di Fulvio Vassallo Paleologo
Ancora una strage dell’indifferenza e nell’indifferenza generale, sulla rotta dalla Tunisia alla Sicilia, decine di morti e dispersi, senza che nessuno intervenisse a soccorrere in tempo persone che cercavano una possibilità di salvezza e per questo hanno pagato con la vita. Una ennesima strage annunciata dopo altre analoghe negli scorsi anni. Ma non è questo che allarma gli italiani. E’ tornata forte infatti la speculazione politica sugli allarmi lanciati dai servizi segreti che avvertono della presenza di 20.000 persone che sarebbero pronte a fuggire dalla Libia. Un numero insignificante per un paese grande come l’Italia, e in ogni caso per l’Unione Europea, persone che rimangono per mesi, se non anni, nelle mani dei trafficanti e delle milizie governative colluse con chi tortura a scopo di estorsione. Perché in Libia i migranti sono facile preda delle bande criminali che il governo Serraj non riesce a contrastare.
Per altri rinchiusi nei cosiddetti centri “governativi”, lo schiavismo si trasforma in servizio militare obbligatorio. E se Malta o l’Italia facilitano le intercettazioni in mare delle motovedette tripoline, si scelgono altri punti di partenza in Tunisia. Occorre dire che per effetto della guerra civile in Libia ormai i trafficanti stanno utilizzando alcuni porti della Tunisia per imbarcare migranti subsahariani che prima partivano da Garabouli, Zawia o Zuwara. Non vi sono canali legali di fuga da un paese dilaniato dalla guerra civile e sono state respinte tutte le proposte di evacuazione umanitaria.
Su questo nuovo dislocamento delle organizzazioni criminali che rimangono l’unico modo possibile di lasciare la Libia ha certamente influito la politica dei respingimenti collettivi illegali praticata da Malta, con il supporto tacito delle autorità italiane e di Frontex. Una politica in aperto contrasto con il diritto internazionale e con i diritti umani che, sotto i colpi delle accuse che arrivavano dalle agenzie internazionali e dalle Organizzazioni non governative, si è tradotta adesso in un accordo formalizzato tra il premier maltese Abela ed il leader tripolino Serraj.
Soltanto ieri centinaia di naufraghi sono stati intercettati in acque internazionali dalle motovedette donate ed assistite dall’Italia e riportate a Tripoli, dove la loro sorte è segnata. I richiami e le denunce dell’OIM e dell’UNHCR non vengono più ascoltati. Neppure le Nazioni Unite riescono ad ottenere il rispetto del diritto internazionale da parte degli Stati. Ma per l’Unione europea e per il governo italiano tutto questo rimane irrilevante. Anzi si vorrebbe andare ancora oltre, sempre in nome dello spauracchio del terrorismo e della “lotta contro il traffico di esseri umani”. E contro le ONG che si ostinano a soccorrere i naufraghi in acque internazionali.
Ancora questa mattina, nella trasmissione RAI “Radio anch’io”, Massimiliano Romeo, capogruppo della Lega al Senato, sollecitava il governo italiano a concludere un accordo simile a quello concluso da Abela con Tripoli, dimenticando che gli accordi bilaterali contrari al diritto internazionale cogente sono nulli e che l’Italia è stata già condannata nel 2012 dalla Corte europea dei diritti dell’Uomo per i respingimenti collettivi in Libia ordinati da Maroni, quando nel 2009 occupava il posto di ministro dell’interno. Su posizioni ancora più drastiche, Giorgia Meloni continua a crescere nei sondaggi elettorali, sostenendo scelte palesemente basate su violazioni altrettanto gravi del diritto internazionale, come la “chiusura dei porti”, una misura che però è stata già adottata dal governo italiano con un provvedimento amministrativo del 7 aprile scorso. Un provvedimento che i giudici del Tar Lazio non hanno ritenuto di sospendere, senza neppure entrare nel merito delle norme di diritto internazionale che vengono violate. Queste scelte della giurisdizione, se saranno confermate dalla sentenza definitiva a luglio, mettono a rischio la vita dei migranti in mare e lo stato di diritto in Italia. Sull’esempio dell’Italia, anche la Germania sta cercando di bloccare le navi umanitarie con provvedimenti amministrativi che presto offriranno altri pretesti per criminalizzare le attività di soccorso delle ONG.
Mentre nei singoli paesi i partiti sovranisti dettano l’agenda in materia di immigrazione e asilo, anche quando non sono al governo, come sta avvenendo in Italia, l‘Unione Europea insiste sulle politiche di esternalizzazione e rilancia la proposta delle “piattaforme di sbarco” in Libia ed in Tunisia, già accantonata in passato, per dare una base legale alle prassi di respingimento collettivo avallate da tempo anche dagli assetti aerei dell’operazione Frontex, ancora operativa nel Mediterraneo centrale.
Il Memorandum d’intesa con Tripoli del 2017 ed i decreti sicurezza di Salvini rimangono immutati e sono anche inaspriti dal Decreto interministeriale del 7 aprile del 2020 che dichiara i porti italiani “non sicuri”per il pericolo che i naufraghi potevano comportare per la tenuta del nostro sistema sanitario. Adesso stiamo aprendo le frontiere a coloro che provengono da tutti i paesi del mondo, nessun migrante soccorso in mare è risultato positivo al Covid 19, ma quel decreto, neppure pubblicato in Gazzetta ufficiale, non si tocca. E si tengono ferme a Palermo, con cavilli burocratici, come “irregolarità tecniche ed operative”, le navi umanitarie Alan Kurdi ed Aita Mari, navi che potrebbero salvare vite in alto mare, o ci si prepara a sanzionarle non appena porteranno naufraghi a terra. Non si vuole che i migranti in fuga dalla Libia trovino soccorso in acque internazionali, perché così si pensa di ridurre gli “sbarchi” in Italia, e per questo si sono ritirati gli assetti navali ed aerei della guardia costiera italiana che operavano negli anni passati nel Mediterraneo centrale, ben al di fuori delle nostre acque territoriali. Ma non sono solo i governi e gli apparati dello stato a lasciar morire per abbandono.
Le persone che chiudono gli occhi di fronte ai naufragi in mare e votano per i partiti che consentono i respingimenti collettivi illegali basati sugli accordi con la Libia, paese in preda alla guerra civile, e che non esiste come stato unitario, sono tutte complici. Ormai non si tratta più di disinformazione o di indifferenza ma di condivisione lucida e consapevole di politiche che si basano sui respingimenti verso paesi nei quali si rischia la tortura o altri trattamenti inumani o degradanti, oltre che sull’abbandono in acque internazionali, conseguenza del riconoscimento di una zona SAR “libica” e dell’assistenza e supporto operativo che l’Italia continua a garantire alla sedicente guardia costiera “libica”.
Siamo circondati, in Italia, ed in Europa, da persone che condividono queste politiche di morte e i governanti ci dicono ancora di sperare nella “ripartenza”. Siamo una società condannata all’autodistruzione, il virus dell’egoismo e della paura dell’altro si è già mangiato le nostre coscienze. Inutile attendersi soluzioni che non verranno dall’Unione Europea. Senza il rispetto del diritto internazionale e della Costituzione italiana, che prevede il diritto di asilo e la valenza superiore delle Convenzioni internazionali che stabiliscono gli obblighi di soccorso in mare, vietando accordi con paesi che non rispettano i diritti umani, per l’Italia e per l’intera Europa, non c’è futuro. Ci sarà solo la prospettiva della guerra, che dai confini meridionali del Mediterraneo potrebbe arrivare a coinvolgere tutti gli stati che trattano con i paesi terzi del nordafrica all’esclusivo fine di respingere, e magari anche per trafficare petrolio o vendere armi. Attività ritenute meno riprovevoli dei soccorsi in mare. Della retorica “alla Casellati” sull’operazione europea a guida italiana IRINI, che dovrebbe stroncare il traffico di armi verso la Libia, e contrastare al contempo il fiorente contrabbando di petrolio che da quel paese si snoda attraverso Malta e l’Italia, possiamo fare davvero a meno.