di Mauro Seminara
Il 7 aprile, con la nave Alan Kurdi appena avvicinata all’isola italiana di Lampedusa con a bordo 150 naufraghi, il Ministero dei Trasporti aveva firmato un decreto interministeriale che determinava frettolosamente “unsafe”, non sicuri, i porti italiani ad una specifica serie di circostanze da cui erano escluse le navi italiane, quelle che salvano persone sotto il coordinamento italiano e quelle che salvano persone in acque di competenza SAR italiana. In poche parole, il decreto definiva non sicuri i porti italiani alla Alan Kurdi e, da li a breve, alla Aita Mari. “In merito alla richiesta di soccorso della nave Alan Kurdi, il Mit conferma l’impossibilita di garantire porti sicuri in Italia a navi battenti bandiera straniera“, scriveva l’ufficio stampa del Ministero dei Trasporti in data 8 aprile 2020. La nota proseguiva, come non fosse già grave atto di autolesionismo il già citato attacco, con la sintesi della motivazione: “Attualmente, a causa dell’emergenza pandemica Covid19, i porti, infatti, non presentano più i necessari requisiti sanitari richiesti dalla convenzione di Amburgo“.
Nota di rilievo la cronologia degli eventi fino alla sera del 7 aprile con la nave della Ong tedesca Sea Eye che il giorno precedente – lunedì 6 aprile – aveva soccorso due imbarcazioni, una tra gli spari intimidatori libici, per un totale di 150 persone mentre a Lampedusa altri migranti sbarcavano autonomamente senza alcun disturbo. Martedì 7 aprile la Alan Kurdi si trova vicino Lampedusa, e stando alle affermazioni di molti soggetti politici di area maggioranza, rese nelle scorse settimane ai media sulla questione dei “decreti Salvini” e delle Ong, all’avvicinamento alle acque territoriali italiane delle Pelagie, porto sicuro più vicino per la nave umanitaria, l’autorità marittima avrebbe dovuto rispondere alla richiesta di place of safety (porto sicuro) con l’assegnazione del più vicino definito di concerto con il Ministero dell’Interno. A sera, i ministri De Micheli (Trasporti), Lamorgese (Interni), Speranza (Salute) e Di Maio (Esteri), pongono le rispettive firme sul documento discriminatorio che rende i porti italiani non sicuri a causa dell’epidemia di Covid-19, ma solo per le navi straniere che salvano persone in mare fuori dalla SAR italiana e senza il coordinamento del MRCC di Roma. Per tutto il resto del mondo i porti italiani rimangono sicuri.
Il decreto interministeriale del 7 aprile, giorno della firma dei quattro ministri della Repubblica italiana, interviene su norme che regolano il soccorso marittimo internazionale
Il 21 aprile, con una analisi pubblicata su Questione Giustizia, Alessandra Algostino, ordinario di diritto costituzionale all’Università di Torino, demoliva in pochi passaggi il decreto interministeriale puntando sull’evidenza di semplice violazione dei diritti fondamentali pretesa in maniera discriminatoria dai quattro ministeri italiani. Dell’analisi proposta dalla professoressa Algostino basterebbe citare questo logico subordinato delle norme su cui il decreto insiste: “Il diritto alla salute è un diritto fondamentale dell’«individuo» (art. 32 Cost.), anche del naufrago che ha diritto ad un porto sicuro. Il diritto ad un porto sicuro è condizione necessaria per la tutela di diritti fondamentali e riconosciuti in capo a ciascuna persona umana quali il diritto alla vita, il divieto di trattamenti inumani o degradanti (quando non di tortura), il diritto di asilo, quando non la libertà personale. Le condizioni a bordo delle navi condannate a stare in mare per giorni configurano trattamenti inumani o degradanti, di cui è responsabile chi dispone la chiusura dei porti.” Semplicità ineccepibile che sarebbe più che sufficiente per rispedire ai mittenti il decreto interministeriale redatto e firmato di gran premura il 7 aprile 2020.
Algostino spiega che non c’è ragionevole proporzione nel decreto che nega il diritto ad un porto sicuro sulla base delle lacunose motivazioni legate all’emergenza sanitaria. Ragionevole proporzione assente perché il decreto ministeriale numero 150 del 7 aprile 2020 “espone i naufraghi a violazioni di diritti fondamentali ed universali, dal diritto alla vita al divieto di trattamenti inumani e degradanti: diritti che non possono entrare in gioco se pur in un bilanciamento con il diritto alla salute (inteso, peraltro, ‘in senso nazionalista’)“. Per quanti a questo punto si interrogano sugli assunti in premessa di decreto, vale la pena riprendere letteralmente il mondo in cui la professoressa Algostino liquida in premessa i vasi “Visto” con cui è stato arricchito in pomposa presunta conoscenza del diritto internazionale il decreto: “Si può osservare come i diritti che devono essere riconosciuti ai naufraghi siano liquidati con un generico riferimento al catalogo del Consiglio d’Europa in tema di diritti e al diritto internazionale concernente il rifugio, senza alcuna considerazione specifica in relazione ai singoli diritti e senza alcun richiamo ai diritti sanciti dalla Costituzione, mentre il diritto relativo al soccorso in mare compare solo attraverso il riferimento alle linee guida sulle persone soccorse in mare adottate dal Comitato Marittimo per la Sicurezza“.
Quelli che la docente di diritto costituzionale definisce come i “Visto” iniziali, per rendere a tutti comprensibile il riferimento, sono peraltro contestati in Parlamento da un senatore che, a ministro dei Trasporti presente in Senato e protagonista in aula di maldestra confusione normativa in aula, ha perfino dovuto spiegare la differenza tra Convenzione di Amburgo e Convenzione di Montego Bay. A fare l’appunto sulla differenza tra la cosiddetta “Convenzione SAR” (Amburgo) e “Convenzione UNCLOS” (Montego Bay) è il senatore Gregorio De Falco, che dopo una vita trascorsa con i galloni da ufficiale della Guardia Costiera sembra che in materia abbia maggiore dimestichezza della titolare del Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti cui fa capo il Corpo delle Capitanerie di Porto. De Falco però non si limita a questo e, nel corso di una intervista radiofonica rilasciata a Sergio Scandura di Radio Radicale mercoledì 22 aprile, spiega che ha tentato in aula di far comprendere al ministro che uno Stato costiero può impedire il passaggio ad una nave che rappresenta un pericolo per la nazione ma che risulta “paradossale che è lo Stato costiero che può rappresentare un pericolo per la nave”. Anche il senatore De Falco, intanto, si interroga ed interroga sul perché il decreto 150 del 7 aprile 2020 non sia ancora in Gazzetta Ufficiale: “Se questo decreto non è stato pubblicato in Gazzetta Ufficiale come non è stato pubblicato da nessuna delle amministrazioni – Ministero dei Trasporti, della Salute, Interni ed Esteri – come sarebbe possibile, per chi lo deve osservare, conoscerlo e poi osservarlo?“.
Il decreto, chiaramente discriminatorio, già definito ad navem su queste stesse pagine, è scomparso per volere degli stessi ministeri che con una azione da milioni di euro ha posto l’accoglienza dei naufraghi – per cui il decreto era stato redatto – in deroga allo stesso decreto adesso inutile, essendo le ultime due navi Ong (Alan Kurdi ed Aita Mari) in quarantena, quindi impossibilitate ad intervenire in soccorso di eventuali migranti in pericolo ancora per parecchi giorni. Il decreto era un evidente disastro ed ancor più disastrosa sarebbe stata la sua pubblicazione in Gazzetta Ufficiale. In qualche modo quindi, senza revocarlo, i ministeri che lo hanno disgraziatamente firmato lo hanno “insabbiato” risolvendo i porti decretati unsafe (non sicuri) con un trasbordo invece di uno sbarco (nave Rubattino al largo di Palermo). Al quesito “Cosa se ne deve dedurre?“, su Radio Radicale, il senatore De Falco ha così risposto: “Si deve dedurre che esiste l’atto ma non è efficace. Non è entrato e quindi non può intervenire nell’ordinamento“. Un ulteriore utile quesito riguarda quindi la consecutio temporum della dichiarazione di porti italiani “unsafe” con l’ingaggio della nave Rubattino. Il decreto interministeriale è nato per impedire alla Alan Kurdi di avere un porto sicuro italiano oppure per legittimare l’impiego della nave Rubattino con cui aggirare il divieto di sbarco posto dal decreto? Nave Rubattino che, tra le altre caratteristiche in capo alla compagnia ed all’armatore, appartiene a quella Compagnia Italiana di Navigazione che a luglio vedrà se il Governo intende rinnovare le convenzioni di continuità territoriale riconoscendole ragione di interesse per la nazione oppure no. Dubbio legittimo, se pur grave.
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