Se ci si ritrovasse a camminare per la “favela” di Campobello di Mazara, il primo probabile pensiero sarebbe sulla scelta sbagliata della definizione. Basterebbe guardarsi intorno. Il pensiero correrebbe alle favelas del Brasile, nei dintorni di Rio De Janeiro, di San Paolo, di Minas Gerais, di Bahia. Il termine anglosassone che le identifica è ‘bidonville’, la città dei bidoni. La città delle baracche è invece il significato dell’italiano ‘baraccopoli’. In realtà si tratta sempre di abitazioni che sono costruite con diversi materiali, da semplici mattoni a scarti recuperati dall’immondizia e molto spesso le coperture sono in Eternit, recuperato anch’esso dall’immondizia, grazie all’incuria di noi occidentali e delle nostre istituzioni.
Se non si corresse il rischio di incorrere in cinismo, quella di Campobello di Mazara, ridente località in provincia di Trapani, si potrebbe dire che somiglia ad un campeggio. Dalla distanza di qualche centinaio di metri si vedono spuntare, sopra la bassa vegetazione, la parte alta delle tende: bolle blu e azzurre che proteggono dall’inclemente meteo chi ci vive. Si tratta di una tendopoli realizzata con scarti di teloni tenuti assieme grazie alla fantasia. La terra su cui sono costruiti i ripari è secca e arida d’estate e si trasforma in fango alle prime piogge. Durante la stagione della raccolta delle olive, la tendopoli accoglie poco più di 800 persone. Si tratta principalmente d’immigrati che già vivono in Italia e che raggiungono Campobello di Mazara per il lavoro nei campi.
Non è un fatto nuovo per la nostra cultura, basti ricordare le “mondine”, donne che raggiungevano in bicicletta le risaie, spesso spostandosi di diverse centinaia di chilometri e vivendo, per tutta la durata della stagione, in strutture d’appoggio attrezzate appositamente. Invece loro durante il giorno raccolgono olive, con una sorta di para-contratto che assomiglia più al cottimo che alla paga oraria, e anche questo ricorda le mondine. Ma il contratto delle mondine oggi sarebbe illegale, come quello di questi ragazzi che raccolgono le olive. Provengono da posti diversi dell’isola, ma anche dal continente. Tutti hanno attraversato il canale di Sicilia per raggiungere l’Italia. Tutti lasciano ancora una volta il luogo in cui sono riusciti a vivere, per venire a Campobello a lavorare. Pochi e scarsi i servizi a loro offerti. Le contromisure messe in atto dalle istituzioni, sia in termini di disponibilità che di accoglienza, sono criticabilissime.
A poche centinaia di metri dalla tendopoli c’è un bene espropriato alla mafia, il frantoio “Fontane d’Oro”. Rappresenta l’alternativa offerta, la possibilità di vivere in condizioni migliori, con servizi doccia reali. Non come i pantanosi spazi circondati da teloni di plastica, peraltro solo due, sparsi nella tendopoli ed adibiti a docce. Ma tutto, in occidente, ha un prezzo e anche questo modello di accoglienza ha il suo. Si tratta di 2 euro al giorno. Una sorta di affitto. Per quanto il prezzo possa apparire più che vantaggioso, si tratta di 60 euro al mese e molto spesso è la cifra che ognuno di loro riesce a risparmiare ogni mese per inviarla alla famiglia nei luoghi di origine. Preferiscono quindi vivere, per questo periodo, in luoghi improbabili, dove ci sono problemi di degrado, d’igiene pubblica, dovuti alla mancanza d’idonei sistemi di fognatura e acqua potabile corrente. Inoltre diventano facile preda del sistema di sfruttamento che facilmente s’inserisce in un lavoro povero e controllato con la logica criminale del caporalato.
Volontari di diverse associazioni lavorano nella tendopoli. Le organizzazioni sindacali cercano di intercettare i bisogni di questi lavoratori. Uno di loro racconta perché ha deciso di vivere all’interno del frantoio: lo scorso anno era stato nella tendopoli, ma la sofferenza nel rientrare in un letto di fango dopo una sfinente giornata di lavoro era troppa. Capiva che la sua dignità stava scendendo troppo in basso. È nato a Dakar e vive nel sud della Sicilia Ibrahim. Questo non è il suo vero nome, ma non è importante. Viene da una delle culle della civiltà. Nella terra in cui è nato si sono rivenute tracce d’insediamenti umani risalenti al Paleolitico e occupazioni stabili, ossia villaggi, sin dal Neolitico. È la terra in cui nel XV secolo abitavano i mandingo, uno dei maggiori gruppi etnici dell’Africa occidentale e centrale. Ibrahim è laureato in Filosofia, alla Cheinkh Anta Diop, la più antica e grande università del Senegal. Sa che nei due mesi di lavoro a Campobello non riuscirà a mandare denaro alla sua famiglia, che vive nei dintorni di Dakar. Là ci sono i suoi genitori, sua sorella e sua moglie. Le poche decine di euro che riesce, tutti mesi, a far arrivare a loro, sono più di quello che guadagnerebbe lavorando là, ammesso di poter trovare un lavoro che non sia taglieggiato da un sistema che, ricordiamo, in termini di libertà d’espressione, condizioni carcerarie, discriminazioni, diritti dei minori, ha riempito fitte pagine, con le sue violazioni, del Rapporto annuale 2016 di Amnesty International.
Immigrati che migrano all’interno dello stato che li ospita, spostandosi, stagione per stagione, là dove c’è lavoro. E per fare questo sopportano condizioni di vita che, come diceva Ibrahim, tolgono la dignità. Campobello di Mazara rappresenta solo uno di questi esempi, sparsi in tutta Italia e in tutta Europa. Se ne parla poco. Solo alcuni networks hanno realizzato qualche servizio. Gli ospiti della tendopoli sono diffidenti. Il migrante va di moda, soprattutto se lo fotografi e lo riprendi in un intimo poco dignitoso dal punto di vista umano. “Immigrati migranti” è un documentario pensato per essere realizzato nell’arco di diversi anni. Le riprese sono iniziate nel 2015 quando Agata Katia Lo Coco, la regista del documentario, è stata per diversi giorni nella tendopoli, realizzando le prime riprese, da lontano. Alla fine della stagione delle olive l’insediamento si svuota, ma non completamente. Si stima che la parte stanziale della tendopoli sia di circa un’ottantina d’individui. Anche loro, in altri periodi dell’anno, migrano verso luoghi in cui è possibile lavorare. Il lavoro di documentazione è continuato durante la stagione del 2016 quando Agata è stata ancora alla tendopoli, cercando di farsi riconoscere e di ricollegare il discorso iniziato. Ora, per il film, è necessario entrare più all’interno della storia, è il momento di far capire a tutti che dove non c’è narrazione, si creano i presupposti per il revisionismo. Troppo facile chiamarla ‘favela’.
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