Perchè siamo tutti coinvolti

Un rapporto diffuso da Alarm Phone comincia a squarciare il velo di omertà e di disinformazione che ha nascosto le responsabilità dell’operazione di push back ( respingimento) verso la Libia posta in essere nella notte tra lunedì 13 e martedì 14 aprile con il concorso delle autorità italiane, maltesi, libiche ed europee ( della agenzia per il controllo delle frontiere esterne FRONTEX)

Corpi delle vittime sulla banchina del porto di Tripoli

di Fulvio Vassallo Paleologo

Un rapporto diffuso da Alarm Phone comincia a squarciare il velo di omertà e di disinformazione che ha nascosto le responsabilità dell’operazione di push back ( respingimento) verso la Libia posta in essere nella notte tra lunedì 13 e martedì 14 aprile con il concorso delle autorità italiane, maltesi, libiche ed europee ( della agenzia per il controllo delle frontiere esterne FRONTEX).

Una responsabilità tanto più grave in quanto non si è verificato soltanto un respingimento collettivo vietato dalle Convenzioni internazionali verso un paese che secondo le Nazioni Unite non può definirsi sicuro, che non offre place of safety (POS), ma dodici persone hanno perso la vita, cinque prima, per i ritardi nell’azione di soccorso, poi altre sette nelle fasi concitate del trasbordo nella notte, mentre il mare era in tempesta, con onde alte più di due metri ed un vento che soffiava a 25-30 nodi.

E’ indubbio che si sia trattato di un respingimento collettivo, in quanto i naufraghi sono stati riportati indietro da uno strano peschereccio maltese, privo di segni di riconoscimento e di nominativo internazionale, il Maria Christiana, che è entrato nel porto di Tripoli riconsegnando direttamente i sopravvissuti alla Guardia costiera libica. Sopravvissuti che, malgrado l’intervento di prima assistenza in banchina di rappresentanti dell’UNHCR e dell’OIM, sono poi finiti rinchiusi nel famigerato campo di detenzione di Al Sikka, a Tripoli, dove staranno già subendo altri abusi, e dove saranno presto dati di nuovo in pasto ai trafficanti.

Se un dubbio si può sollevare sull’ingresso del “peschereccio” maltese nel porto militare di Abu Sittah riguarda il ruolo avuto nell’operazione di push-back dalla nave della Marina militare italiana Gorgona, presente a Tripoli per l’operazione Nauras, nell’ambito delle attività di “Mare Sicuro”. Le navi di questa operazione, presenti a rotazione nel porto di Tripoli dal 2018, svolgono compiti di nave officina ma anche di coordinamento tra le forze navali libiche e quelle italiane ed europee per la ricerca e soccorso (SAR).

Sembra che nave Gorgona si sia dovuta allontanare dal porto di Abu Sittah nella giornata di domenica 12 per gli intensi bombardamenti in corso su Tripoli, ma sono mesi che la città viene bombardata, e appare singolare che la nave sia rientrata in porto proprio “di scorta”, di poppa al peschereccio maltese. Che aveva recuperato i naufraghi nella notte a 30-40 miglia a sud di Lampedusa, nella zona SAR (ricerca e salvataggio) ancora controversa tra Italia e Malta, dopo il temporaneo rallentamento di una grossa nave cargo, la IVAN, che dopo qualche ora veniva fatta proseguire.

La collaborazione nelle operazioni di push back rientra forse nell’assistenza e manutenzione delle imbarcazioni (donate in parte dall’Italia) e nei compiti di addestramento della Guardia costiera “libica”, che sono i compiti che la missione Nauras assolve in Libia sulla base del Memorandum d’intesa firmato a Malta il 2 febbraio del 2017 ? Si è davvero realizzata malgrado le apparenti contrapposizioni, una intesa tra Italia, Malta e governo di Tripoli per impedire ai migranti in fuga dai campi di detenzione lo sbarco in Europa? Quali sono gli accordi segreti che intercorrono tra Malta e la guardia costiera libica, e che livello di integrazione hanno raggiunto con i protocolli operativi stipulati da tempo dall’Italia con il governo di Tripoli ? Nessuno si illuda che il gioco allo scaricabarile possa durare ancora a lungo, quando sono in gioco tante vite umane.

Nella notte tra il 13 ed il 14 aprile scorsi, 30 miglia a sud di Lampedusa era stata avviata una attività SAR ( Search and rescue) mirata ad un target preciso, sembrerebbe su un tardivo impulso delle autorità maltesi, ma con la partecipazione delle autorità di ccordinamento marittimo italiane. Che tuttavia non avevano fatto uscire alcuna motovedetta da Lampedusa, limitandosi ad inviare un elicottero, per delegare poi il primo intervento di soccorso ad una grossa nave commerciale la Ro-Ro Ivan che operava sulla linea Khoms- Genova. Intervenivano successivamente su ordine delle autorità maltesi due mezzi, tra cui uno, il Maria Christiana, definito come “peschereccio”, ma che sembrava piuttosto una piccola nave destinata a scopi ben diversi dalla pesca e privo di segni di identificazione e di nominativo IMO internazionale. E’ rimasta misteriosa la natura e la nazionalità del secondo mezzo navale ccordinato dai maltesi che sarebbe intervenuto nell’operazione di soccorso. Si trattava forse di una motovedetta militare maltese ?

L’impegno della nave di bandiera portoghese durava solo qualche ora, perchè non appena sopraggiungeva il “peschereccio” maltese Maria Christiana, verso le 4 di martedì mattina, si verificava il trasbordo dei naufraghi sul mezzo più piccolo e quindi la morte di alcuni migranti che tentavano di raggiungere la nave più grande che si allontanava in direzione della Sicilia. Sarebbe stata importante la testimonianza del comandante della nave portoghese Ivan ma non sembra che le autorità portuali di Genova, all’arrivo della nave in porto, giovedì 16 aprile, lo abbiano sottoposto ad una qualche indagine, e la nave è ripartita subito per un’altro viaggio. Anche se in prossimità, e forse a vista della nave, avevano perso la vita alcune persone, poco prima che sopraggiungesse in soccorso il “peschereccio” maltese inviato dalle autorità di La Valletta.

Si deve aggiungere, come risulta dal report di Alarm Phone, che le autorità italiane, come quelle maltesi, erano state allertate da giorni dell’esistenza di questo barcone in difficoltà, e che lo stesso era stato localizzato nel Canale di Sicilia con almeno 24 ore di anticipo rispetto al momento del tragico trasbordo nel corso del quale alcuni naufraghi annegavano. Se, come avveniva fino al 2017, da Lampedusa fossero uscite le motovedette veloci della Guardia costiera classe 300 o la motovedetta della Guardia di finanza ferme in porto per tutta la notte tra il 13 ed il 14 aprile scorso, avrebbero potuto soccorrere tutti i naufraghi già nella giornata del 13, anche prima che il mare si ingrossasse. L’impegno italiano si è limitato all’invio di un aereo e poi nella notte di un elicottero. Che cosa ha visto questo elicottero e che ruolo ha avuto nell’attività SAR a sud di Lampedusa nella notte tra il 13 ed il 14 aprile, che ha portato al respingimento collettivo in Libia ed alla morte di alcuni naufraghi ?

Evidentemente da parte delle autorità maltesi ed italiane si voleva che l’operazione si concludesse con il coinvolgimento dei libici ed il respingimento collettivo da parte dei naufraghi, come poi si è verificato. Si è utilizzato a questo fine il “peschereccio” maltese Maria Christiana, un mezzo non tracciato dai sistemi satellitari come Marine Traffic, che registra le rotte di tutti i veri pescherecci, un mezzo di natura alquanto sospetta, privo di segni di identificazione, che li ha poi riportati nel porto militare di Tripoli, in violazione di tutte le Convenzioni internazionali e delle Raccomandazioni dell’ONU e del Consiglio d’Europa. “Nessuno può essere riportato in Libia mentre si trova in acque internazionali”, ha dichiarato Carlotta Sami, portavoce per l’Italia dell’Alto Commissariato per i diritti dei rifugiati. “Non è la prima volta che accade: anche nell’altro episodio a coordinare il soccorso è stata Malta”. Sulla pagina Twitter di UNHCR Lybia si vede una foto del “peschereccio” maltese Maria Christiana fermo in banchina a Tripoli. Un peschereccio che assomiglia più ad una motovedetta che ha un mezzo da pesca, quasi del tutto privo dell’armamento che caratterizza i veri pescherecci. Il rappresentante dell’UNHCR per il Mediterraneo centrale ha criticato il ritardo negli interventi di ricerca e soccorso operati a sud di Lampedusa nella notte tra il 13 ed il 13 aprile. “Questa barca non avrebbe mai dovuto essere lasciata alla deriva”, ha scritto Vincent Cochetel in un tweet.“La perdita di vite avrebbe potuto essere evitata. Coloro che considerano la Libia un porto sicuro dovrebbero visitare i sopravvissuti nel terribile centro di detenzione in cui si trovano. Nessuno può onestamente ignorare oggi a quale” salvataggio “porta la Guardia costiera libica”.

Le operazioni di respingimento collettivo da parte dei maltesi verso Tripoli non sono certo una novità, l’ultimo caso si era verificato nel mese di marzo di quest’anno, prima che Malta dichiarasse, sull’esempio dell’Italia, la chiusura dei porti definiti “non sicuri” per l’emergenza COVID-19. In quell’occasione anche le Nazioni Unite avevano condannato il comportamento delle autorità maltesi e di Frontex. Mai però un respingimento si era verificato tanto vicino all’isola di Lampedusa, e con un tale coinvolgimento delle autorità italiane, che hanno partecipato ad una fase decisiva delle operazioni di soccorso, per poi scomparire nel nulla, con il rientro alla base, attorno alle 4 del mattino, dell’elicottero partito da Lampedusa. Non ne parla neppure il rapporto di Alarm Phone, ma quella notte di burrasca un elicottero si è levato in volo dall’aeroporto di Lampedusa per andare proprio nella zona in cui era ferma la nave IVAN allertata dalle autorità maltesi. Dunque esattamente sopra il barcone in mare ormai da tre giorni. Ed in volo c’erano, dalla sera di domenica, velivoli maltesi ed altri assetti aerei italiani. Ma nessun mezzo delle due guardie costiere si è avvicinato alla zona dove era stata segnalata la presenza del barcone in difficoltà.

In quella notte di Pasquetta a sud di Lampedusa sono morte sette persone, prima che migranti”, ed altre cinque erano morte di stenti nei giorni precedenti a causa del mancato soccorso del barcone da parte delle autorità statali. Che si affannavano invece a negare l’esistenza di un naufragio, senza rendere però conto di dove fosse finita l‘imbarcazione che Alarm Phone aveva già segnalato a tutti gli stati responsabili delle aree SAR contigue nella giornata di venerdì 10 aprile.

La Convenzione di Amburgo sulla ricerca ed il salvataggio (SAR) ha creato per ciascuno Stato una zona specifica di competenza e di responsabilità. Nel tempo si è registrato un dissenso crescente riguardo ai rapporti fra l’Italia e Malta. Il dissenso deriva dal fatto che nelle Convenzioni internazionali la determinazione delle zone SAR è rimessa all’IMO ( Organizzazione internazionale del mare) su base convenzionale e quindi rimangono sempre incerti gli accordi tra le parti sulle stesse zone di delimitazione della responsabilità. Nel caso specifico di Italia e Malta le zone SAR in alcuni tratti di mare si sovrappongono. E l’evento SAR nel quale, nella notte tra il 1 ed il 14 aprile, hanno perso la vita alcuni naufraghi, sembra che si sia verificato proprio al limite della zona SAR a sud di Lampedusa controversa tra Italia e Malta.

Secondo il diritto internazionale, quando uno stato ritarda ad intervenire nella sua zona SAR, qualunque stato vicino che sia informato dell’evento di soccorso è obbligato ad intervenire anche al di fuori della propria zona di competenza. Un obbligo assoluto, per la salvaguardia della vita umana in mare, che non può cedere di fronte ai dissidi tra gli stati sulla interpretazione delle Convenzioni internazionali o sulla ripartizione delle zone di ricerca e salvataggio (SAR). Un obbligo che impone a chi si trova più vicino. o dispone dei mezzi che possono garantire un salvataggio più veloce, di intervenire immediatamente. Le politiche migratorie e le azioni di contrasto contro le ONG, che ancora operano attività di search and rescue in acque internazionali, non si possono spingere fino all’omissione concertata di soccorso. L’Unione Europea non si può ridurre al ruolo di copertura di operazioni di respingimento collettivo delegate ai maltesi ed ai libici con la connivenza italiana.

La farsa della zona SAR libica non regge più, soprattutto per la situazione attuale del conflitto civile in Libia, oltre che per la recente dichiarazione del governo di Tripoli che dichiara “non sicuri” i propri porti. Che “non sicuri” erano da tempo, anche perchè la Libia non ha mai ratificato la Convenzione di Ginevra sui rifugiati. E le testimonianze concordi di tutti coloro che vengono fermati in mare dalla sedicente Guardia costiera libica, spesso collusa con i trafficanti, e quindi riportati a terra nei centri di detenzione, confermano, anche secondo Amnesty, stupri e torture a scopo di estorsione o per pura crudeltà.

Siamo alla vigilia di una stagione terribile, mentre il COVID-19 sta stravolgendo gli obblighi internazionali degli stati, una stagione nella quale se continueranno queste violazioni delle Convenzioni internazionali dovremo contare ancora un numero imprecisato di vittime delle scelte di “chiusura dei porti” condivise da Italia, prima, e poi da Malta e, solo come dichiarazione di principio, dal governo di Tripoli. Non si può pensare che queste vittime siano sottratte a qualsiasi giurisdizione, come le persone che si trovano in acque internazionali e sono in una situazione di evidente distress, a rischio di naufragio. Non si può pensare che tutti i paesi europei del Mediterraneo neghino un porto sicuro di sbarco condannando i naufraghi a morte certa.

Occorre che su quanto successo nella notte tra lunedì di Pasquetta e martedì 14 aprile la Magistratura italiana apra una indagine, ed al contempo che il Parlamento avvii una commissione d’inchiesta, per accertare tutte le responsabilità e per evitare che queste tragedie continuino a ripetersi. A Malta un gruppo di attivisti della società civile ha già denunciato la “chiusura dei porti” e i ritardi del governo in questo ultimo evento di soccorso. In Italia sembra che non ci sia altrettanta determinazione, almeno finora.

La morte per annegamento o per inedia in mare è conseguenza dello stesso abbandono nel quale muoiono tanti malati di COVID-19, un abbandono che suscita oggi la nostra pietà, una situazione terribile che sta spingendo la magistratura a svolgere indagini serrate. Anche sui morti per abbandono in mare nei giorni di Pasqua si dovrà indagare con lo stesso impegno, perchè questi comportamenti omissivi degli stati non si ripetano ancora. E perchè sia effettivamente garantito il diritto alla vita di tutte le persone migranti che nei prossimi mesi saranno ancora costrette a fuggire da un paese in preda alla guerra civile ed allo scontro tra milizie, spesso colluse con i trafficanti, che riducono gli essere umani alla condizione di merce da smaltire al miglior prezzo.

Dodici morti e un respingimento segreto verso la Libia

16 Aprile, 2020

Comunicato Stampa

COME LE AUTORITÀ MALTESI ED EUROPEE HANNO LASCIATO MORIRE PERSONE IN MARE E RIPORTATO I SUPERSTITI NELL’INFERNO DELLA LIBIA

Dodici persone hanno perso la vita a causa dell’azione e dell’in-azione europee nel Mar Mediterraneo.

Le Autorità di Malta, Italia, Libia, Portogallo e Germania, così come l’agenzia EU Frontex, erano state informate di un gruppo di 55 persone (in seguito si è scoperto essere 63) in mare in difficoltà, ma hanno preferito lasciare che dodici di loro morissero di stenti o affogate, mentre orchestravano il  respingimento forzato dei sopravvissuti in Libia, luogo di guerra, torture, stupri.

Come mostreremo in questo report, e contrariamente a quanto dichiarato dal Governo maltese, l’imbarcazione si trovava alla deriva nella zona SAR Maltese, non lontano dall’isola di Lampedusa. Tutte le autorità hanno evitato di intervenire, usando la pandemia globale COVID-19 come scusa per infrangere crudelmente la legge del mare e ogni convenzione per i diritti umani e dei rifugiati. In primo luogo le Forze Armate di Malta, poi tutte queste altre Autorità, sono da ritenere responsabili per la morte di dodici esseri umani e per la sofferenza di decine di altri.

In nome delle vittime e dei sopravvissuti, imprigionati adesso nel disumano centro di detenzione Tarik Al Sikka di Tripoli, riteniamo le autorità responsabili per aver mancato al dovere di intervenire e soccorrere e per aver attivamente creato le condizioni affinché ciò accadesse.

Questo caso, come tanti altri casi di distress ricevuti da Alarm Phone, evidenzia ancora una volta gli effetti devastanti sulle vite dei migranti causati dalle politiche europee di gestione dei confini.
Non si tratta solo di inefficenza, ma di sforzi concertati per impedire a chi si trova in mare in difficoltà di ragiiungere l’Europa. Ad ogni costo.

La rete Alarm PhoneSea-Watch e Mediterranea Saving Humans, attraverso l’impegno e la mobilitazione attiva, hanno tentato in ogni modo di evitare altre vittime, purtroppo invano. Sappiamo che niente potrà restituire agli amici e alle famiglie i loro cari, deceduti in circostanze inaccettabili. Sappiamo che i sopravvissuti si trovano di nuovo a vivere nell’inferno libico, costantemente sottoposti a torture e crudeltà inimmaginabili. Abbiamo tentato di far salvare quelle 63 persone finchè erano ancora vive, ma abbiamo fallito. Abbiamo fallito perchè attori istituzionali europei avevano già deciso di lasciarli morire.

In questo report presentiamo la ricostruzione dettagliata del caso di distress, mostrando chiaramente ciò che è accaduto e come Malta e altre Autorità europee abbiano rifiutato di soccorrere il natante in difficoltà. Abbiamo raccolto prove basandoci sui nostri contatti diretti coi naufraghi e coi loro parenti, oltre che sulle testimonianze di coloro che sono stati respinti illegalmente in Libia. Abbiamo raccolto dati sui movimenti degli assetti statali e privati in mare e in cielo. Abbiamo un’enorme quantità di documenti che mostrano nel dettaglio le comunicazioni con le Forze Armate Maltesi, col MRCC italiano, con la cosiddetta Guardia Costiera libica e con le altre parti europee, le quali o si sono rifiutate d’intervenire o hanno compiuto azioni illegali. Mostreremo alcuni di questi documenti, mantenedoci a disposizione, se richiesti, per una condivisione più approfondita.

RIASSUNTO DEI FATTI

Nella notte tra il 9 e il 10 aprile 2020, 55 persone (successivamente confermate 63), di cui sette donne e tre bambini, lasciano la Libia partendo da Garabulli su di un gommone in precarie condizioni.

Venerdi 10 aprile, un assetto aereo di Frontex individua tre gommoni con naufraghi a bordo nella zona SAR libica, stando alle dichiarazioni stampa rilasciate da Frontex all’agenzia ANSA di Roma in data 13 Aprile (ore 16.14): “Nel rispetto delle procedure operative e delle leggi internazionali abbiamo immediatamente informato i Centri di Coordinamento e Soccorso Marittimo (Italia, Malta, Libia e Tunisia) fornendo le coordinate esatte delle imbarcazioni”.

Nella notte tra il 10 e l’11 aprile, i naufraghi alla deriva contattano Alarm Phone. Comunicano che il gommone sta imbarcando acqua e di aver urgente bisogno di assistenza. Dopo aver condiviso la loro posizione GPS, che li collocava in acque internazionali (N 33°41.795′, E 013°34.0124′ ricevute alle 01:52 CEST, 11/04/2020), Alarm Phone contatta le autorità competenti a Malta, in Italia e in Libia. Durante le ore successive, Alarm Phone resta in contatto con le persone a bordo del gommone e comunica costantemente le nuove coordinate e i dettagli del distress alle Autorità competenti.

Sabato 11 aprile, alle 9.20 ora locale, Alarm Phone riesce a contattate le autorità libiche telefonicamente. Essi comunicano che “La Guardia Costiera libica adesso effettua solo manovre di coordinamento a causa del COVID-19: non possiamo attuare alcun salvataggio ma siamo in contatto con Malta e con l’Italia”.

Alarm Phone mantiene il contatto con l’imbarcazione in distress. Svariati aggiornamenti di coordinate vengono condivisi con le autorità. Ciò nonostante, gli organi competenti rifiutano di operare o coordinare il salvataggio per le 55 vite in balìa del mare.

Domenica 12 aprile, ore 12.45, Alarm Phone riceve nuove coordinate (N34° 29.947′ E013° 37.803′) dal natante, che lo mostrano nella SAR maltese. Alle 14.05 le persone a bordo chiamano ancora, richiedendo disperatamente aiuto. Questo sarà l’ultimo contatto che abbiamo avuto con loro.

Nel pomeriggio di lunedì 13 aprile, in seguito alla perdita di contatto per circa 36 ore e grazie alla pressione di varie parti (vedi il salvataggio effettuato dalla ONG basca Aita Mari), sia le Autorità Italiane sia quelle Maltesi organizzano missioni di sorveglianza aerea e finalmente identificano la posizione dell’imbarcazione in difficoltà alle ore 23.45 con coordinate 35°01’M 013°06’E.

Martedi 14 Aprile, ore 00.21, Malta invia un NAVTEX a tutte le unità. “A tutte le unità in transito nella zona interessata si richiede attenzione e assistenza se necessario”. La posizione GPS coincide con la rotta in deriva dell’imbarcazione con i 55 migranti a bordo. Dal NAVTEX, traspare un rifiuto di Malta nel fornire un PoS (Place of Safety). In quei minuti, la nave cargo M/V IVAN stabilisce contatto visivo con il gommone in distress. Per l’ennesima volta, Alarm Phone contatta le Forze Armate Maltesi per chiedere se effettivamente stia avvenendo l’operazione di ricerca e soccorso.

Poco dopo, la nave IVAN si ferma a un miglio dall’unità da soccorrere, mentre Malta ordina di mantenere il contatto visivo fino all’arrivo del mezzo di soccorso. A causa delle onde alte e delle avverse condizioni meteo-marine (peggiorate dall’oscurità e dalla struttura del cargo), IVAN è impossibilitata ad effettuare il salvataggio, e aveva precedentemete ricevuto da Malta l’ordine di non intervenire. Un assetto aereo delle Forze Armate maltesi era sulla scena durante la durata dell’operazione per coordinare la IVAN e comunicare l’arrivo di due imbarcazioni.

Secondo le testimoniaze raccolte dai sopravvissuti, tre naufraghi provano a raggiungere la IVAN a nuoto e affogano. Altre quattro persone, disperate, si tolgono la vita tuffandosi in mare e lasciandosi annegare. Nelle parole di un superstite: “Abbiamo gridato aiuto e cercato di farci vedere. Tre persone hanno provato a raggiungere a nuoto la nave grande quando hanno visto che si allontanava. Sono annegate. Abbiamo fatto segnali all’aereo, mostrando le luci dei telefoni e abbiamo alzato con le braccia il bambino per mostrare che eravamo in grave difficoltà. L’aereo ci ha visti di sicuro, perchè ha emesso un segnale luminoso rosso. Dopo poco un’altra imbarcazione è arrivata da non so dove e ci ha presi”.

Intorno alle 5.00, una nave “di supporto all’attività di pesca” e un’altra unità non ancora identificata sono arrivate sulla scena e hanno effettuato il trasbordo dei sopravvissuti, sotto il coordinamento delle Forze Armate Maltesi. Alla IVAN viene impartito l’ordine di andarsene.

Martedì sera, le Autorità maltesi comunicano ad Alarm Phone che non ci sono più imbarcazioni in distress nella SAR, senza dare informazioni riguardo il natante con le 63 persone a bordo. Le Autorità italiane non sembrano consapevoli dell’avvenuta operazione di respingimento, dato che continuano a sorvegliare la zona con assetti aerei, ovviamente senza esito.

Nella mattina di mercoledì 15 aprile, Alarm Phone riceve l’informazione che 56 persone sono state riportate in Libia a bordo di un peschereccio. Tra di loro ci sono I corpi di 5 persone decedute durante il viaggio per fame e disidratazione. 7 altre persone risultano disperse. Secondo i sopravvissuti, l’equipaggio del “peschereccio” ha fatto creder loro che sarebbero stati condotti al salvo sulle coste europee. In realtà sono stati deportati in Libia.

Mercoledì pomeriggio le Autorità Maltesi ammettono pubblicamente di aver coordinato l’operazione.

***

Il caso di distress era conosciuto da sei giorni dalle Autorità Europee, dall’avvistamento aereo Frontex del 10 aprile (secondo il comunicato stampa alle agenzie del 13 aprile). Da quel momento Malta, l’Italia e gli altri attori europei coinvolti in missioni nel Mediterraneo Centrale erano a conoscenza della situazione, segnalata anche da Alarm Phone durante la notte tra il 10 e l’11 aprile.

Nonostante l’impossibilità di intervenire da parte delle Autorità Libiche, dichiarata in una telefonata con Alarm Phone la mattina dell’11 aprile in cui l’Ufficiale libico in servizi afferma anche di essere in contatto con Italia e Malta, non vi è stato alcun coordinamento né intervento finalizzato al salvataggio di persone in balia del mare dopo 72 ore di agonia, in violazione della Legge Internazionale del Salvataggio in Mare (3.1.9 SAR Convention, 1979). L’obbligo degli Stati di assicurare la salvaguardia della vita in mare non può mai venir meno, anche se il caso di distress si verifica fuori dalla propria zona SAR di competenza (IMO Guidelines on the treatment of persons rescued at sea, par. 6.7).

Secondo la comunicato stampa ufficiale del Governo Maltese del 15 Aprile, Malta dichiara di aver assunto in ritardo il coordinamento, lanciando il messaggio NAVTEX, solo nella notte tra il 13 e il 14 aprile, dove era tra l’altro specificato che lo Stato non avrebbe fornito un Place of Safety, violando così la già citata cornice normativa.

Decidendo di non effettuare il salvataggio e non assicurando lo sbarco in un porto sicuro, il Governo Maltese si è reso responsabile di aver facilitato il respingimento illegale in Libia di persone in distress nella zona SAR Maltese, violando l’articolo 33 della Convenzione di Ginevra, gli articoli 2 e 3 della Convenzione Europea sui Diritti Umani e l’articolo 19 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea.

Alarm Phone, in collaborazione con Sea-Watch e Mediterranea Saving Humans

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