di Fulvio Vassallo Paleologo
Sembra generalmente condivisa, anche tra la comunità scientifica e i massimi organismi sanitari (OMS), la consapevolezza che la pandemia da COVID-19 possa durare ancora a lungo, in tutti i paesi del mondo, ed avere anche fasi di ritorno, ammesso che si arrivi ad un suo primo superamento. Secondo recenti dichiarazioni del ministro alla salute Speranza, il ritorno alla “normalità” sarà possibile solo quando sarà stato scoperto un vaccino. Dunque la possibilità che la legislazione e la decretazione dell’emergenza si protraggano a lungo è sempre più concreta. Nulla sarà più come prima. Le prospettive di cura e la soluzione del vaccino appaiono ancora assai lontane, e potrebbe sempre verificarsi la mutazione del virus o la irruzione di altre pandemie estese su scala globale. La mobilità umana globale basata sulla libertà di autodeterminazione appare ormai un lontano ricordo, mentre si profilano nuove migrazioni forzate e nuovi sistemi di confinamento, non solo per i migranti, ma anche per le popolazioni autoctone. Come ha affermato Rifkin “la distanza sociale sarà la regola”.
I generici appelli che unendo le forze possa tornare tutto come prima, come se fossimo tutti “sulla stessa barca”, sono immediatamente smentiti dai fatti. Non esiste vera solidarietà a livello globale, dove imperversa ancora una guerra economica, l’Unione Europea sta andando in pezzi per gli egoismi dei singoli stati membri, a livello nazionale le Regioni sembrano spingere in tante direzioni diverse, non manca neppure il protagonismo dei sindaci. La concorrenza tra i diversi territori diventerà più feroce quando ci saranno da redistribuire i costi della crisi economica, già grave per effetto dei fallimenti del neo-liberismo globale, ma resa irreversibile, soprattutto nelle aree economiche più deboli, dalle conseguenze economiche del COVID-19. Come rileva Chomsky, “Si sapeva da tempo che era molto probabile che si verificassero delle pandemie e si era capito molto bene che delle leggere modifiche dell’epidemia di SARS dovute alla pandemia di coronavirus erano probabili. Avrebbero potuto lavorare sui vaccini, sullo sviluppo di una protezione per potenziali pandemie da coronavirus, e con lievi modifiche avremmo potuto avere i vaccini disponibili oggi”.
In diversi paesi del mondo si profila un inquietante scontro tra la “salute pubblica”, di cui rimangono depositari i governi con i loro poteri di emergenza e i diritti fondamentali individuali, incluso il diritto individuale alla salute, che nel modello delle grandi Costituzioni dovrebbero spettare a tutte le persone, indipendentemente dalla cittadinanza, dall’età, o dal reddito di cui dispongono. Anche se la crisi sanitaria dovesse essere risolta, o attenuata in un singolo paese, si può prevedere che si moltiplicheranno le frontiere ed i confinamenti. Apparati di sicurezza sempre più invasivi saranno destinati a limitare la mobilità umana, come sta succedendo da tempo in Cina, e come progressivamente si verificherà nel resto del mondo, seppure con modalità diverse, anche al fine di garantire la “salute pubblica” impedendo i cd “casi di infezione di ritorno”.
Le prime soluzioni di “uscita” dalla fase attuale di pandemia che si profilano nei piani dei governi europei comprendono un ritorno forzato al lavoro delle generazioni più giovani, che si ritiene più resistenti al virus (almeno fino al 50-60 anni) ed un confinamento forzato a tempo indeterminato, e comunque in modo ricorrente se l’epidemia dovesse ripresentarsi, di tutti coloro che hanno raggiunto i 65-70 anni di età. Si profilano dunque nuove barriere d’età che potrebbero alimentare isolamento sociale e conflitto tra generazioni. Saranno forse gli studi epidemiologici, a stabilire tra qualche anno quanto siano state efficaci queste misure, parziali e mirate a specifici target, di contenimento della libertà di circolazione. Le gravi limitazioni della libertà di circolazione imposte alle persone appaiono intanto, anche indipendentemente dall’età, in contrasto con il dettato costituzionale e in particolare con il principio di uguaglianza (art. 3) e con le garanzie in materia di diritti alla libertà personale (art.13) ed alla libertà di circolazione (art. 16).
Il 31 gennaio scorso il Consiglio dei ministri ha decretato lo stato di emergenza in conseguenza del rischio sanitario connesso all’insorgenza di patologie derivanti da agenti virali trasmissibili, il COVID-19. Da quella data un profluvio di decreti del Presidente del Consiglio (DPCM) ed ordinanze di Presidenti di regione e sindaci, hanno costituito un fitto reticolo normativo, di carattere amministrativo, che ha imposto, alla base di tutto il sistema di contrasto, il cd. distanziamento sociale.
Non si deve tuttavia scambiare lo stato di emergenza che si stabilisce per finalità di protezione civile, con lo stato di emergenza che si risolve nella dichiarazione di stato di guerra in base al’art. 78 della Costituzione. Anche se nel linguaggio corrente è purtroppo diffusa l’espressione “siamo in guerra” contro il COVID-19, a giustificazione delle misure di emergenza adottate dal governo.
Lo “stato di emergenza” è previsto dalla legge 225 del 24 febbraio 1992 in materia di Protezione Civile che prevede che venga emanata la delibera da parte del Governo in casi eccezionali. Secondo questa legge, “al verificarsi degli eventi di cui all’articolo 2, comma 1, lettera c) (come calamità naturali, catastrofi o altri eventi che, per intensità ed estensione, debbono essere fronteggiati con mezzi e poteri straordinari) il Consiglio dei ministri, su proposta del Presidente del Consiglio dei ministri, ovvero, per sua delega ai sensi dell’articolo 1, comma 2, del Ministro per il coordinamento della protezione civile, delibera lo stato di emergenza, determinandone durata ed estensione territoriale in stretto riferimento alla qualità ed alla natura degli eventi. Con le medesime modalità si procede alla eventuale revoca dello stato di emergenza al venir meno dei relativi presupposti.”
Il D.L. 59/2012 ha introdotto anche un nuovo comma 1-bis dell’articolo 5, apportando un’ulteriore novità al sistema di protezione civile attraverso l’introduzione di una durata massima dello stato di emergenza, pari a novanta giorni, prorogabile o rinnovabile di regola una sola volta – previa ulteriore deliberazione del Consiglio dei Ministri – di ulteriori sessanta giorni. Si prevede anche che ” per l’attuazione degli interventi da effettuare durante lo stato di emergenza dichiarato a seguito degli eventi di cui all’articolo 2, comma 1, lettera c), si provvede anche a mezzo di ordinanze in deroga ad ogni disposizione vigente, nei limiti e secondo i criteri indicati nel decreto di dichiarazione dello stato di emergenza e nel rispetto dei principi generali dell’ordinamento giuridico.
Le ordinanze sono emanate, acquisita l’intesa delle regioni territorialmente interessate, dal Capo del Dipartimento della protezione civile, salvo che sia diversamente stabilito con la deliberazione dello stato di emergenza di cui al comma 1. L’attuazione delle ordinanze è curata in ogni caso dal Capo del Dipartimento della protezione civile. Con le ordinanze, nei limiti delle risorse a tali fini disponibili a legislazione vigente, si dispone in ordine all’organizzazione e all’effettuazione dei servizi di soccorso e di assistenza alla popolazione interessata dall’evento, alla messa in sicurezza degli edifici pubblici e privati e dei beni culturali gravemente danneggiati o che costituiscono minaccia per la pubblica e privata incolumità, nonché al ripristino delle infrastrutture e delle reti indispensabili per la continuità delle attività economiche e produttive e per la ripresa delle normali condizioni di vita, e comunque agli interventi volti ad evitare situazioni di pericolo o maggiori danni a persone o a cose”.
Come ricorda Ilenia Massa Pinto, “la Delibera del Consiglio dei Ministri dichiara che è in atto il tipo di evento emergenziale più grave tra quelli previsti dalla normativa sulla protezione civile: la lett. c) si riferisce infatti alle «emergenze di rilievo nazionale connesse con eventi calamitosi di origine naturale o derivanti dall’attività dell’uomo che in ragione della loro intensità o estensione debbono, con immediatezza d’intervento, essere fronteggiate con mezzi e poteri straordinari da impiegare durante limitati e predefiniti periodi di tempo ai sensi dell’articolo 24». E l’art. 24 prevede che con la dichiarazione dello stato di emergenza il Consiglio dei ministri autorizzi l’emanazione delle ordinanze di protezione civile di cui all’articolo 25, che possono essere adottate «in deroga ad ogni disposizione vigente, nei limiti e con le modalità indicati nella deliberazione dello stato di emergenza e nel rispetto dei principi generali dell’ordinamento giuridico e delle norme dell’Unione europea”. Tra i principi generali dell’ordinamento giuridico si possono richiamare i diritti fondamentali sanciti dalla nostra Costituzione, che in una situazione temporanea di emergenza possono essere compressi, ma non possono essere cancellati a tempo indeterminato.
Secondo David Puente, “la delibera del Consiglio dei Ministri del 31 gennaio 2020 con la quale viene “dichiarato per sei mesi lo stato di emergenza in conseguenza di un rischio sanitario connesso all’insorgenza di patologie derivanti da agenti virali trasmissibili” è un provvedimento che non ha forza di legge così come precisato dall’art.3 della legge n.20/1994. Articolo 3 dove si prevede che “nei confronti dei provvedimenti emanati a seguito di deliberazioni del Consiglio dei Ministri e degli atti del Presidente del Consiglio dei Ministri” debba esserci l’obbligo del “controllo preventivo di legittima da parte della Corte dei Conti” in quanto si tratta di provvedimenti ed atti “non aventi forza di legge”!
Il decreto legge 23 febbraio 2020 n. 6 (Misure urgenti in materia di contenimento e gestione dell’emergenza epidemiologica da COVID-19), convertito, con modificazioni, dalla legge 5 marzo 2020 n. 13, specifica alcune norme di rango costituzionale che possono essere derogate, tra queste, ma l’elenco non è tassativo, la libertà di circolazione e soggiorno (art. 16 Cost.), la libertà di riunione (art. 17 Cost.) e la libertà di professare la propria fede religiosa (art. 19 Cost, il diritto all’istruzione e alla cultura (artt. 9-33-34 Cost.), la libertà personale (art. 13); la libertà d’iniziativa economica privata (art. 41 Cost.), il diritto al lavoro (artt. 4 e 35 ss. Cost).
L’art. 3 di questo decreto legge elenca le forme attraverso le quali le misure di contenimento introdotte dal decreto possono essere adottate: «uno o più decreti del Presidente del Consiglio dei ministri, su proposta del Ministro della salute, sentito il Ministro dell’interno, il Ministro della difesa, il Ministro dell’economia e delle finanze e gli altri Ministri competenti per materia, nonché i Presidenti delle regioni competenti, nel caso in cui riguardino esclusivamente una sola regione o alcune specifiche regioni, ovvero il Presidente della Conferenza dei presidenti delle regioni, nel caso in cui riguardino il territorio nazionale».
In casi di estrema necessità ed urgenza, le misure di contenimento potranno essere adottate dal Ministro della salute, dai Presidenti di regione e dai sindaci, ai sensi dell’art. 32 della l. 23 dicembre 1978 n. 833, dell’art. 117 del d. lgs. 31 marzo 1998 n. 112 e dell’art. 50 del T.U. delle leggi sull’ordinamento degli enti locali.
Per Michele Ainis, giurista costituzionalista e componente dell’Autorità garante della Concorrenza e del Mercato, “è evidente che il ricorso massiccio ai Dpcm come strumento normativo “qualche problema lo crea perché il Dpcm è un atto di normazione secondaria, non è un atto che ha la stessa forza della legge. Ha un collegamento con il decreto, è figlio del decreto del 6 febbraio 2020, però ha una forza normativa debole, troppo debole per incidere su libertà costituzionali come quella di movimento, di riunione, di libertà di culto. Tutte libertà protette dalla riserva di legge della costituzione.
Dopo il decreto del Presidente del Consiglio dei ministri adottato il 4 marzo, Sabino Cassese, giudice emerito della Corte costituzionale, ha osservato che “nell’interpretazione della Costituzione non si può giocare con le parole. Una pandemia non è una guerra. Non si può quindi ricorrere all’articolo 78. La Costituzione è chiara. La profilassi internazionale spetta esclusivamente allo Stato ( art. 117, II comma, lettera q)”. Secondo Cassese, “Lo Stato agisce con leggi che possono delegare al governo compiti e definirne i poteri. La Corte costituzionale, con un’abbondante giurisprudenza, ha definito i modi di esercizio del potere di ordinanza “contingibile e urgente”, cioè per eventi non prevedibili e che richiedono interventi immediati. Le definizioni della Corte sono state rispettate a metà. Il primo decreto legge era “fuori legge”. Poi è stato corretto il tiro, con il secondo decreto legge, che smentiva il primo, abrogandolo quasi interamente. Questa non è responsabilità della politica, ma di chi è incaricato degli affari giuridici e legislativi. C’è taluno che ha persino dubitato che abbiano fatto studi di giurisprudenza”.
Cassese, poi spiega che “il primo decreto legge era illegittimo: non fissava un termine; non tipizzava poteri, perché conteneva una elencazione esemplificativa, così consentendo l’adozione di atti innominati; non stabiliva le modalità di esercizio dei poteri. A Palazzo Chigi c’è un professore di diritto: avrebbe dovuto bocciare chi gli portava alla firma un provvedimento di quel tipo. Poi si è rimediato. Ma continua la serie di norme incomprensibili, scritte male, contraddittorie, piene di rinvii ad altre norme. Non c’è fretta che spieghi questo pessimo andamento, tutto imputabile agli uffici di Palazzo Chigi incaricati dell’attività normativa”.
Il Consiglio dei Ministri, su proposta del Presidente Giuseppe Conte e del Ministro della salute, Roberto Speranza, ha approvato il 24 marzo un decreto-legge che introduce misure urgenti per fronteggiare l’emergenza epidemiologica da COVID-19. Si tratta del Decreto legge n.19 del 25 marzo 2020, adesso pubblicato nella Gazzetta Ufficiale. Per contenere e contrastare i rischi sanitari derivanti dalla diffusione del virus COVID-19, su specifiche parti del territorio nazionale ovvero, occorrendo, sulla totalità di esso, possono essere adottate dal governo nazionale, secondo quanto previsto dal decreto, “una o più misure tra quelle di cui al comma 2, per periodi predeterminati, ciascuno di durata non superiore a trenta giorni, reiterabili e modificabili anche più volte fino al 31 luglio 2020 e con possibilità di modularne l’applicazione in aumento ovvero in diminuzione secondo l’andamento epidemiologico del predetto virus”.
Come riferisce un comunicato della Presidenza del Consiglio, tra le altre misure, si prevede ” la limitazione della circolazione delle persone, il divieto assoluto di allontanarsi dalla propria abitazione per i soggetti in quarantena perché contagiati e la quarantena precauzionale per le persone che hanno avuto contatti stretti con soggetti contagiati; la limitazione, la sospensione o il divieto di svolgere attività ludiche, ricreative, sportive e motorie all’aperto o in luoghi aperti al pubblico, riunioni, assembramenti, congressi, manifestazioni, iniziative o eventi di qualsiasi natura”; la limitazione o la sospensione di ogni attività d’impresa o di attività professionali e di lavoro autonomo che non rientrino nell’elenco delle cd. “attività essenziali”. In realtà le limitazioni della libertà di circolazione sono molto più stringenti e modulabili di quanto contenuto nel comunicato della Presidenza del Consiglio dei ministri.
Si prevede infatti:
a) limitazione della circolazione delle persone, anche prevedendo limitazioni alla possibilità di allontanarsi dalla propria residenza, domicilio o dimora, se non per spostamenti individuali, limitati nel tempo e nello spazio e motivati da esigenze lavorative, da situazioni di necessità, da motivi di salute o da altre specifiche ragioni;
b) chiusura al pubblico di strade urbane, parchi, aree gioco, ville e giardini pubblici o altre aree analoghe;
c) divieto di allontanamento e di ingresso in territori comunali, provinciali o regionali;
Si sono quindi alternati in rapida successione decreti legge, leggi di conversione, decreti del Presidente del Consiglio dei ministri (DPCM), provvedimenti in forma di Ordinanza adottati dai Presidenti di regione, ordinanze dei Sindaci, e vari provvedimenti adottati dal capo della Protezione civile. Chi all’inizio sembrava orientato a consentire una maggiore libertà di circolazione è poi diventato, di fronte all’espandersi dell’epidemia in alcune regione settentrionali, uno strenuo fautore delle misure di chiusura e di blocco delle attività, salvo a ritornare successivamente, sotto la spinta delle organizzazioni degli industriali e dei produttori, favorevole ad un superamento della prima fase dell’emergenza, ancora in corso, come conferma soprattutto l’elevato numero di vittime, e ad un riavvio delle attività economiche. sembra invece meno rilevante il problema della limitazione della libertà di circolazione, fino al limite della limitazione della stessa libertà personale quando si impedisce alle persone di uscire di casa. o si limita tale diritto con modalità che ne svuotano il contenuto, soprattutto quando si restringe ad un unico componente del nucleo familiare.
Il comma I, lettera b), dell’articolo 1 del DPCM 22 Marzo 2020, abolisce la previsione già contenuta nell’articolo 1, comma I, lettera a), del DPCM 8 Marzo, dove si assicurava il rientro nel luogo di domicilio, abitazione o residenza. Secondo quanto previsto dal DPCM del 22 marzo, tale rientro risulta consentito unicamente nel caso ove lo spostamento all’esterno risulti connesso ai motivi legittimanti: comprovate esigenze lavorative, esigenze di assoluta urgenza, motivi di salute.
Secondo la circolare del ministero dell’interno del 23 marzo 2020, che disciplina anche il blocco delle attività produttive “non essenziali”, si specifica il divieto per tutte le persone fisiche di trasferirsi o spostarsi con mezzi di trasporto pubblici o privati dal comune in cui attualmente si trovano.
In base a tale circolare, “Tali spostamenti rimangono consentiti solo per comprovate esigenze lavorative, di assoluta urgenza ovvero per motivi di salute. La disposizione, anche tenendo conto delle esigenze recentemente emerse e che hanno condotto alcuni Presidenti di Regioni ad adottare apposite ordinanze, persegue la finalità di scongiurare spostamenti in ambito nazionale, eventualmente correlati alla sospensione delle attività produttive, che possano favorire la diffusione dell’epidemia. Si colloca in tal senso la soppressione, prevista dalla stessa norma, dell’art. 1, comma 1, lett. a) del d.P.C.M. 8 marzo 2020 che consentiva il rientro presso il proprio domicilio, abitazione o residenza. Per effetto di tale soppressione, la citata disposizione – inizialmente prevista per alcuni specifici ambiti territoriali ed estesa all’intero territorio nazionale dall’art.1, comma 1 del d.P.C.M. 9 marzo 2020 – resta peraltro in vigore nella parte in cui raccomanda l’effettuazione di spostamenti all’interno del medesimo comune solo se motivati da comprovate esigenze lavorative o situazioni di necessità ovvero per motivi di salute. Tale norma da ultimo citata va pertanto letta in combinato disposto con l’art. 1, comma 1 lett. b) del nuovo d.P.C.M., che si riferisce agli spostamenti fra comuni diversi. Si ritiene peraltro opportuno evidenziare che, proprio in ragione della ratio ad essa sottesa, la previsione introdotta dal nuovo d.P.C.M. appare destinata ad impedire gli spostamenti in comune diverso da quello in cui la persona si trova, laddove non caratterizzati dalle esigenze previste dalla norma stessa. Rimangono consentiti, ai sensi del citato art. 1, lett. a) del d.P.C.M. 8 marzo 2020, i movimenti effettuati per comprovate esigenze lavorative o situazioni di necessità ovvero per motivi di salute, che rivestano carattere di quotidianità o comunque siano effettuati abitualmente in ragione della brevità delle distanze da percorrere.
Secondo la circolare, a firma del capo di gabinetto del ministro dell’interno Piantedosi, “rientrano, ad esempio, in tale casistica gli spostamenti per esigenze lavorative in mancanza, nel luogo di lavoro, di una dimora alternativa a quella abituale, o gli spostamenti per l’approvvigionamento di generi alimentari nel caso in cui il punto vendita più vicino e/o accessibile alla propria abitazione sia ubicato nel territorio di altro comune”.
Come al solito, in materia tanto rilevanti dal punto di vista costituzionale, si continua a utilizzare l’ordinanza o la circolare per definire la portata applicativa della norma, in realtà per fornirne la esatta valenza, con un trasferimento totale di competenze alla polizia nella qualificazione dei comportamenti penalmente rilevanti.
Sul ricorso ai Dpcm, il costituzionalista Cesare Mirabelli, presidente della Corte Costituzionale , rileva: “l’esigenza forte è di esercitare il potere di controllo e di indirizzo del Parlamento, e che le Camere non immaginino di non riunirsi: non esiste una quarantena delle istituzioni”. Anzi, è proprio il Parlamento che deve esercitare con più forza e attenzione il suo ruolo di controllo: “Il ruolo di controllo del Parlamento – ma anche del Presidente della Repubblica – in un momento come questo deve essere ancor più forte”. Insomma, non preoccupa tanto il fatto che ci siano delle limitazioni alla libertà di circolazione per esigenze di sicurezza o sanitarie, casi previsti dalla Costituzione, quanto che il ricorso a queste limitazioni possano diventare un’abitudine. “La nostra Carta prevede anche che” queste limitazioni siano previste “per legge e per un tempo determinato”, sottolinea Mirabelli. Inoltre, aggiunge, “occorre valutare se questi provvedimenti sono adeguati, se è legittima la fonte, Decreto del Presidente del Consiglio o legge che comunque lo autorizzi, e bisogna che si tratti di provvedimenti che prevedano tempi determinati di applicazione”.
Nel tentativo di semplificare la normativa emergenziale e cercare di dare una base costituzionale ai precedenti provvedimenti normativi, Il decreto legge n. 19 del 25 marzo 2020, disciplina le procedure per l’adozione delle misure di contenimento, prevedendo che siano introdotte con uno o più decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri, su proposta del Ministro della salute o dei presidenti delle regioni interessate, nel caso in cui riguardino una o alcune specifiche regioni, ovvero del Presidente della Conferenza delle regioni e delle province autonome, nel caso in cui riguardino l’intero territorio nazionale. È anche previsto che, nelle more dell’adozione dei decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri, il Ministro della salute possa introdurre le misure di contenimento con proprie ordinanze. Inoltre, per specifiche situazioni sopravvenute di aggravamento del rischio sanitario, i Presidenti delle regioni possono emanare ordinanze contenenti ulteriori restrizioni, esclusivamente negli ambiti di propria competenza. Viene cancellato il limite di sette giorni di efficacia e scompare la necessità che il governo nazionale approvi entro 24 ore dall’entrata in vigore le ordinanze che i singoli governatori ritengano di adottare su una parte o sull’intero territorio regionale.
Secondo l’art. 3 del decreto legge n.19 del 25 marzo 2019 (Misure urgenti di carattere regionale o infraregionale), ” 1. Nelle more dell’adozione dei decreti del Presidente del Consiglio dei ministri di cui all’articolo 2, comma 1, e con efficacia limitata fino a tale momento, le regioni, in relazione a specifiche situazioni sopravvenute di aggravamento del rischio sanitario verificatesi nel loro territorio o in una parte di esso, possono introdurre misure ulteriormente restrittive, tra quelle di cui all’articolo 1, comma 2,esclusivamente nell’ambito delle attività di loro competenza e senza incisione delle attività produttive e di quelle di rilevanza strategica per l’economia nazionale”. 2. I Sindaci non possono adottare, a pena di inefficacia, ordinanze contingibili e urgenti dirette a fronteggiare l’emergenza in contrasto con le misure statali, ne’ eccedendo i limiti di oggetto cui al comma 1.
Il Prefetto, informando preventivamente il Ministro dell’interno, assicura l’esecuzione delle misure avvalendosi delle Forze di polizia e, ove occorra, delle Forze armate, sentiti i competenti comandi territoriali. Al personale delle Forze armate impiegato, previo provvedimento del Prefetto competente, per assicurare l’esecuzione delle misure di contenimento di cui agli articoli 1 e 2 è attribuita la qualifica di agente di pubblica sicurezza.
Il Decreto legge n.19 del 25 marzo 2020 ha costituito un cedimento rispetto alle richieste dei Presidenti di alcune regioni, soprattutto delle regioni settentrionali, che invocavano poteri più ampi nell’adozione delle misure di contenimento per contrastare la diffusione del COVID-19. Il diverso andamento della pandemia su scala regionale giustifica senz’altro misure differenziate di limitazione della libertà di circolazione, e in presenza di un sistema sanitario che offre un numero limitato di posti in terapia intensiva ( a confronto con altri paesi europei) il contenimento della pandemia si è tradotto prevalentemente nel contenimento della libertà di circolazione dei cittadini. Lo stato, che non riesce a garantire una risposta immediata alla domanda di salute delle persone, imponendo quelle che sono state definite “scelte tragiche”, sta spostando sui singoli e sui loro comportamenti la responsabilità di una crisi che è frutto dell’abbattimento dei servizi di sanità pubblica a vantaggio delle strutture private. Che nessuno osa requisire o utilizzare con accesso aperto a tutti, a fini di salute pubblica.
Gli stessi Presidenti di regione che hanno condiviso politiche di tagli alla sanità ed all’istruzione pubblica, adesso dovrebbero garantire soluzioni concrete alla mancanza di adeguate strutture sanitarie, in un sistema che presentava già forti squilibri territoriali, al punto che molti pazienti delle regioni meridionali, per le malattie più gravi, erano costretti a recarsi nelle strutture specializzate del nord Italia. Si corre adesso il rischio che quelle frontiere che volevano ergere ai confini del paese, di fronte ai migranti in cerca di protezione, si ricostruiscano tra le diverse regioni, chiamate a sopportare costi sanitari sempre più elevati. Nei provvedimenti che dovrebbero caratterizzare la cosiddetta fase 2 si incentivano le misure di rientro nelle attività produttiva, aprendo alle correlate mobilità vincolate dei lavoratori, che altrimenti potrebbero rischiare la perdita del posto di lavoro, ma si insiste ed anzi si rafforza la prospettiva di limitare la libertà di circolazione non connessa all’assolvimento di esigenze lavorative.
Il Tar della Campania ha dato ragione al Presidente della Regione De Luca confermando il divieto di praticare sport all’aperto da lui stabilito con un’ordinanza emessa nell’ambito delle misure per il contenimento del contagio da coronavirus. Il Tribunale amministrativo regionale, infatti, con il decreto cautelare monocratico depositato il 18 marzo, ha respinto l’istanza cautelare di sospensione dell’ordinanza del presidente della Regione del 13 marzo e del successivo chiarimento del 14 marzo, che non consentono, tra l’altro, l’attività sportiva all’aperto ritenendola non compatibile con esigenze sanitarie, perché visto “il rischio di contagio, ormai gravissimo sull’intero territorio regionale” e “il fatto che dati che pervengono all’Unità di crisi istituita con Decreto del Presidente della Giunta regionale della Campania, n. 45 del 6.3.2020 … dimostrano che, nonostante le misure in precedenza adottate, i numeri di contagio sono in continua e forte crescita nella regione” va data “prevalenza alle misure approntate per la tutela della salute pubblica”.
La decisione del Tribunale amministrativo della Campania in merito ad un’ordinanza del Presidente della Regione De Luca non lascia adito alla speranza di un effettivo controllo giurisdizionale sulle attività della pubblica amministrazione in materia di contenimento della mobilità, come metodo di contrasto della diffusione del COVID-19. Subito dopo l’approvazione del Decreto legge n.19 del 25 marzo 2020, il Presidente De Luca ha immediatamente dimostrato una totale autonomia rispetto alle scelte del governo, estendendo le sue scelte restrittive in materia di libertà di circolazione sino al 14 aprile 2020.
Il Tribunale amministrativo della Sicilia ha recentemente respinto un ricorso con il quale si chiedeva la sospensione e poi l’annullamento delle ordinanze 14 del 3 aprile la 15 del 8 aprile emesse dal presidente della Regione Sicilia Nello Musumeci con riferimento alla mobilità tra regioni diverse.
Secondo il presidente del Tar di Palermo Calogero Ferlisi, “gli aspetti di massima prudenza sanitaria e prevenzione epidemiologica che sono sottesi alle ordinanze impugnate (entro cui si inscrivono i divieti e i limiti di libera circolazione cui fa riferimento parte ricorrente), – si legge nel decreto del presidente – appaiono prevalenti rispetto agli interessi ed alla posizione giuridica della parte, essendo, i predetti aspetti, correlati sia alla ormai conclamata e progressiva situazione di emergenza epidemiologica, sia all’insularità del territorio regionale e quindi alla praticabilità di un effettivo e capillare controllo dei movimenti da e per la Sicilia”. Il profluvio delle ordinanze dei presidenti di regione è ormai inarrestabile, e rende sempre più discrezionale l’applicazione delle norme vigenti da parte degli agenti di pubblica sicurezza addetti ai controlli.
Con il Decreto del Presidente del Consiglio (DPCM) del 10 aprile 2020 sono state adottate ulteriori disposizioni attuative del decreto-legge 25 marzo 2020, n. 19, recante misure urgenti per fronteggiare l’emergenza epidemiologica da COVID-19, applicabili sull’intero territorio nazionale. (20A02179) (GU Serie Generale n.97 del 11-04-2020)
Il DPCM, nel confermare l’attuale regime di sospensione delle attività commerciali al dettaglio, ad esclusione delle attività di vendita di generi alimentari e di prima necessità, inserisce, nel novero delle attività consentite, il commercio di carta, cartone e articoli di cartoleria, il commercio al dettaglio di libri, nonché il commercio al dettaglio di vestiti per bambini e neonati. Il provvedimento ribadisce l’obbligo di assicurare, oltre alla distanza interpersonale di un metro, che gli ingressi avvengano in modo dilazionato e che venga impedito di sostare all’interno dei locali più del tempo necessario all’acquisto di beni.
È stata inviata ai prefetti una circolare, firmata dal Capo di Gabinetto Matteo Piantedosi, che fornisce indicazioni in merito all’applicazione del decreto del Presidente del Consiglio dei ministri del 10 aprile 2020 che ha disposto l’applicazione su tutto il territorio nazionale, a far data dal 14 aprile e fino al 3 maggio 2020, di misure urgenti di contenimento del contagio, sia di carattere generale sia finalizzate allo svolgimento in sicurezza delle attività produttive industriali e commerciali. Per quanto riguarda gli esercizi commerciali la cui attività non è sospesa, il provvedimento ribadisce l’obbligo di assicurare, oltre alla distanza interpersonale di un metro, che gli ingressi avvengano in modo dilazionato e che venga impedito disostare all’interno dei locali più del tempo necessario all’acquisto di beni, raccomandando, comunque, l’adozione di specifici dispositivi di sicurezza.
Continuano a stratificarsi nel frattempo i provvedimenti dei Presidenti di Regione e dei sindaci. Da ultimo il Presidente della Regione Sicilia Musumeci ha adottato l’Ordinanza n. 17 del 18 aprile 2020 con la quale si dispone che è consentita, in quanto riconducibile a “situazione di necessità” finalizzata a sopperire alle esigenze alimentari e ai lavori di manutenzione per la prevenzione degli incendi, l’attività non imprenditoriale necessaria per la conduzione di terreni agricoli e per la cura degli animali. L’uscita nell’ambito del medesimo Comune o verso un Comune diverso da quello in cui attualmente si trova l’interessato, è consentita una sola volta al giorno e a un solo componente del nucleo familiare, ovvero a un soggetto delegato. E’, altresì, autorizzata l’attività di manutenzione di aree verdi e naturali, pubbliche e private. Le attività sono consentite solo nei giorni feriali. Saranno consentite le attività, così come previsto dal decreto del presidente del Consiglio dei ministri. E’ possibile correre, camminare e fare qualsiasi tipo di attività motoria purchè in prossimità della propria abitazione e si mantengano le distanze di sicurezza e in ogni caso si evitino assembramenti. E’ possibile correre o camminare da soli, o in compagnia di altri conviventi dello stesso nucleo familiare.
L’uscita con i bambini non rimane più limitata dunque alla circostanza che gli stessi accompagnino il genitore durante una delle attività consentite. Appare evidente come tale previsioni configurava rischi ancora maggiore di quelli che si potrebbero concretizzare se i bambini vengono accompagnati fuori di casa soltanto per una normale passeggiata. Rimangono tuttavia pesanti limitazioni. Secondo Musumeci ,“si può fare jogging vicino casa, ritornano le consegne a domicilio dei generi alimentari la domenica e nei festivi, si potrà curare l’orto, i titolari degli stabilimenti balneari possono cominciare a preparare la stagione estiva sistemando le cabine e pulendo gli arenili”. In realtà tutte le attività consentite sono soggette ad un elevato potere discrezionale delle forze di polizia e dei militari incaricati della sorveglianza, e le attività economiche saranno sottoposte ad un controllo sempre più pregnante da parte della Guardia di finanza e del Prefetto.
Si può dubitare che l’auspicato calo della pandemia possa legarsi a misure di pubblica sicurezza incentrate soprattutto sul (bio)contenimento dei movimenti dei cittadini, mentre non si riesce a sanificare il sistema sanitario nazionale, garantendo il diritto alla salute di pazienti ed operatori nelle strutture sanitarie e nelle residenze per anziani, e non si tenta neppure una vasta rilevazione dei campioni delle persone asintomatiche che in altri paesi europei, ed in alcune zone delle nostre regioni, hanno consentito un più efficace contrasto del virus. Allo stesso tempo non si adottano precauzioni minimali per coloro, e sono tanti, che comunque sono costretti a spostarsi per lavoro, mentre l’elenco delle cd. attività essenziali sembra espandersi a dismisura dopo le pressioni esercitate dalle associazioni degli industriali. Da una parte si obbligano migliaia di lavoratori ad uscire di casa e ad andare a lavorare in luoghi che non consentono sufficiente sicurezza sul lavoro. Da un’altra parte si prolungano a tempo indeterminato misure fortemente limitative della libertà di circolazione, e si cancella la libertà di associazione. Non saranno certo i controlli con gli elicotteri ed i droni, o le intercettazioni degli spostamenti attraverso le celle telefoniche che risolveranno il problema della tenuta delle misure di “contenimento”. Mentre si alimentano colposamente focolai di contagio nelle carceri e nei centri di detenzione per stranieri, da ultimo persino con la creazione di Hotspot galleggianti. Intanto si conferma la lunga durata della pandemia e la possibilità di ulteriori fasi di ritorno, mentre le misure di distanziamento sociale che erano state proposte come temporanee, sembrano destinate a protrarsi a tempo indeterminato.
Non si può escludere a questo punto che qualcuno, dopo avere limitato la libertà di circolazione, pensi a limitare il diritto di comunicazione tramite la rete. Qualunque opinione critica in tempi di “guerra” deve essere silenziata, di fatto la libertà di riunione prevista dalla Costituzione è stata cancellata, mentre avrebbe potuto garantirsi comunque con il rispetto delle distanze di sicurezza e con l’uso delle mascherine, ed i prossimi sviluppi della pandemia, soprattutto quando la crisi economica alimenterà le manifestazioni di protesta, potrebbero comportare l’adozione di misure di controllo sociale senza precedenti.
Il diritto fondamentale alla libertà della persona riconosciuto dall’art. 13 della Costituzione comprende la libertà fisica di movimento, in altre parole, il diritto di visitare o soggiornare in un luogo o spazio che è effettivamente accessibile (effettivamente o legalmente). La libertà fisica di circolazione protetta dalla Costituzione ( art. 16) deve avere un significato che va oltre la “libertà di movimento fisica” all’interno di una abitazione, anche per salvaguardare il fondamentale diritto alla salute garantito dall’art. 32 della stessa Costituzione.
Il divieto di lasciare il proprio appartamento senza potere raggiungere una abitazione secondaria, sia pure a scopo di ordinaria manutenzione, ad esempio un semplice controllo degli impianti, costituisce un impatto significativo sulla libera circolazione delle persone. Non è solo una lunga visita con amici o familiari o una vacanza, ma anche una esigenza meramente conservativa di un proprio bene, che dovrebbe consentire l’esercizio della libertà di circolazione. Rimangono peraltro tutte le imposte dovute allo stato ed agli enti locali, legate non solo alla proprietà del bene, ma anche al suo concreto utilizzo, come le tasse per lo smaltimento dei rifiuti. Le limitazioni alla libertà di circolazione possono dunque risultare lesive di diritti riconosciuti dalla Costituzione, come la libertà personale, la libertà di circolazione ed il diritto alla salute. Ma anche dei diritti connessi all’esercizio del diritto di proprietà e del diritto di svolgere attività economiche. Su quest’ultimo punto sarà impugnabile ogni arbitraria esclusione dall’elenco delle attività “definite essenziali” dalle autorità amministrative.
Le misure previste dai decreti del Presidente del Consiglio e dai Presidenti di Regione si stanno traducendo anche in una grave limitazione del diritto di accesso ai luoghi di lavoro ed ai presidi sanitari, soprattutto perchè nella loro concreta attuazione rimangono rimesse alla discrezionalità più ampia dell’autorità amministrativa, che determina le attività ritenute “essenziali”, e le modalità di esercizio della libertà di circolazione, senza organi giurisdizionali di controllo che ne possano sanzionare gli abusi. Alla fine, dopo una miriade di decreti ed ordinanze, la normativa che viene applicata effettivamente sui territori dipende dalle determinazioni dei Presidenti di regione, addirittura dei Sindaci, e dalle indicazioni impartite dal Viminale agli organi periferici di polizia, tramite i prefetti ed i questori. Quando in alcune ordinanze di Presidenti di regione, come nel caso della ordinanza n.15 adottata dal Presidente della regione Sicilia in data 8 aprile ultimo scorso, si giunge a prevedere che “le uscite per gli acquisti essenziali, ad eccezione di quelle per i farmaci, sono limitate ad una sola volta al giorno e ad un solo componente del nucleo familiare”, appare evidente che si arriva a limitare non solo la libertà di circolazione, garantita dall’art. 16 della Costituzione, ma la libertà personale di tutti gli altri componenti del nucleo familiare, garantita dall’art. 13 della Costituzione.
Gli atti amministrativi non possono limitare il diritto fondamentale alla libertà personale prevista dall’art. 13 della Costituzione, ma possono interferire solo con la libertà di circolazione garantita con limiti precisi dall’art. 16 della stessa Costituzione. Tutte le misure in questione avrebbero dovuto essere adottate nelle forme e secondo i presupposti previsti dalla legge nazionale. In particolare le restrizioni all’uscita dalle proprie abitazioni dovrebbero risultare proporzionate e non discriminatorie, in particolare se consistono in misure denominate “divieto di contatto” come le previsioni che limitano persino la possibilità di parlare a distanza tra le persone che si incontrano casualmente in un luogo pubblico, come la strada. Misure che nell’applicazione delle forze di polizia preposte ai controlli hanno dato luogo a numerosi accertamenti sommari di violazioni che saranno impugnabili prima davanti ai tribunali amministrativi e poi davanti alla Corte Costituzionale.
Si deve infine aggiungere che eventuali sanzioni penali inflitte in base ai decreti del Presidente del consiglio dei ministri, o peggio, secondo i decreti dei Presidenti di regione, potrebbero essere illegittime perché, se anche la norma penale è stabilita dalla legge, il fatto che ad essa si ricollega, ossia il comportamento vietato, è qualificato da una norma di carattere amministrativo e non legislativo. Se si ricorda che il decreto del Presidente del Consiglio, o l’ordinanza del Presidente della Regione hanno natura di atto amministrativo e risultano privi di forza di legge, questi atti possono costituire una violazione dell’articolo 16 della Costituzione, se dispongono limitazioni alla libertà di circolazione dei cittadini che comportino sanzioni di natura penalistica.
Il diritto alla vita, ed il diritto alla salute, sancito dall’art.32 della Costituzione sono certamente prevalenti rispetto alla libertà di circolazione garantita dall’art. 16 e della libertà di riunione garantita dall’art. 17 della stessa Costituzione. Se si mette in discussione però l’art. 13 della Costituzione, dovrà operarsi un corretto bilanciamento con il diritto alla salute affermato dall’art. 32 una valutazione ponderata da adottare nel rispetto del principio di legalità e della riserva di giurisdizione. Per ogni limitazione di una garanzia costituzionale deve essere attivato un meccanismo di controllo ed un limite temporale. Una soppressione sostanziale di queste libertà, a tempo indeterminato, adesso fino al 31 luglio per effetto del decreto legge 24 marzo 2020,, sia pure con proroghe mensili, ma in prospettiva anche oltre, rischia di travolgere il delicato equilibrio dei poteri (legislativo, giudiziario, esecutivo) tracciato dai Costituenti nel 1948.
Come ha osservato Alberto Lucarelli, ordinario di Diritto Costituzionale, i provvedimenti adottati dal Presidente del Consiglio dei ministri, come quelli dei Presidenti di regione, “si collocano in una zona grigia tra atto politico ed atto amministrativo con una incidenza fortemente restrittiva dei diritti fondamentali”. Per Lucarelli “c ‘è un limite all’approccio sostanzialistico del diritto, e soprattutto del rispetto dello Stato di diritto”.
Secondo Maria Giuliana Civinini e Giuliano Scarselli in Questione Giustizia, “l’assenza di riferimento costituzionali e ordinari per far fronte ad una pandemia da virus non significa allora libertà piena per il Governo di adottare ogni misura. A questo riguardo, ciò è escluso dallo stesso codice della protezione civile, che, come detto, all’art. 25 espressamente prevede che ogni provvedimento debba essere adottato “nel rispetto dei principi generali dell’ordinamento giuridico e dell’Unione europea”. Dunque, seppur la nostra Costituzione non contenga una disciplina specifica dello “Stato di emergenza”, non di meno la legislazione di emergenza deve rispettare la nostra Costituzione nonché i principi dell’Unione europea per quello che dalla nostra Costituzione e dai principi dell’Unione europea emerge”.
Se l’art. 16 della Costituzione prevede che la libertà di circolazione possa subire delle limitazioni “per motivi di sanità o di sicurezza”, queste limitazioni non possono tradursi nel divieto generalizzato di ogni tipo di attività fisica e di accedere comunque ad un determinato luogo pubblico o privato nel quale sia possibile rispettare le misure di sicurezza previste dalla normativa generale.
L’art. 17 Cost., prevede limiti alle riunioni in luogo pubblico, ma non fa alcun riferimento alle riunioni in luogo privato, né prevede limiti alla possibilità di incontrarsi sulla strada con altre persone, diritti che non possono essere del tutto cancellati, anche se si può stabilire che vadano esercitati nel rispetto delle prescrizioni di sicurezza consistenti nell’uso della mascherina e nel mantenimento di una minima distanza interpersonale.
Si corre il rischio che il mantenimento a tempo indeterminato delle limitazioni della libertà di circolazione, con il divieto ad uscire di casa, magari per fasce di età, ma anche nel caso di persone sane ed asintomatiche, possa tradursi in una sostanziale limitazione della libertà personale, e dunque non possa essere adottato in violazione dei principi affermati dall’art. 13 della Costituzione. La norma costituzionale fa del resto riferimento non solo ai casi di detenzione o di arresto, ma anche a “qualsiasi altra restrizione della libertà personale”.
Si può dunque concludere che né “il Governo né il Parlamento possono disporre restrizioni generalizzate della libertà personale, poiché trattasi di un diritto inalienabile (art. 2 Cost.), che nessun’altra ragione può impedire, e che, se del caso, può essere contratto solo in ipotesi eccezionali previste dalla legge con riferimento a singoli comportamenti, e a seguito di provvedimenti dell’autorità giudiziaria”. Si deve allora escludere che siano conformi alla Costituzione decreti legge, provvedimenti del governo, ed ancor più ordinanze di presidenti di regione o di singoli sindaci che incidano sulla libertà personale arrivando ad imporre divieti di uscire di casa senza rispettare il principio di congrua motivazione, il divieto di discriminazione (anche per età) e le procedure fissate dalla Costituzione per l’adozione di tali misure. Non saranno certo le ordinanze di protezione civile o i decreti interministeriali che potranno mettere in quarantena la Costituzione.