Oggi è il 20 luglio 2017, ed anche il venticinquennale ce lo siamo levati dalle palle. Le luci si sono spente, gli attori sono andati via, il sipario è calato su una ricorrenza ingombrante. Dopo ventitre anni di annuale farsa, fatta di retorica, ci si aspettava inevitabilmente qualcosa in più. Quindi la spettacolarizzazione Rai a “martiri unificati” del 23 maggio e la determinante e risolutiva audizione in Commissione antimafia del 19 luglio, resa solenne dal presidente della Repubblica, per un anniversario speciale come quello delle nozze d’argento di un indissolubile matrimonio. Adesso si può tranquillamente tornare all’oblio quotidiano che ha comunque caratterizzato i venticinque anni che ci siamo buttati alle spalle. Abbiamo rivisto tutto in bella mostra. Abbiamo apprezzato l’esposizione di ciò che è rimasto della Fiat Croma di Giovanni Falcone e della borsa di cuoio di Paolo Borsellino con il suo contenuto di segreti di Stato. L’occasione è stata utile anche per fare i dovuti paragoni tra le infallibili doti dei nostri eroi e il denaro pubblico inutilmente speso dagli inconcludenti Di Matteo di turno. Perché sia chiaro che un Giovanni Falcone non avrebbe mai tentato di svelare i rapporti Stato-Mafia che portarono alla sua morte ed a quella dell’amico e collega Borsellino. Mai e poi mai avrebbe sperato che, messo sotto pressione, qualcuno avrebbe anche potuto dire qualcosa sui rapporti Stato-Mafia; oppure che avrebbe anche potuto tradirsi nel corso di un tentativo di confutazione di un testimone provocatore come Massimo Ciancimino. Ormai siamo comunque abituati a vedere polemici polveroni alzati a breve distanza dal cuore dei veri problemi e per ragioni palesemente inutili. Anche l’odierno giudizio di perfezione su chi non c’è più, come i nostri cari eroi, è quindi utile per screditare chi c’è e confondere le idee su chi è vivo ma non pervenuto. Perché sentire adesso santificare gli eroi scomparsi dalle stesse persone che, oltre venticinque anni addietro, preferivano dar retta al “corvo” di turno, e magari asserivano pure che con buona probabilità la bomba nella villa dell’Addaura se la era piazzata lo stesso Giovanni Falcone in cerca di visibilità, fa a dir poco accapponare la pelle. Ma cosa c’è dietro questi patetici siparietti? Cosa si nasconde dietro l’inutile polverone su cui dibattere a favor di stampa? Celebre è una frase attribuita a Giovanni Falcone, quasi fosse la teoria della relatività scoperta da Albert Einstein, che di tanto in tanto riemerge per utili giudizi emessi col senno del poi. La frase in questione è quella che riguarda il malaffare che spesso si cela dietro i movimenti di grossi capitali. Quella, per intenderci, sul “seguire il denaro” per trovare gli imbrogli. Non era una teoria della relatività, ma una logica applicata. E Falcone era molto fastidioso proprio per lo scrupolo con cui la applicava. Adesso credo sia più utile chiedersi se di magistrati scrupolosi e dalla schiena dritta come Falcone e Borsellino non ne disponiamo più, oppure se c’è qualcosa in più dietro i polveroni ed i paragoni quotidiani tra togati vivi e togati morti. Se oggi fossero vivi i Giovanni Falcone e Paolo Borsellino uccisi venticinque anni fa – e non se fossero “ancora” vivi, ma se fossero vivi proprio loro: i martiri – potrebbero sicuramente condurre ogni sorta di inchiesta su Stato, mafia, politica, servizi segreti deviati ed ogni sorta di traffico illecito che possa coinvolgere più del semplice mafioso con l’argilla tra i piedi e la lupara sulle spalle. Ma loro non ci sono più, e gli altri vengono messi sotto inchiesta se toccano apparati dello Stato con le loro inchieste. Avviene tutto dietro la ribalta dell’indimostrabile teorema Stato-Mafia. Dietro il fronte del palco ci sono infatti miliardi che si muovono e commesse ricchissime che società private assumono in virtù di opinabili – almeno questo – esternalizzazioni. Non mi sto riferendo ai Canadair che dovrebbero spegnere gli incendi e di cui tanto si parla negli ultimi giorni. Mi riferisco piuttosto a miliardaria quanto ormai obsoleta tecnologia modello “F-35” ed a Cyber security affidata a società private invece che sviluppata e condotta direttamente dallo Stato. Mi riferisco alle intercettazioni condotte da società private per conto di servizi segreti appartenenti neanche più distintamente ad un Stato e non utilizzabili in un’aula di Tribunale perché la legge italiana ne nega l’ausilio alle Procure della Repubblica. Oppure ancora a forniture di armi a trafficanti di droga e trafficanti di esseri umani, in zone in cui la guerra non c’è e viene creata ad hoc, e servizi di intelligence esternalizzati con appalti vinti da società spesso riconducibili a quello stesso mondo finanziario e industriale che esercita attività lobbistica sul potere politico delle nazioni. Un mondo presente e vicino più di quanto si possa mai immaginare, ma al tempo stesso invisibile agli occhi del popolo. Un mondo che, forse, avrebbe tutti gli strumenti per architettare piani come quelli messi in atto il 23 maggio ed il 19 luglio del 1992. Sarà anche più comodo credere che un Totò Riina abbia commissionato uno studio balistico al Genio guastatori per capire quanto esplosivo fosse necessario per distruggere un lungo tratto di autostrada e come e dove piazzarlo, ma rimane poco credibile. Come poco credibile è l’idea di una persona accampata per settimane nei pressi di via D’Amelio in attesa che, prima o poi, Paolo Borsellino si recasse a far visita ai parenti. Ed ancor meno credibile è che lo Stato non abbia ritenuto di dover proteggere Paolo Borsellino con ogni mezzo, anche a costo di schierare l’intero assetto difensivo delle Forze Armate, dopo la strage di Capaci. Ma se seguissimo i soldi, come diceva Falcone, dove arriveremmo? Alla mafia, allo Stato, al mondo dell’alta finanza che tira le fila disponendo anche dei soldi dello stesso Stato? Giovanni Falcone e Paolo Borsellino dove erano arrivati, malgrado la massiccia campagna con cui si tentò di screditarli in ogni sede? Probabilmente, almeno un livello sopra quello della criminalità organizzata detta Cosa Nostra. Almeno uno.
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