nave Vos Hestia di Save The Children, presente sul luogo del salvataggio come SAR Coordinator.
Il Tribunale di Trapani prima, e la Corte di Cassazione poi, nel mese di aprile del 2018, convalidavano il sequestro della nave Iuventa mentre l’indagine si andava progressivamente allargando, coinvolgendo, con riferimento ai tre episodi contestati (su decine di casi di intervento) anche la nave che spesso svolgeva funzioni di SAR Coordinator on Place, la Vos Hestia di Save the Children che operava in diretto contatto con la Guardia Costiera italiana e con la centrale operativa di Roma (IMRCC) come SAR Coordinator on Place. Due operatori della “security” della nave Vos Hestia di Save The Children, in realtà, oltre ad essere dipendenti di una società di sicurezza privata legata a quest’ultima ONG da un rapporto contrattuale, erano ex agenti di polizia che verosimilmente operavano in contatto con i servizi di sicurezza dello stato italiano. Successive attività di indagine riguardavano il comandante della Vos Hestia, e veniva pure perquisita, per ragioni mai rese pubbliche e senza esiti apparenti, la casa del supertestimone dell’accusa. I computer che cercavano i magistrati a casa del teste erano comunque scomparsi. Venivano intanto acquisiti altri materiali probatori, dopo una ulteriore ispezione a bordo della nave Vos Hestia di Save The Children, eseguita nel mese di ottobre 2017 nel porto di Catania.
In tempi successivi, gli agenti ” sotto copertura” che avevano denunciato gli operatori umanitari tedeschi, hanno ritrattato in parte quanto riferito, accusando il capo della Lega come mandante dell’operazione di disinformazione, e poi hanno lamentato di essere stati abbandonati dalle istituzioni per le quali asserivano di lavorare. Si era però già verificato un danno di immagine irreparabile per tutte le organizzazioni umanitarie che sostituivano gli Stati nel salvataggio in mare. Le vicende successive dimostrano, anche sul piano elettorale, quanto la guerra al soccorso umanitario operato dalle ONG nel Mediterraneo centrale abbia giovato ai partiti populisti ed alla deriva xenofoba che sta travolgendo lo stato di diritto garantito dalla Costituzione italiana.
Nel 2018 la Procura di Palermo chiedeva l’archiviazione, poi disposta dal Giudice delle indagini preliminari del Tribunale di Palermo, di una indagine avviata sulla base di segnalazioni analoghe a quelle che nel 2017 erano state inviate alla Procura di Trapani, con riferimento a diverse ONG, tra cui la stessa Jugend Rettet.
Chi opera un soccorso a mare non è generalmente in grado di accertarne la provenienza e l’attendibilità dei naufraghi. Può soltanto verificare, in base alle coordinate fornite, se nel luogo indicato ci siano persone in condizione di pericolo a causa del sovraccarico dei gommoni, o più recentemente dei barconi, sui quali sono state caricate. Se i soccorritori prima di procedere ai soccorsi dovessero fare indagini per accertare la provenienza delle imbarcazione da soccorrere, la loro ubicazione (magari anche l’autorità SAR competente ad intervenire ed a coordinar le attività di salvataggio) e ancora anche per valutare poi le condizioni di navigabilità dei mezzi carichi di migranti, come voleva l’agenzia europea Frontex prima che fosse approvato il Regolamento n.656 del 2014 (che dice l’esatto contrario), cosa succederebbe? Ma cosa potrebbe succedere quando si ferma (stand by) per ore una imbarcazione umanitaria che potrebbe prestare immediatamente soccorso con il trasbordo dei naufraghi e la loro messa in sicurezza ? Si verificherebbero ancora le stesse circostanze e gli stessi ritardi che hanno portato al naufragio dell’11 ottobre del 2013, a sud di Malta. Un naufragio sul quale sta indagando la magistratura italiana per accertare le responsabilità delle competenti autorità SAR. Una indagine che sta andando avanti dopo che è stata respinta la iniziale richiesta di archiviazione formulata dalla Procura di Agrigento.
Già nel 2017 le modalità degli interventi di ricerca e soccorso operati dalle ONG nelle acque del mar libico erano rigidamente codificate, anche prima del tentativo di imposizione di un codice di comportamento da parte del ministro Minniti. Innanzitutto dal Diritto internazionale del mare (le tre Convenzioni, UNCLOS, SAR e SOLAS) poi dal Regolamento di Frontex n. 656 del 2014 ed infine dai rigorosi codici di comportamento delle ONG, come MSF, concordati con la Guardia Costiera italiana. E che tale coordinamento ci fosse e risultasse idoneo a salvare migliaia di persone, nel pieno rispetto delle normative vigenti, lo confermano gli stessi rapporti di attività della Guardia costiera italiana.
La “guerra” contro le Organizzazioni non governative
Già alla fine del 2016 si apriva una stagione nella quale le attività di contrasto dell’immigrazione irregolare e la lotta agli scafisti si intrecciavano sempre di più con le attività di ricerca e salvataggio in mare (SAR) e con la delicata questione dell’accesso al territorio italiano, ed europeo, delle persone in fuga non solo dai loro Paesi, ma anche dalla Libia già preda di un violento conflitto interno, potenziali richiedenti protezione internazionale o umanitaria. Questioni sulle quali si montava una spregiudicata operazione elettorale che andava ben oltre il rispetto del dettato costituzionale e degli obblighi di salvataggio imposti dal diritto internazionale, in nome di un preteso “sovranismo” che anteponeva la difesa dei confini o della sicurezza nazionale, alla tutela del diritto alla vita ed all’accesso alla procedura di asilo. Un uso spregiudicato dei social, in particolare da parte di alcuni blogger che trovavano vasta eco negli organi di informazione ufficiali, contribuiva a capovolgere il rapporto tra realtà dei fatti e ricostruzione giuridica delle responsabilità, in modo da caricare le responsabilità più gravi sulle ONG (Organizzazioni Non Governative) che avevano dovuto sostituire gli assetti navali statali dopo la fine dell’operazione italiana Mare Nostrum (nel dicembre del 2014) ed il progressivo ritiro delle navi impegnate nella missione Triton di Frontex a partire dal mese di settembre del 2015.
Nello stesso periodo si compivano i primi passi nell’attuazione del piano europeo sulle migrazioni (il cosiddetto “Piano Juncker”) adottato nel maggio del 2015, che si caratterizzava per la esternalizzazione dei controlli di frontiera e per gli accordi con paesi terzi che non rispettavano i diritti umani, purchè riuscissero in qualsiasi modo a ridurre le partenze verso gli stati appartenenti all’Unione Europea. Un piano che portava nel marzo del 2016 alla conclusione dell’Accordo tra gli stati dell’Unione Europea, senza neppure un atto collegiale del Consiglio o della Commissione, con la Turchia, per fermare la fuga dei profughi siriani ammassati sulle sponde del Mediterraneo orientale. Un accordo che continua a fare vittime ancora oggi. Sul “fronte” occidentale si delegava alla Spagna il compito di gestire la frontiera marittima (e terrestre) con il Marocco, con un supporto complementare di assetti Frontex, ma pur sempre sul piano dei rapporti bilaterali, che prevedevano forme di rimpatrio forzato assai violente (in particolare da Ceuta e Melilla).
Soccorsi in mare e politica degli accordi bilaterali nel Mediterraneo centrale
Nel Mediterraneo centrale gli accordi bilaterali del Governo italiano con la Libia non erano certo una novità, e costituivano la vera linea di continuità in politica estera che aveva accomunato i diversi governi che si erano succeduti nel tempo. Il Trattato di amicizia sottoscritto da Berlusconi e Gheddafi nel 2008 era stato anticipato infatti dai Protocolli operativi stipulati nel dicembre del 2007 ai tempi del Governo Prodi dal ministro dell’Interno Amato con il suo omologo libico. Quegli stessi accordi e quegli stessi protocolli operativi, che già prefiguravano una intensa cooperazione operativa tra le autorità italiane e la guardia costiera libica, venivano formalmente ripresi dai successivi accordi siglati con i libici nel 2013 dal ministro dell’interno Cancellieri (Governo Monti) e quindi dall‘Accordo siglato con il Governo di Tripoli, nel febbraio del 2017, dal ministro degli Esteri Gentiloni (Governo Renzi).
Un accordo che, già con la Conferenza di Malta del 3 febbraio dello stesso anno, veniva accolto con soddisfazione da tutti i partner europei che programmavano il ritiro degli assetti navali delle operazioni Frontex dal Mediterraneo centrale e ridimensionavano progressivamente gli impegni della missione Eunavfor Med, trasferendo le risorse dall’impiego delle unità in mare, che soccorrevano troppi naufraghi, alle attività di intelligence e di cooperazione con i Paesi terzi. Da quel momento la Guardia costiera “libica” intensificava le sue attività di interdizione dei soccorsi operati dalle ONG e si giungeva al terribile incidente del 6 novembre 2017, nel corso del quale, dopo un duro confronto con la nave umanitaria Sea Watch, alcuni naufraghi perivano a causa del repentino allontanamento della motovedetta libica dal luogo dei soccorsi, malgrado l’alt intimato da un elicottero della missione italiana Mare sicuro.
Il ruolo assegnato alla “Guardia costiera libica” – termine improprio perchè in Libia di guardie costiere ce ne sono diverse, militari e civili – rimaneva e rimane, sempre più confuso, soprattutto con il dilagare della guerra nelle città costiere, al contempo terminale del traffico di petrolio (e del relativo contrabbando) e delle partenze dei migranti gestite dalle medesime organizzazioni criminali colluse, se non immedesimate, con le milizie che controllano i territori. Da anni sono ormai noti gli elevati livelli di corruzione all’interno delle milizie che di fatto controllano i porti libici, e tutti i traffici che vi passano, intestandosi il ruolo di “Guardia costiera libica.” Ma in Italia è un argomento che non si può toccare.
Come riporta in un rapporto curato per l’ISPI la giornalista Nancy Porsia: “Rome is also aware of the level of endemic corruption present also within the Libyan Coast Guard. In the framework of Operation Eunavfor Med, sufficient information has been gathered concerning the role of the Coast Guard of Zawiya – a city 50 km west of Tripoli – in migrant smuggling. Abdurahman Milad Aka Al Bija, currently the captain of Zawiya’s Coast Guard, has been controlling the migrant smuggling business from the West of Tripoli to the border with Tunisia since 2015″.
Gli sforzi tesi ad incrementare la cooperazione operativa con le autorità del Governo di Tripoli (GNA), sempre più coinvolto in un crudele scontro militare con l’esercito del generale Haftar (LNA), si concretizzavano nel dicembre del 2017, e quindi sul piano formale nel mese di giugno del 2018, nella autoproclamazione di una zona SAR (ricerca e salvataggio) “libica”, anche se in realtà in Libia non esisteva una Centrale unica di coordinamento dei soccorsi, ruolo sovente svolto dalla missione Nauras della marina militare italiana, presente, proprio da quel momento in poi, nel porto militare di Tripoli (Abu Sittah). Un importante articolo del giornale Avvenire conferma le attività di coordinamento svolte a Tripoli dalla missione italiana Nauras. Tra le attività di supporto della missione Nauras a Tripoli, rientrava, già prima del 28 giugno 2018, anche “l’importante compito di aiutare i libici a interfacciarsi con la Centrale operativa della Guardia Costiera a Roma che coordina le operazioni di ricerca e soccorso nel Mediterraneo centrale”. Questo coordinamento italiano delle attività di intercettazione in mare, affidate già nella prima parte del 2018 alla cosiddetta Guardia costiera “libica“ e ribadito anche dal ministro Toninelli, risultava da una specifica documentazione acquista agli atti del processo di convalida innescato dal sequestro della nave Open Arms nel porto di Catania.
L’istituzione di una zona SAR libica permetteva poi di intensificare gli attacchi contro le ONG, “colpevoli”, in occasione di eventi SAR, di non avere obbedito agli ordini di “stand by” impartiti da parte delle autorità italiane che imponevano di sospendere le attività di recupero dei naufraghi in modo da attendere l’arrivo delle motovedette libiche. Che in realtà, con la collaborazione degli assetti aerei delle residue operazioni europee, venivano assistite dalle unità navali italiane operanti a nord delle acque libiche (operazione Mare sicuro) e dalla missione Nauras presente a Tripoli. Le imbarcazioni militari, a disposizione del Governo di Tripoli, nel corso del 2018 venivano progressivamente incrementate dal Governo italiano con la cessione di diverse unità medio-piccole. Di fatto nessun grosso trafficante veniva arrestato in Libia, l’unico arresto di un certo rilievo, di quello che avrebbe dovuto essere il capo dei trafficanti libici, si rivelava un clamoroso scambio di persona, mentre centinaia di pseudo “scafisti” venivano arrestati allo sbarco, ma erano poi assolti dalle accuse sollevate nei loro confronti dalle autorità di polizia. La Procura di Catania, come i giudici di altri Tribunali, riconosceva la non punibilità degli “scafisti” per forza. Non si trattava di casi isolati, ma, a partire dal 2017, di decine e decine di sentenze di assoluzione di presunti scafisti arrestati e poi rimessi in libertà, sempre più spesso anche minori.
I processi contro le navi umanitarie e i tentativi di chiusura dei porti
Si arrivava così alla criminalizzazione definitiva delle attività di ricerca e salvataggio in acque internazionali, con il sequestro della nave umanitaria Open Arms nel marzo del 2018, e quindi con il nuovo Governo di centro destra, con la imposizione dei divieti di ingresso nei porti italiani, a partire dal caso Aquarius nel mese di giugno dello scorso anno. Le sentenze della magistratura che a più riprese, a partire dal dissequestro disposto dal Tribunale di Ragusa della nave Open Arms, definivano la Libia come un Paese privo di porti sicuri di sbarco, non scalfivano l’orientamento dell’opinione pubblica e le scelte dei decisori politici. Anche sui soccorsi operati da navi appartenenti alla Guardia Costiera o dedite ad attività commerciali, come i rimorchiatori di servizio delle piattaforme petrolifere offshore ubicate nel Mediterraneo centrale, nei casi Asso 25 e Vos Thalassa (Diciotti), si scatenava una devastante operazione mediatica, che aveva anche risvolti di natura penale, non solo contro i migranti accusati di gravi reati, o dei responsabili delle ONG, ma anche nei confronti dei comandi militari delle unità appartenenti alla Guardia Costiera, progressivamente esautorata dei suoi compiti di intervento in acque internazionali, a favore della Guardia di Finanza.
Malgrado alcune Procure procedessero al dissequestro delle navi umanitarie o all’archiviazione delle indagini avviate su notizie di reato infondate confezionate dalle autorità di polizia, la condanna delle ONG, colpevoli di essere diventate “taxi del mare”, si anticipava sui giornali e sui canali social e si trasformava in una vera e propria campagna d’odio, rimasta però ancora oggi priva di un riscontro giudiziario definitivo. Il caso Diciotti rappresentava la più clamorosa violazione dello stato di diritto perpetrata ai danni del diritto internazionale e della Costituzione italiana, soprattutto per la decisione del Senato che negava l’autorizzazione a procedere nei confronti del ministro dell’Interno. Una decisione che, a fronte delle motivazioni addotte dal Senato, i magistrati non sottoponevano neppure alla Corte Costituzionale per la possibile ricorrenza di un conflitto di attribuzioni. Le responsabilità di un ministro sono state cancellate da un voto politico che non tiene conto delle reiterate violazioni del diritto internazionale che l’art. 117 della Costituzione richiama come fonte di obblighi rilevanti anche nell’ordinamento interno.
L’art. 17 della Convenzione di Montego Bay del 1982 (UNCLOS) prevede che le navi di tutti gli Stati, costieri o privi di litorale, godono del diritto di passaggio inoffensivo attraverso il mare territoriale. La Convenzione disciplina in modo tassativo le condizioni di esercizio di tale diritto. In particolare, il passaggio deve essere “continuo e spedito” (art. 18 UNCLOS). Tuttavia, “il passaggio consente […] la fermata e l’ancoraggio, […] se questi […] sono finalizzati a prestare soccorso a persone, navi o aeromobili in pericolo o in difficoltà”. Il passaggio delle navi private, e dunque anche di quelle appartenenti alle ONG, attraverso il mare territoriale di qualunque Stato, non può essere considerato quale recante “pregiudizio alla pace, al buon ordine e alla sicurezza dello Stato costiero” (art. 19.1 UNCLOS). L’art. 19.2. della Convenzione UNCLOS prevede esplicitamente che l’imbarco e lo sbarco di persone al solo fine di ottemperare agli obblighi di salvare la vita in mare sono attività ricomprese nella nozione di passaggio inoffensivo. Nelle acque più sorvegliate del Mediterraneo, gli avvistamenti aerei sono finalizzati non a salvare la vita delle persone ma a garantire un numero più elevato di intercettazioni in alto mare e conseguente riduzione delle persone, così riportate a terra, in uno stato di schiavitù e di abusi continuati. L’importante, per i Governi europei, è soltanto che cessino i soccorsi delle navi umanitarie o che i migranti non siano fatti sbarcare in un porto sicuro in Europa, come dovrebbe avvenire in base al diritto internazionale.
Soccorso in mare ed individuazione di un porto sicuro di sbarco (POS)
Per l’ex ministro e vicepresidente del Consiglio Salvini, i soccorsi operati dalle ONG in acque internazionali nella vasta zona rientrante nella cosiddetta SAR libica dovevano concludersi con la riconsegna dei naufraghi alle autorità tripoline, perché di fatto gli accordi intercorrevano soltanto con il Governo Serraj. Quando le ONG rifiutavano, come imposto dal diritto internazionale, ripartivano le accuse di collusione con i trafficanti, accuse mai provate in sede giurisdizionale. Dopo ogni intervento si salvataggio in acque internazionali il ministero dell’Interno continuava a negare l’indicazione immediata di un porto di sbarco sicuro, come se tale adempimento, imposto dalle Convenzioni internazionali, fosse dilazionabile a tempo indeterminato, in attesa che altri Stati dell’Unione Europea assumessero impegni volti a garantire la redistribuzione dei naufraghi, e non soltanto di coloro che avrebbero presentato una richiesta di asilo. L’Unione europea, la Commissione e poi gli Stati più importanti ribadivano invece in ogni occasione che il primo porto di sbarco sicuro andava individuato con sollecitudine e dunque nel porto più vicino, senza che potesse assumere rilievo la bandiera della nave soccorritrice o la nazionalità della Organizzazione non governativa per cui questa operava.
A livello mediatico si operava poi una operazione sempre più subdola, arrivando a sostenere che solo una minima parte dei naufraghi avrebbe potuto rivestire la qualità di asilante. Prima con l’abolizione dell’istituto della protezione umanitaria, poi con l’inasprimento dei criteri di decisione delle Commissioni territoriali e con l’abbattimento delle garanzie procedurali stabilite in favore dei richiedenti protezione internazionale, dai diritti di ricorso in appello sino all’estensione della detenzione amministrativa anche a danno dei richiedenti asilo. Al parziale smantellamento del sistema SPRAR, ed alla riduzione della maggior parte dei richiedenti asilo alla condizione di irregolari, corrispondeva una moltiplicazione delle situazioni di irregolarità per diverse decine di migliaia di persone, mentre l’attenzione dell’opinione pubblica rimaneva concentrata su qualche decina di naufraghi intrappolati in alto mare, a bordo della nave, “marchiata” come appartenente ad una ONG, che aveva salvato loro la vita. Naufraghi da sbarcare al più presto nel “porto sicuro più vicino” secondo le regole internazionali richiamate dalle Nazioni Unite e dalla Commissione europea, non clandestini da introdurre nel territorio nazionale. Come era sempre avvenuto, del resto, fino all’adozione del Codice Minniti – un documento peraltro privo di valore normativo – e prima della delega alle autorità libiche delle intercettazioni in acque internazionali dei migranti che riuscivano a fuggire dall’inferno libico.
Come se tutto questo non bastasse, ripartiva una campagna di delegittimazione delle Organizzazioni non governative che operavano soccorsi in mare; accusate di avere avuto prevalenti interessi economici a base delle loro attività nel Mediterraneo centrale, conseguenza invece di una scelta obbligata dopo il ritiro delle unità navali italiane ed europee dalle acque rientranti nella cosiddetta “SAR libica”. Ed ancora non mancava chi tentava di legare l’impegno umanitario delle ONG, teso a sbarcare i naufraghi in un porto sicuro di sbarco con le disfunzioni che il sistema di accoglienza evidenziava a terra, con gravità crescente. Disfunzioni che proprio le stesse ONG avevano denunciato tempestivamente. Si pensi alle incisive campagne di “LasciateCIEntrare”, di fronte ai controlli puramente formali e poco incisivi generalmente assolti dalle Prefetture e quindi dal Ministero dell’interno.
I “decreti sicurezza” e i divieti di ingresso nelle acque territoriali
Il capovolgimento del rapporto tra realtà dei fatti e rappresentazione delle responsabilità era pienamente compiuto e sfociava nei due decreti sicurezza adottati ad ottobre del 2018 e poi a maggio del 2019, su proposta del ministro dell’interno e vicepresidente del Consiglio dei ministri Salvini, che su questi provvedimenti basava per intero la sua personale campagna elettorale in vista delle elezioni europee nel maggio del 2019. Quello che prima era deciso con provvedimenti non formalizzati, comunicati magari attraverso i social, diventava adesso potere di imperio rimesso al ministro dell’Interno, che poteva, a sua esclusiva discrezione, sia pure con il formale “concerto” dei ministri della Difesa e delle Infrastrutture, vietare l’ingresso nelle acque territoriali alle navi private che avevano soccorso naufraghi in acque internazionali. Un potere che si è arrivati ad esercitare anche nei confronti di navi battenti bandiera italiana, alle quali si è impedito l’ingresso solo perché avevano operato i soccorsi in acque rientranti nella cosiddetta zona SAR libica, e dunque, secondo il ministro dell’Interno, avrebbero dovuto riconsegnare ai libici le persone salvate da morte certa in mare.
Le raccomandazioni del Presidente della Repubblica, che giungeva pure a formulare precisi “rilievi”, restavano del tutto inascoltate. Anzi, i provvedimenti venivano aggravati nel corso del loro iter parlamentare. Ai prefetti veniva attribuito (e tuttora permane) un potere immenso, che permetteva di bloccare le attività di soccorso delle navi umanitarie anche nel caso queste non avessero commesso alcun reato e non costituissero più oggetto di misure di sequestro preventivo da parte della magistratura, al fine di accertare altri reati a carico di soggetti diversi. La misura del sequestro amministrativo, e la possibile applicazione di una sanzione spropositata, permettevano di tenere lontane la maggior parte delle ONG e di trasformare il Mediterraneo centrale in un grande deserto liquido, in cui tutti vedevano dall’alto lo svolgersi dei viaggi ma nel quale non interveniva più nessuno per salvare vite in pericolo. La guardia costiera “libica” aveva gioco facile nel riportare a terra migliaia di persone, immediatamente riconsegnate, dopo lo sbarco in porto, alle milizie ed ai torturatori dai quali erano fuggite. I rapporti delle Nazioni Unite sulle violenze commesse dalla Guardia costiera libica e la situazione di estrema pericolosità dei centri di detenzione libici, anche per effetto della guerra civile in corso, non impedivano al ministro dell’Interno Salvini di “congratularsi” con la guardia costiera libica per le intercettazioni operate in acque internazionali.
Mentre le attività di indagine delle procure contro le ONG si concludevano con archiviazioni o continuavano a non produrre risultati, importanti pronunce degli organi giudicanti facevano emergere come, malgrado l’istituzione di una zona SAR libica, la Libia non garantisse ancora porti sicuri di sbarco. Al punto che, nel caso Vos Thalassa, era possibile qualificare come legittima difesa il comportamento di chi faceva resistenza di fronte alla prospettiva si essere riconsegnato alle autorità militari di quel paese o alla sedicente “guardia costiera libica”, che in realtà non riusciva a garantire neppure gli interventi di ricerca e soccorso nelle acque antistanti la Tripolitania. Ne derivava anche un incremento delle vittime, seppure in termini percentuali, rispetto ad un rilevante calo delle partenze della Libia, conseguenza non certo dell’intensificazione delle attività di contrasto delle autorità italiane e ed europee, quanto piuttosto conseguenza del deterioramento della situazione militare in Libia, in particolare prima nel Fezzan e poi in Tripolitania, con scontri tra milizie che non garantivano più gli accordi presi con i trafficanti. Le partenze si spostavano sempre di più verso est, e invece che a Zuwara ed a Garabulli (Tripoli) le spiagge di partenza dei barconi carichi di migranti si trovavano a Khoms e nei pressi di Misurata.
Il ruolo della giurisdizione nella garanzia dei doveri di soccorso e di solidarietà
Sarà ben difficile arrivare a condanne da parte della Corte Europea dei diritti dell’uomo, ormai paralizzata dalle pressioni degli Stati e dall’aggravamento delle formalità procedurali. Anche dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea, soprattutto con riferimento all’accordo UE-Turchia, sono arrivate risposte insufficienti. E non si vede come sarà possibile fare arrivare ricorsi ai Tribunali internazionali e garantire sicurezza ai ricorrenti, nelle attuali condizioni di violenza generalizzata che si riscontrano in Libia. Piuttosto che punti di sbarco nelle città costiere della Tripolitania, andrebbero creati a livello europeo punti di imbarco dai quali fare partire in sicurezza via mare verso Paesi sicuri i migranti intrappolati nei centri di detenzione in Libia. Occorre certezza sulle zone SAR (Search and Rescue) nel Mediterraneo. Le Nazioni Unite non possono tollerare che una loro agenzia dichiari la Libia come un Paese privo di porti sicuri di sbarco e poi un’altra agenzia come l’IMO continui a riconoscere una zona SAR “libica” che permette lo sbarco di persone che, anche se vengono consegnate al Dipartimento della polizia “libica” contro l’immigrazione (DCIM), sono immediatamente esposte ad abusi di ogni genere.
“People smuggled or trafficked into Libya face torture, forced labour and sexual exploitation along the route, and many also while held in arbitrary detention,” said Martin Kobler, the Secretary General’s Special Representative for Libya and Head of the UN Support Mission in Libya (UNSMIL).
Le autorità italiane sono titolari di obblighi di soccorso e quindi di tempestiva indicazione di un vicino porto sicuro di sbarco che nessuna trattativa o intesa sopraggiunta a livello internazionale o europeo può condizionare o escludere. Spetta agli organi della giurisdizione garantire l’accertamento delle responsabilità nell’assolvimento di questi obblighi e l’effettivo adempimento dei doveri di solidarietà stabiliti dalla Carta Costituzionale e dalle Convenzioni di diritto del mare. Nel successivo accertamento dei fatti e delle responsabilità le autorità amministrative e le assemblee parlamentari dovranno rispettare il principio di indipendenza della magistratura senza incidere, come si è verificato nel caso Diciotti, sullo svolgimento dell’attività giurisdizionale con decisioni di carattere politico. Sono andati a vuoto persino gli appelli delle Nazioni Unite per restituire al Mediterraneo centrale la presenza di navi di soccorso e regole certe di intervento tali da garantire lo sbarco dei naufraghi in un “Place of Safety”.
The United Nations refugee agency urged States to “intervene with urgency to restore effective rescue measures in the Mediterranean boosting operations of coordinated joint rescue operations, restoring rapid procedures of disembarkation in safe ports, and revoking the measures that prevent NGO vessels from operating”.
Neanche le posizioni dell’UNHCR, già note da mesi, hanno scalfito l’operatività degli accordi che di fatto permettono di delegare, da parte delle autorità italiane alla sedicente Guardia costiera libica, le attività di ricerca e soccorso (SAR) nelle acque internazionali del Mediterraneo centrale.