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Le RSA e la dignità della vecchiaia

di Franca Regina Parizzi

Il recente – e purtroppo ancora in corso – massacro di anziani che si è consumato nelle RSA (Residenze Sanitarie Assistite), a opera del Coronavirus, è oggetto di indagini da parte della Magistratura. Non è mia intenzione né mio compito pertanto analizzarne le cause, né esprimere qui opinioni o giudizi. Penso tuttavia che le testimonianze raccolte dai media sulla realtà delle RSA e dei loro ospiti abbiano fatto emergere un problema finora sommerso, nascosto: quello della vecchiaia umiliata, trascurata, abbandonata, infelice.

L’allungamento della vita e il deterioramento delle condizioni di salute, che inevitabilmente accompagna l’età avanzata, impongono ai familiari degli anziani delle scelte e il ricovero nelle RSA rappresenta per molte famiglie una delle soluzioni possibili. Ma siamo sicuri che la scelta delle RSA sia realmente la migliore da prendere in considerazione? Le RSA rispondono veramente alle esigenze degli anziani?

Come ogni bene di consumo sul mercato, oggetto di business e di speculazioni, anche le RSA “si vendono bene”: spesso sono situate in zone panoramiche, immerse in giardini ben curati, dispongono di camere arredate tipo hotel, di spazi comuni che fanno presupporre un’intensa e piacevole vita sociale, oltre a garantire la necessaria assistenza sanitaria. Tutto questo rappresenta tuttavia spesso uno specchietto per le allodole e le recenti tragedie legate al diffondersi dell’epidemia da Coronavirus nelle RSA lo hanno purtroppo dimostrato. Il presupposto di base delle RSA, come anche delle Cliniche private, è il business, il profitto. Il profitto ad ogni costo, anche a scapito della qualità dell’assistenza globale e sanitaria in primis.

La vecchiaia, come anche la morte, rappresenta il grande tabù del mondo occidentale.

Nella nostra società, la vecchiaia è sempre stata una fase della vita da tenere nascosta, un problema da rimandare. Basta prestare attenzione alle pubblicità che hanno come protagonisti gli anziani: persone arzille testimonial di dentiere, di integratori alimentari, di pannolini per l’incontinenza urinaria, anziani sportivi e donne anziane in minigonna o testimonial di miracolose creme antirughe. Immagini falsate della vecchiaia. Modi per rimandare il più possibile questa fase della vita. Per illudere che, con opportuni accorgimenti, tutti possiamo invecchiare così, cioè possiamo “non invecchiare”.

Recentemente è stata avanzata l’ipotesi di prolungare il lockdown selettivamente per le persone over 60 anni, essendo le più suscettibili a sviluppare forme gravi di malattia da Coronavirus.

Più fragili, soli e forse anche gli ultimi a uscire di casa, sono quegli stessi anziani che, ai fini del collocamento in pensione, sono ritenuti invece ancora in grado di svolgere attività lavorativa.

Ma la vecchiaia non è uguale per tutti. Alcuni anziani continuano a vivere fino alla fine nel pieno possesso delle proprie facoltà intellettuali oltre che della propria autosufficienza, soprattutto se hanno saputo sviluppare e coltivare interessi, esercitare la mente, mantenere la capacità di emozionarsi e di apprezzare il gusto della vita.

Ma allora qual è la vera vecchiaia? Mi piace una definizione che ho letto un po’ di tempo fa:

“l’unica vecchiaia è quella che avviene quando smettiamo di essere noi stessi”.  Ed è questa fase quella più temuta e perciò allontanata dai nostri pensieri. Ed è questa la fase che i familiari della persona anziana il più delle volte non sono preparati a gestire e demandano alle strutture di ricovero come le RSA. Anche perché l’assistenza domiciliare (ADI: Assistenza Domiciliare Integrata) agli anziani non autosufficienti, indipendentemente dai modelli organizzativi regionali, è attualmente scarsa in tutto il nostro Paese, non dà risposte adeguate ai reali bisogni dell’anziano e della famiglia e la sua erogazione presuppone un inaccettabile e complesso iter burocratico.

Un’assistenza domiciliare adeguata dovrebbe essere invece potenziata, al fine di dare supporto ai familiari ed evitare molti dei ricoveri nelle RSA. Spostare la cura sul territorio e non centralizzarla in strutture di ricovero, siano queste ospedali o RSA, dovrebbe essere l’obiettivo primario del progetto salute del nostro Paese e il problema è emerso nella sua drammaticità proprio dall’epidemia di Coronavirus. Che ci ha fatto capire come un’adeguata e precoce assistenza e cura  domiciliare avrebbe potuto evitare l’evoluzione grave della malattia. Che avrebbe molto probabilmente risparmiato molte vite.

E’ certamente commovente, ma soprattutto dovrebbe farci riflettere e insegnarci anche molte cose, la lettera scritta di recente da un anziano ricoverato in una RSA ai propri figli e nipoti prima di morire, nella piena consapevolezza della propria morte imminente. Vorrei pubblicarla per intero perché ritengo che stimoli una profonda riflessione, anche a chi l’abbia già letta o ascoltata dai media.

“Da questo letto senza cuore scelgo di scrivervi, cari miei figli e nipoti (l’ho consegnata di nascosto a Suor Chiara nella speranza che dopo la mia morte possiate leggerla).

Comprendo di non avere più tanti giorni, dal mio respiro sento che mi resta solo questa esile mano a stringere una penna ricevuta per grazia da una giovane donna che ha la tua età, Elisa mia cara.

È l’unica persona che in questo ospizio mi ha regalato qualche sorriso, ma da quando porta anche lei la mascherina riesco solo a intravedere un po’ di luce dai suoi occhi; uno sguardo diverso da quello delle altre assistenti, che neanche ti salutano.

Non volevo dirvelo per non recarvi dispiacere su dispiacere sapendo quanto avrete sofferto nel lasciarmi dentro questa bella “prigione”.

Prigioni dorate, allora mi sembrava esagerato …

Si, così l’ho pensata ricordando un testo scritto da quel prete romagnolo, don Oreste Benzi, che parlava di questi posti come di prigioni dorate.

Allora mi sembrava esagerato e invece mi sono proprio ricreduto.

Sembra infatti che non manchi niente, ma non è così … manca la cosa più importante, la vostra carezza, il sentirmi chiedere tante volte al giorno “come stai nonno?”, gli abbracci e i tanti baci, le urla della mamma che fate dannare e poi quel mio finto dolore per spostare l’attenzione e far dimenticare tutto.

In questi mesi mi è mancato l’odore della mia casa, il vostro profumo, i sorrisi, raccontarvi le mie storie e persino le tante discussioni.

Questo è vivere, è stare in famiglia, con le persone che si amano e sentirsi voluti bene e voi me ne avete voluto così tanto non facendomi sentire solo dopo la morte di quella donna con la quale ho vissuto per 60 anni insieme, sempre insieme.

In 85 anni ne ho viste così tante e come dimenticare la miseria dell’infanzia, le lotte di mio padre per farsi valere, mamma sempre attenta ad ogni respiro e poi il fascino di quella scuola che era come un sogno poterci andare, una gioia, un onore.

La maestra era una seconda mamma e conquistare un bel voto era festa per tutta la casa.

E poi, il giorno della laurea e della mia prima arringa in tribunale.

Quanti grazie dovrei dire, un’infinità a mia moglie per avermi sopportato, a voi figli per avermi sempre perdonato, ai miei nipoti per il vostro amore incondizionato.

Gli amici, pochi quelli veri, si possono veramente contare solo in una mano come dice la Bibbia e che dire, anche il parroco, lo devo ringraziare per avermi dato l’assoluzione dei miei peccati e per le belle parole espresse al funerale di mia moglie.

Ora non ce la faccio più a scrivere e quindi devo almeno dire una cosa ai miei nipoti … e magari a tutti quelli del mondo.

Non è stata vostra madre a portarmi qui, ma sono stato io a convincere i miei figli, i vostri genitori, per non dare fastidio a nessuno.

Nella mia vita non ho mai voluto essere di peso a nessuno, forse sarà stato anche per orgoglio e, quando ho visto di non essere più autonomo, non potevo lasciarvi questo brutto ricordo di me, di un uomo del tutto inerme, incapace di svolgere qualunque funzione.

Certo, non potevo mai immaginare di finire in un luogo del genere.

Apparentemente tutto pulito e in ordine, ci sono anche alcune persone educate, ma poi di fatto noi siamo solo dei numeri, per me è stato come entrare già in una cella frigorifera.

In questi mesi mi sono anche chiesto più volte: ma quelli perché hanno scelto questo lavoro se poi sono sempre nervosi, scorbutici, cattivi?

Una volta quell’uomo delle pulizie mi disse all’orecchio: “Sai perché quella quando parla ti urla?

Perché racconta sempre di quanto era violento suo padre, una così con quali occhi può guardare un uomo?”. Che Dio abbia pietà di lei. Ma allora perché fa questo lavoro?

Tutta questa grande psicologia, che ho visto tanto esaltare in questi ultimi decenni, è servita solo a fare del male ai più deboli? A manipolare le coscienze e i tribunali? Non voglio aggiungere altro perché non cerco vendetta.

Ma vorrei che sappiate tutti che per me non dovrebbero esistere le case di riposo, le RSA, le “prigioni” dorate e quindi, si, ora che sto morendo lo posso dire: mi sono pentito.

Se potessi tornare indietro, supplicherei mia figlia di farmi restare con voi fino all’ultimo respiro, almeno il dolore delle vostre lacrime unite alle mie avrebbero avuto più senso di quelle di un povero vecchio, qui dentro anonimo, isolato e trattato come un oggetto arrugginito e quindi anche pericoloso.

Questo coronavirus ci porterà al patibolo, ma io già mi ci sentivo dalle grida e modi sgarbati che ormai dovrò sopportare ancora per poco … l’altro giorno l’infermiera mi ha già preannunciato che se peggioro forse mi intuberanno o forse no.

La mia dignità di uomo, di persona perbene e sempre gentile ed educata è stata già uccisa.

Sai Michelina, la barba me la tagliavano solo quando sapevano che stavate arrivando e così il cambio. Ma non fate nulla vi prego … non cerco la giustizia terrena, spesso anche questa è stata così deludente e infelice.

Fate sapere però ai miei nipoti (e ai tanti figli e nipoti) che prima del coronavirus c’è un’altra cosa ancora più grave che uccide: l’assenza del più minimo rispetto per l’altro, l’incoscienza più totale.

E noi, i vecchi, chiamati con un numeretto, quando non ci saremo più, continueremo da lassù a bussare dal cielo a quelle coscienze che ci hanno gravemente offeso affinché si risveglino, cambino rotta, prima che venga fatto a loro ciò che è stato fatto a noi.

E’ giusto che una vita debba finire così? E’ giusta una vecchiaia vissuta in questo modo, in una struttura in cui si diventa anonimi, dei “numeretti”? Dove – e mi chiedo con quale diritto – chiamano gli anziani “nonnini” e danno loro del tu?

Cerchiamo di riflettere e di rispondere sinceramente alla seguente domanda: “Vorremmo per noi una fine così?”. Non allontaniamo il pensiero della nostra vecchiaia e della nostra fine, ma prepariamoci piuttosto ad affrontarle con serietà, progettualità, concretezza finché siamo in grado di farlo. Quando una coppia aspetta un bambino, si organizza per adattare la propria casa alle esigenze che comporterà il nuovo arrivato, come ad esempio una stanza su misura per lui, ma soprattutto la coppia carica l’attesa di intense emozioni e di grande amore per accoglierlo. Altrettanta attenzione e progettualità, ma anche altrettanto amore, andrebbero riservati anche a un genitore che diventa vecchio.

La dignità della vita va rispettata in tutte le sue fasi, dalla primissima infanzia fino al fine vita. La prima cosa che chiedono gli anziani, il loro primo bisogno è di non essere lasciati soli.

Convivere con uno o due genitori anziani può essere difficile, può creare degli squilibri familiari, dei problemi, ma si possono trovare delle soluzioni. Sempre se ci si pensa per tempo, cercando di coinvolgerli in un progetto comune che rispetti le loro necessità e le loro abitudini. Per esempio, si può cercare di avvicinarli o avvicinarsi all’abitazione dei genitori anziani, cercare per loro una soluzione abitativa vicina occupandosi in prima persona del trasloco, in modo da rispettare la loro autonomia e nello stesso tempo tenerli sotto controllo, proteggerli e offrire loro quella continuità di affetto e di vicinanza che anche noi, al loro posto, vorremmo. E se e quando sarà necessario ricorrere a una badante occorrerà – con delicatezza, rispetto e amore – fare in modo che siano loro ad accettarla e a sceglierla e non noi a imporla.

Una soluzione interessante per non andare incontro a una vecchiaia in solitudine è rappresentata dal così detto “co-housing” (letteralmente “vivere insieme”), una scelta abitativa “in compagnia”.  

L’esperienza, nata in Danimarca verso la fine degli anni ’60, si è diffusa successivamente in altri Paesi del Nord Europa, negli Stati Uniti, in Canada, in Australia e in Giappone. Le esperienze in Italia sono tuttavia ancora molto poche. Il co-housing è una soluzione abitativa che garantisce a ognuno la propria privacy e la propria autonomia (ognuno ha il proprio appartamento), ma prevede spazi comuni di socializzazione. Non è un progetto di condivisione abitativa con estranei, ma in un certo senso una “comunità” di anziani, che in questo modo possono supportarsi a vicenda, stare insieme quando vogliono, partecipare ad attività ricreative, ma anche ridurre, condividendole, le spese. In Italia gli over 65 rappresentano circa il 22% della popolazione e spesso si tratta di singoli. Circa la metà degli anziani con più di 85 anni vive solo e con non poche difficoltà, con una pensione che non sempre consente di affrontare le spese correnti. Molti anziani tuttavia sono proprietari della loro casa, a volte di una casa grande in cui abitano da soli.

Il co-housing consente di vivere meglio mettendo insieme le proprie forze e le proprie risorse.  Certamente è una scelta che presuppone innanzi tutto un progetto, ma anche una cerchia di anziani che lo condividano. E che condividano interessi, oltre a spirito di iniziativa, intraprendenza e disponibilità a modificare le proprie abitudini, almeno in parte. Tutte condizioni che è più facile trovare nei piccoli centri che non nelle grandi città. La città, soprattutto la grande città, non è a misura di anziani, come peraltro non è a misura di bambini, e non facilita certamente le amicizie e la socializzazione. Il co-housing può essere una soluzione per vivere una vecchiaia diversa, più gratificante, più intensa, oltre che più protetta. Perché non dimentichiamo che il vero dramma della vecchiaia è la solitudine, non la convivenza.

“Il paese ritrovato” a Monza e il “Villaggio Emanuele” a Roma sono due interessanti esperienze realizzate allo scopo di  consentire agli anziani affetti da demenza di vivere una maggiore autonomia e indipendenza e di rallentare il loro decadimento cognitivo. Nel villaggio sono presenti un orto, una piazza, caffè, negozi (anche il parrucchiere), cinema. Al posto degli appartamenti ci sono stanze singole su cui è indicato all’esterno il nome dell’inquilino. Gli ospiti del villaggio possono così muoversi in modo autonomo, sentirsi a casa e nello stesso tempo ricevere la necessaria assistenza da parte di operatori socio-sanitari specializzati.

Alcune immagini del “Paese Ritrovato”, il villaggio Alzheimer di Monza

Non sono certamente le RSA, anche le più lussuose, la risposta ai bisogni degli anziani. E l’assistenza sanitaria da sola non basta. L’ingresso in una struttura comporta per l’anziano la perdita del proprio spazio decisionale e si accompagna a un vissuto emotivo negativo, a depressione e sovente anche a deterioramento delle capacità cognitive.

Si devono trovare altre soluzioni, con l’obiettivo di garantire una vecchiaia serena, di soddisfare i bisogni di socialità, di rispetto e di affetto dell’anziano. Ma anche di stimolare le sue potenzialità residue, coinvolgendolo in attività utili e piacevoli. Dare all’anziano la possibilità di raccontare e di raccontarsi, perché il suo racconto è la sua identità, ma anche una scuola di vita per i più giovani.

Franca Regina Parizzi: Nata a Milano il 15.12.1947, ha conseguito la laurea in Medicina e Chirurgia nel 1972 presso l’Università degli Studi di Milano con voti 110/110 e lode. Nel 1974 è stata assunta presso l’Ospedale San Gerardo di Monza, inizialmente come Assistente nel Reparto di Malattie Infettive e successivamente, dal 1980, nel Reparto di Pediatria, divenuto nel 1983 sede della Clinica Pediatrica dell’Università degli Studi di Milano Bicocca, ove ha ricoperto successivamente (dal 1988) il ruolo di Aiuto Corresponsabile Ospedaliero, e, dal 2000, di Dirigente Medico con incarico di Alta Specializzazione. Ha conseguito la Specializzazione in Malattie Infettive e successivamente in Chemioterapia, entrambe presso l’Università degli Studi di Milano. Nel 1977 e 1978 è stata responsabile del Reparto di Pediatria presso l’Hôpital Général de Kamsar (République de Guinée – Afrique de l’Ouest) nell’ambito della Cooperazione Tecnica con i Paesi in via di sviluppo del Ministero degli Affari Esteri italiano. Autrice di numerose pubblicazioni scientifiche su riviste nazionali e internazionali e relatrice in diversi convegni (nazionali e internazionali). Dal 2010 si è trasferita da Monza a Lampedusa, isola alla quale è profondamente legata, dove esercita tuttora la sua attività come pediatra.

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  • Come sempre voglio e devo ringraziare Mediterraneo Cronaca per la qualità degli articoli che ospita e propone! In questo caso ringrazio l'autrice Franca Regina Parizzi che ha scritto "RSA e la dignità della vecchiaia". Conosco la realtà dell'argomento in quanto la vivo anagraficamente e ho trovato lo scritto corretto e puntuale nell'affrontarla! Grazie Mediterraneo e grazie Franca!

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