di Mauro Seminara
La storiella, o per meglio dire lo spauracchio elettorale sul “pull factor” delle navi Ong che poi si è trasformato in fattore di attrazione per sanatoria dei braccianti e chissà quante altre forme di fake news per elettori boccaloni assumerà, è ormai scientificamente morta e sepolta. Giusto i razzisti potevano credere, per opportuna convenienza, che navi pronte a salvare persone in caso di rischio naufragio costituivano un fattore di attrazione per i migranti. Dopo quantità di milioni di euro tali da doverli trasferire con dei tir se fossero stati consegnati in contanti in Libia, e motovedette della prestigiosa Guardia di Finanza italiana “donate” ai mai distinti trafficanti-guardacoste della Libia, dopo una presenza militare italiana nel porto di Tripoli che va avanti ormai da anni per supplire, affiancare ed istruire i libici sulle mansioni loro affidate per esternalizzare i respingimenti affidando l’incarico agli stessi vessatori da cui bisogna far evadere le persone, alla fine di tutto questo dispendio di risorse economiche ed umane, politiche e militari, a Lampedusa ci si ritrova a dover contare mille migranti in appena tre giorni.
Stiamo parlando di 33 eventi migratori, in alcuni casi di più barchini accorpati in un unico sbarco in porto dalle motovedette, nei giorni di giovedì, venerdì e sabato, quindi tra il 9 e l’11 luglio. Secondo il dato dell’Osservatorio Migrazioni
In soli tre giorni di sbarchi, quasi tutti con intervento delle motovedette in acque territoriali e quindi senza soccorsi in acque internazionali, con molti approdi della raffica di sbarchi direttamente in autonomia, il costo delle attività delle motovedette chiamate ad entrare ed uscire dal porto di Lampedusa senza sosta alcuna ha determinato un evidente impennata dei costi di gestione. Impegni di risorse economiche aggravati dai trasferimenti da Lampedusa verso la Sicilia a mezzo nave traghetto di linea e motovedette inviate appositamente da porti della Guardia di Finanza e della Guardia Costiera che distano oltre cento miglia dalle Pelagie. Forze dell’ordine, medici, mediatori e turni massacranti per tutti. Unico scopo di questo delirio gestionale della cosa pubblica è mettere una pezza alla conseguenza di un piano industriale e di sviluppo del Paese Italia a medio-lungo termine e quindi all’assenza di una regolare gestione del flusso migratorio in entrata, con visti rilasciati e passaporti in tasca all’arrivo in Italia. In altre e più semplici parole, si può dire che il non sapere cosa fare domani, unito alla perdurante convinzione che i migranti del sud non devono arrivare mentre quelli del nord e dell’est sono liberi di fare ciò che vogliono, comporta l’effetto “immigrazione clandestina” quale inevitabile conseguenza. Ed è fuori discussione, qualunque partito voglia affrontare il dibattito, che la conseguenza di cui si parla è inevitabile.
Il “partito unico del disonore” ha rinnovato in sede parlamentare il finanziamento alla meschina missione libica volta a reprimere le partenze e respingere i migranti che salpano dalla Libia verso gli stessi lager dai quali bisognerebbe aiutarli a fuggire. Nel frattempo però, confinante con la Libia in guerra e vicina al primo partner commerciale europeo che è l’Italia, c’è la Tunisia che affronta una crisi senza precedenti. La più grave crisi economica da quando nove anni addietro il popolo si è ribellato e liberato dalla dittatura del tiranno imposto dall’Italia quale caporale locale tunisino: Ben Alì. La fame del Paese che non ha più recuperato il tesoro nazionale sottratto dal suo longevo dittatore e dai suoi parenti, e che dopo la rivoluzione dei gelsomini – meglio conosciuta in Italia come “primavera araba” – si è trovato a tentare di instaurare la democrazia sottoscrivendo però al contempo la cambiale con il Fondo Monetario Internazionale (FMI) – che non è esattamente un sostenitore della democrazia e delle garanzie costituzionali a tutela del popolo – ha condotto la Tunisia sull’orlo del baratro e l’effetto migratorio cui si assiste ne è la conseguenza. L’Italia non è certo una terra ricca e felice in questo periodo, ma l’immagine che la stessa Italia proietta in Tunisia, unita alla descrizione trasmessa per banale orgoglio da tunisini che ci vivono e si vergognano in molti casi a raccontare che tipo di vita conducono, induce i disperati tunisini alla fame a tentare la via del mare per cercare lavoro in Italia. E in effetti, forse è anche vero che in Italia il lavoro lo troveranno, riuscendo ad evadere il respingimento, perché questo è il Paese del sommerso e dello sfruttamento dei lavoratori: in Italia c’è sempre posto per chi si accolla di lavorare in nero e sottopagato.
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