di Franca Regina Parizzi
Siamo stati e siamo tuttora incessantemente martellati da una serie di informazioni sul nuovo Coronavirus, molte delle quali in aperta contraddizione tra loro e non soltanto da parte dei politici e dei media, ma anche – il che è ancora più grave – da parte degli esperti. Quegli esperti che hanno condizionato e condizionano le pesanti decisioni politiche che siamo oggi tenuti a rispettare, che limitano all’estremo la tanto decantata libertà personale, che è sancita dalla nostra Costituzione e che caratterizza la nostra società democratica.
Militari e poliziotti presidiano molte strade in diverse aree della nostra penisola, si può uscire di casa solo per seri e limitati motivi, si deve compilare un modulo di autocertificazione e le verifiche sulla veridicità dei motivi addotti vengono già effettuate a random con conseguenti pesanti sanzioni in caso di false dichiarazioni.
Ma si doveva arrivare a questo punto per salvaguardare la salute pubblica?
E cosa e come cambierà dopo, quando questo incubo sarà finito?
Sono dubbi che meriterebbero una profonda riflessione, che purtroppo non è il momento di affrontare, perché è una situazione di emergenza. Prima la salute.
Mi domando tuttavia se la colpa sia da attribuire tutta all’incoscienza e all’irresponsabilità dei cittadini, che, fregandosene della raccomandazioni al distanziamento sociale, hanno affollato locali della movida, vie dello shopping, mercati, stazioni sciistiche, aeroporti, stazioni e metropolitane, contribuendo certamente alla diffusione del contagio.
Si doveva per forza arrivare a misure così coercitive?
Io credo che una seria, corretta, responsabile e coerente informazione non ci sia stata. E che questo sia stato in larga misura responsabile del comportamento di molti cittadini.
Non bastano quotidiani bollettini di guerra (numero di contagiati, numero di decessi ecc.) per sensibilizzare e rendere responsabile la popolazione. Anzi, la sovrainformazione (o infodemia per usare un temine coniato proprio in questa realtà attuale) è di per se causa di rifiuto e inadempienza alle raccomandazioni. E così siamo arrivati a una situazione che solo un paio di mesi fa sarebbe stata impensabile: la paura collettiva e misure drasticamente coercitive.
Sono un medico (infettivologo). Per coscienza professionale non posso non concordare con le misure restrittive adottate dal nostro governo, oggi più che mai necessarie per rallentare questa epidemia. Non ho né la competenza né la lungimiranza per fare valutazioni di carattere generale e politico. Ma questo “stato di guerra”, con poliziotti e militari in giro a fare controlli, non mi piace, ricorda uno scenario da golpe militare.
Quello che mi fa rabbia è che la responsabilità di tutta questa situazione che si è venuta a creare sia in parte dovuta proprio alle opinioni contraddittorie degli esperti: scienziati, virologi, infettivologi, epidemiologi. Un dibattito senza esclusione di colpi, che avrebbe dovuto essere circoscritto al mondo scientifico e avrebbe dovuto condurre a un messaggio chiaro, univoco e soprattutto prudente.
Molto rumore per nulla. E’ una banale influenza. Quelli che muoiono sono i vecchi (ma anche giovani e sportivi sono oggi ricoverati nelle Terapie Intensive). E’ perché hanno altre malattie, non sono morti per il Coronavirus, ma conil Coronavirus. Quante volte abbiamo ascoltato questi messaggi? Ma quei vecchi, che magari prendevano le loro pillole per la pressione alta o per il diabete, fino a due giorni prima facevano le loro passeggiate, andavano a giocare a bocce o al bar a giocare a carte o al biliardo. Vivevano una normale, serena vecchiaia. Vivevano!
La gente ha recepito messaggi contrastanti dagli esperti, in parte allarmanti, in parte rassicuranti, addirittura banalizzanti. A chi doveva credere? E’ naturale, istintivo, credere a chi ci rassicura.
E intanto che i vari esperti discutevano e litigavano nei talk show, sui media e sui social network, i contagiati aumentavano in maniera esponenziale, i reparti di Malattie Infettive e di Terapia Intensiva si saturavano, i malati morivano. Gli operatori sanitari in prima linea, medici e infermieri, fino a pochi giorni fa non li intervistava quasi nessuno, nessuno chiedeva il loro parere. Peraltro non ne avevano e non ne hanno il tempo, massacrati come sono di lavoro e pieni di rabbia. Quella rabbia che nasce dalla paura di non farcela, di non farcela a resistere a ritmi di lavoro disumani, di non farcela a riportare alla vita i troppi casi disperati, di vedere morire i pazienti soli, senza il conforto dei propri cari vicini. Quella rabbia che deriva dalla constatazione che i loro sforzi sono stati inutili. Accettare il fallimento è davvero difficile.
Rabbia, paura, dolore, ansia, stanchezza, insoddisfazione, senso di impotenza e frustrazione sono tutte reazioni umane a una sollecitazione emotiva che sfocia inevitabilmente nella sindrome del burn out.
Perché è anche di questo che bisogna tener conto: non soltanto dell’esaurimento dei posti letto e delle attrezzature nelle Terapie Intensive, ma anche dei limiti di resistenza fisica e psicologica del personale sanitario che vi presta la sua opera.
Arrivare a quelle misure coercitive che il decreto del Presidente del Consiglio del 12 marzo impone è in parte dovuto a una serie di errori e leggerezze nella comunicazione da parte di tutti: politici, giornalisti, ma anche degli scienziati.
A questo punto è necessario – oltre che obbligato – attenersi a queste regole, ma attenti alle false illusioni: l’epidemia rallenterà, ma non potranno vedersi i primi risultati prima di due-tre settimane. E non con una scomparsa dell’epidemia, ma solo un suo rallentamento, tale cioè da adeguarsi alle risorse disponibili (in termini di strutture e risorse umane) del nostro Sistema Sanitario Nazionale. L’aumento dei posti letto e delle attrezzature delle Terapie Intensive e le nuove assunzioni su vasta scala di medici, infermieri e operatori socio-sanitari (tutte rigorosamente a tempo determinato!) sono la dimostrazione di una situazione di massima allerta, che durerà mesi (quanti non possiamo dirlo) e non soltanto poche settimane.