di Fulvio Vassallo Paleologo
Gli spari dei libici sulle imbarcazioni delle ONG impegnate in attività di ricerca e salvataggio, al pari dei silenzi italiani sulla richiesta di un “porto di sbarco sicuro”, costituiscono effetto diretto di quanto consentito dalla delega delle intercettazioni in acque internazionali derivante dal Memorandum d’intesa Italia-Libia del 2 febbraio 2017 e dal riconoscimento internazionale di una zona Sar libica, autoproclamata dal governo Serraj, su spinta italiana, ed operativa dal 28 giugno 2018, con il successivo riconoscimento da parte dell’IMO (Organizzazione marittima internazionale). Il decreto emesso il 15 settembre dal Consiglio presidenziale del governo di accordo nazionale (GNA) libico con sede a Tripoli prevede che le organizzazioni non governative che operano soccorsi nel mediterraneo centrale, in quella che viene definita come “zona SAR libica”, che sarebbe coordinata da un fantomatico “centro di coordinamento”, devono “fornire periodicamente tutte le informazioni necessarie, anche tecniche relative al loro intervento, al Centro di coordinamento libico per il salvataggio”; a “non bloccare le operazioni di ricerca e salvataggio” esercitate dalla guardia costiera locale e a “lasciarle la precedenza d’intervento”; a “informare preventivamente il Centro di coordinamento libico” di iniziative autonome, anche se ritenute “necessarie” e “urgenti”.
Il “Codice di condotta” libico e le ONG
Le Ong si dovrebbero limitare all’esecuzione delle istruzioni del centro e si impegnano a informarlo preventivamente su qualsiasi iniziativa anche se è considerata “necessaria e urgente“. Secondo il nuovo codice di condotta libico, “il personale del dispositivo è autorizzato a salire a bordo delle unità marittime ad ogni richiesta e per tutto il tempo valutato necessario, per motivi legali e di sicurezza, senza compromettere l’attività umana e professionale di competenza del paese di cui la nave porta la bandiera”. Si aggiunge inoltre che: “Tutte le navi che violano le disposizioni del presente regolamento verranno condotte al porto libico più vicino e sequestrate. E non verrà più concessa alcuna autorizzazione”.
Secondo l’art. 12 del Codice di condotta italo-libico, “i naufraghi salvati dalle organizzazioni non vengono rimandati nello stato libico tranne nei rari casi eccezionali e di emergenza”, ma il personale libico “è autorizzato a salire a bordo ad ogni richiesta e per tutto il tempo valutato necessario, per motivi legali e di sicurezza”. Una ipotesi che va ben oltre il “diritto di visita”, che è previsto dalle convenzioni internazionali, che potrebbe legittimare veri e propri atti di pirateria internazionale.
Nel decreto adottato a Tripoli è specificato che dopo il completamento delle operazioni di ricerca e soccorso, “le barche e i motori usati nelle operazioni di contrabbando saranno consegnati allo Stato libico” mentre “salvo le comunicazioni necessarie nel contesto delle operazioni di salvataggio e per salvaguardare la sicurezza delle vite in mare, le unità marittime affiliate alle Organizzazioni s’impegnano a non mandare nessuna comunicazione o segnale di luce o altri effetti per facilitare l’arrivo d’imbarcazioni clandestine verso loro”. In questo punto sembra evidente una manina che ha redatto una norma corrispondente al codice di condotta Minniti, che a sua volta subiva il condizionamento imposto da quelle organizzazioni della estrema destra che, già nel 2017, in collusione con i servizi, creavano false accuse nei confronti delle ONG impegnate nei soccorsi in mare.
Si realizza così una piena continuità dei governi che si succedono in Italia e delle istituzioni europee, che evidenzia una consapevole contiguità con la guardia costiera libica, infiltrata dai trafficanti, come documentato dalle Nazioni Unite già molto tempo prima che scoppiasse il caso Bija (foto), il trafficante di Zawia adesso reintegrato nella cosiddetta guardia costiera libica, che, con i suoi documenti originali, ha ottenuto nel 2017 un visto di ingresso dall’ambasciata italiana a Tripoli ed ha potuto partecipare ad una delegazione in visita, oltre che al Cara di Mineo, alla sede del Comando centrale della Guardia Costiera a Roma ed al Viminale. Né si vede adesso come e a quali fini si darà esecuzione al recente ordine di arresto nei confronti di Bija emesso da un Tribunale libico. Sarà forse un modo per dimostrare che comunque in Libia esiste un brandello di stato di diritto e che dunque la Libia (di Serraj) è uno stato con il quale si può collaborare per bloccare persone in acque internazionali e riconsegnarle ai loro carcerieri libici? Dal Rapporto delle Nazioni Unite del 2017 si ricavava la compromissione di talune guardie costiere libiche, come quella della città di Zawia, con i trafficanti di esseri umani, ed al tempo stesso con gli stessi trafficanti che operano nel contrabbando di petrolio. Una materia che dovrebbe essere ben nota a chi aveva invitato Bija in Italia, a chi gli aveva rilasciato il visto a Tripoli, ed a chi lo aveva ricevuto a Mineo ed a Roma. Ed anche alla Procura di Catania che dal 2016 ha aperto una indagine sui traffici di petrolio tra Zawia, Malta e la Sicilia, eseguendo anche diversi arresti. Eppure da quel periodo ad oggi si indagava solo sulle ONG, anche con il ricorso ad infiltrati.
Il Codice di Serraj e quello di Minniti
Gli ideatori del nuovo codice di condotta imposto per decreto del governo di Tripoli alle ONG che operano soccorsi in acque internazionali nel Mediterraneo centrale hanno preso ad esempio il codice di condotta Minniti, o qualcuno da parte italiana gli ha suggerito di ricopiarlo nei punti salienti, quelli che consentono di fatto il blocco dei soccorsi umanitari. Un livello di collaborazione tra Italia e Libia, o meglio con quello che ne rimane a Tripoli, con il governo Serraj, che non si era mai raggiunto prima, neppure ai tempi di Maroni e Salvini. Con i Memorandum d’intesa ed i soldi (europei) si può evidentemente questo e altro.
La definizione di Guardia costiera libica appare destituita di fondamento perché in realtà ciascuna città (Zuwara, Tripoli, Zawia, Sabratha, Gharian, Khoms) è controllata da milizie diverse che a loro volta dispongono di unità navali che vengono denominate “Guardia costiera libica”, pur senza corrispondere ad un Comando centrale unificato. Sono quelle unità che si dirigono verso le acque internazionali e che, a seconda dei rapporti con le milizie che gestiscono il traffico, lasciano passare, oppure bloccano le imbarcazioni cariche di migranti che sono riuscite a raggiungere le acque internazionali, in diversi casi, ormai documentati anche in sede giudiziaria, sotto il “sostanziale” coordinamento della Marina militare italiana. Sono due anni che l‘Unione Europea e l’Italia tentano di costruire un Comando centrale di coordinamento a Tripoli, ma si è ancora allo stato dei progetti e dei comunicati stampa. Il governo italiano in carica non sembra affatto intenzionato a discostarsi da questa linea di continuità.
La continuità del Viminale
In questo quadro il recente incontro, rimasto riservato a lungo, tenuto al Viminale tra alcune ONG ed il ministro dell’interno è stato cosa ben diversa dalla “riapertura di un dialogo” ma ha costituito soltanto un tardivo segnale di discontinuità e soprattutto un pretesto per la campagna elettorale che le destre hanno sfruttato per diffondere altre fake news sulla politica dei “porti aperti” che sarebbe stata inaugurata dal ministro Lamorgese. Quando invece i Decreti Sicurezza del precedente governo rimangono ancora operativi e le prassi attuate dai prefetti si mantengono su una linea di piena continuità con le disposizioni imposte da Salvini. Come si è visto da ultimo nei casi Ocean Viking ed Alan Kurdi, che dopo essere stata oggetto di un fuoco di avvertimento da parte delle motovedette di Zuwara è adesso relegata in una condizione di silenzioso abbandono in alto mare, mentre al governo si fanno i conti della disfatta elettorale subita in Umbria.
Gli sbarchi in Italia, dopo i soccorsi operati nelle acque internazionali del Mediterraneo centrale, continuano ad essere autorizzati solo dopo che si sono trovati altri paesi europei disposti a prendere in carico la maggior parte dei naufraghi, e in questo modo si prolungano le attese in alto mare dei naufraghi che avrebbero diritto allo sbarco quanto più sollecito possibile in un porto sicuro. In molti casi , ancora nelle ultime settimane, senza l’intervento di Alarm Phone e dell’aereo Moonbird gli stati, compresa l’Italia con il nuovo governo, negherebbero le loro responsabilità.
La zona SAR della Libia
Una politica dell’abbandono in mare, e del ricatto a livello europeo, che si gioca non più sulle direttive contenenti intimazioni contro le ONG e sui divieti espliciti di ingresso nelle acque territoriali, comunicati magari attraverso i social, ma in modo molto più sottile, non rispondendo alle richieste di sbarco e neppure alle chiamate di soccorso in acque internazionali, per le quali si indica la competenza delegata alle autorità libiche. Una delega “in esclusiva” che comporta la violazione degli obblighi di salvataggio imposti comunque agli stati anche al di fuori dell’area SAR di propria competenza. Da questa delega in bianco ai libici derivata dal Memorandum d’intesa del 2 febbraio 2017 è derivata la convinzione diffusa nell’opinione pubblica italiana, non meno che tra i comandanti delle motovedette libiche, che la cosiddetta zona SAR libica corrisponda ad uno spazio di sovranità, e non sia invece, una zona nella quale uno stato assume la responsabilità di ricerca e salvataggio di persone che potrebbero fare naufragio, equiparate a criminali da inseguire ed arrestare. la Convenzione SAR non è una convenzione che attribuisce sovranità, ma impone degli obblighi. Impone cioè allo Stato che si assume la responsabilità del coordinamento dei soccorsi in una certa zona una serie di obblighi di garanzia dell’efficacia e della velocità di quei soccorsi. E impone agli stati confinanti di coordinarsi e di attivarsi per garantire il superiore interesse della salvaguardia della vita umana in mare, quale che sia la bandiera del primo mezzo di soccorso che può intervenire. L’importante è che le persone vengano soccorse nel tempo più rapido possibile e sbarcate nel porto sicuro più vicino, come in diverse occasioni ha ricordato all’Italia anche la Commissione Europea.
Per effetto delle linee operative impartite dal governo giallo-verde e confermate anche dal nuovo governo giallo-rosso (?), le motovedette della Guardia di Finanza e della Guardia Costiera operano soltanto in prossimità delle nostre acque territoriali (12 miglia dalla costa) non spingendosi mai oltre la cosiddetta zona contigua (24 miglia dalla costa) mentre le navi della missione Mare Sicuro che dovrebbero presidiare le acque internazionali più vicine alle acque territoriali libiche, anche all’interno della pretesa zona SAR libica per garantire la sicurezza dei pescatori e delle unità di supporto alle piattaforme petrolifere offshore, sono scomparse, o rimangono inerti quando ci sono chiamate di soccorso magari a poche miglia dal luogo nel quale si trovano.
La missione italiana e l’accordo di Malta
Continua la missione Nauras della Marina Militare presente nel porto di Abu Sittah a Tripoli, e dunque continua il coordinamento e l’assistenza garantita da questa missione alle motovedette donate nel tempo dall’Italia ed in atto gestite dalla ccosiddetta guardia costiera libica. Coordinamento che sembra non venga intaccato dal nuovo codice di condotta varato dai libici per interdire gli interventi di ricerca e soccorso delle ONG, non soltanto nelle loro acque territoriali, ma nelle acque internazionali in violazione del principio della libertà di navigazione e degli obblighi di soccorso immediato che competono a qualsiasi comandante di una nave che abbia notizia di una imbarcazione in pericolo da raggiungere nel tempo più rapido possibile.
La bozza dell’accordo europeo sui migranti stipulata un mese fa a Malta si mantiene sulla stessa linea di considerare le ONG un fattore di attrazione (pull factor) e prelude alla loro ulteriore criminalizzazione. I punti principali dell’accordo, prevedono la esternalizzazione delle frontiere in Libia e le “piattaforme” in quel paese per lo sbarco delle persone soccorse nel Mediterraneo centrale, che non costituisce affatto “un primo passo verso la riforma del Regolamento di Dublino”. Altri passaggi della bozza di Malta, che peraltro non ha avuto il riscontro del Consiglio europeo che si attendeva, ricalca il codice di condotta per le ONG voluto dal governo Gentiloni nell’estate del 2017: al punto 6 dell’accordo per esempio si allude al pull factor, come se la presenza delle ONG incentivasse le partenze dalla Libia. La stessa accusa infamante lanciata da anni, con le peggiori calunnie, dai sovranisti europei e dalle destre italiane.
Come si denuncia in una lettera aperta del Tavolo Asilo, “l’orrore dei lager in cui vengono rinchiusi i migranti intercettati è stato ormai ampiamente documentato. Torture, violenze, stupri e altre vessazioni finalizzate a calpestarne i diritti e la dignità di esseri umani. Tutto ciò, unito alla guerra alle Ong che fanno salvataggi in mare, ha comportato un aumento esponenziale di morti nel Mediterraneo centrale, che ormai è diventata la rotta più pericolosa per i migranti in fuga”.
Gli accordi con la Libia e le violazioni dei diritti umani
Non basterà ancora per molto tempo censurare il flusso di notizie che stanno arrivando per confermare gli abusi perpetrati sui migranti intercettati in acque internazionali dalla Guardia Costiera “libica”, e se ne sta occupando anche la Corte penale internazionale. Mentre in Italia le procure continuano ad indagare sui soccorritori. Non sembra che i corsi di formazione impartiti da italiani e agenti europei a bordo delle navi della missione Sophia, e da ultimo su assetti della Marina Militare italiana, con il coordinamento satellitare SEAHORSE siano serviti ad implementare nei libici una pratica rispettosa dei diritti umani delle persone fermate in mare.
Di fronte a tale situazione, che appare evidente a chi soltanto voglia considerare le condizioni fisiche delle persone che vengono sbarcate nei porti italiani, e le torture che portano impresse in molti, nel corpo e nella propria anima, non si può attribuire alcuna valenza al Codice di Condotta contro le ONG adottato per decreto dal governo Serraj di Tripoli, così come non si poteva attribuire alcuna rilevanza al codice di condotta Minniti, per la violazione del divieto di respingimento (refoulement), sancito dall’art. 33 della Convenzione di Ginevra, e dagli articoli 1 (Diritto alla vita), 3 (divieto di trattamenti inumani o degradanti) e 13 (Diritto di difesa), affermati dalla Convenzione Europea a salvaguardia dei diritti dell’Uomo. Nei Tribunali si è già osservato come nessun Codice di Condotta, peraltro privo di base legale, in quanto frutto di un accordo tra le parti, o frutto di un decreto di un governo che non rispetta i diritti umani, può consentire la violazione dei diritti fondamentali della persona.
Gli accordi con la Libia non possono essere tacitamente prorogati, come il governo italiano si sta accingendo a fare, in modo da consentire alle autorità libiche l’adozione di prassi e di atti normativi in violazione del diritto internazionale e gravemente lesivi dei diritti fondamentali della persona. Secondo il Giudice delle indagini preliminari di Trapani, “è nullo qualsiasi trattato che, al momento della sua conclusione, sia in contrasto con una norma imperativa di diritto internazionale generale; – incompatibile con l’articolo 10 comma 1 della Costituzione, secondo cui ‘l’ordinamento italiano si conforma alle norme di diritto internazionale generalmente riconosciute, tra le quali rientra ormai anche il principio di non-refoulement’”.
Se le violazioni ai comandi impartiti alle navi delle ONG, che operano soccorsi nella cosiddetta zona SAR libica, ma in acque internazionali, sono frutto di un ordine (illegittimo) dell’autorità, siano esse libiche o italiane o ancora europee, appare legittimo disobbedire e dare priorità al diritto alla vita ed all’integrità fisica delle persone soccorse, ovunque avvengano i soccorsi, da qualunque mezzo siano operati.