di Massimo Costanza
Dici pizza e pensi Napoli. Avranno pensato la stessa cosa anche a Seoul ieri sera allorquando, primo caso al mondo, hanno assegnato il riconoscimento di patrimonio immateriale dell’umanità dell’UNESCO alla pizza napoletana o meglio – e non si tratta certo di un caso – patrimonio immateriale dell’umanità all’arte del pizzaiolo napoletano.
La differenza è sostanziale e non solo formale in quanto il premio valorizza ancor più quell’arte unica del saper realizzare capolavori dal nulla, arte che solo il genio napoletano possiede.
Lo sapeva bene anche la grande scrittrice Matilde Serao allorquando, nella sua più grande opera di restituzione verista dedicata al popolo partenopeo, “Il Ventre di Napoli” , riusciva mirabilmente a far sentire sapori e odori anche a chi, fuori dalle mura di Napoli, non li aveva mai vissuti. Erano i tempi in cui la Serao certificò quella che definirei la prima scommessa di un “made in Naples” d’autore e che già nell’800 portò il primo imprenditore napoletano ad anticipare l’export gastronomico di qualità oggi universalmente riconosciuto su tutti i campi del food, dalla pasta di Gragnano alla bufala campana (aversana o battipagliese lascio a voi lo scontro…).
Allora si trattava di Roma, città a 200 km e del primo embrionale esempio di catena agroalimentare di esportazione, oggi i vari F.lli La Bufala, Sorbillo & co. hanno pizzerie rinomatissime a tutte le latitudini del pianeta dal Giappone agli States!
Ecco allora che la pizza, in questo mio romantico e visionario modo di amare Napoli, città alla quale appartengo avendola vissuta per quasi tre anni in un mio passato universitario non lontano, la pizza dicevo, rappresenta quell’occasione di riscatto per un popolo che non accetta la resa e che ha dovuto da sempre inventarsi l’arte per tirare a campare!
Napoli è nu muors e velen: o te trase int e vvene o nient!!! (Massimino, questo è un mondo a parte! Napoli è un morso di veleno: ti entra nelle vene oppure niente!)”. Queste parole su Napoli ed i napoletani dette da un uomo avvocato, scrittore, compositore e imprenditore di sartoria artigianale sono, oggi più che mai, vere. Il napoletano ha il fuoco sacro del genio nelle vene. Lo porta innato nel suo Dna. Forse la fame atavica patita dagli scugnizzi di strada, forse l’arte innata del saper costruire castelli dal nulla. Forse tutto questo e tanto altro meritavano davvero un riconoscimento cosi alto. Questo premio va riconosciuto a Francesco, alle sue parole ed ai milioni di Francesco sparsi nei vari angoli del pianeta ma meno fortunati di lui che invece ha potuto studiare, mettendo a frutto le sue grandi doti e godendo del privilegio di potersi svegliare, ogni mattina, all’ombra del Vesuvio.
Una pizza dunque simbolo di grande riscatto morale per una società spesso troppo bistrattata e mortificata da un cliché non veritiero. Tutte le volte che arrivo a Napoli me lo domando, non solo davanti ad una pizza di Sorbillo, ai tribunali insieme a lui, ma in ogni angolo che respiro di questo mondo unico. Tutte le volte che riparto da Napoli, la città ed i napoletani mi danno la giusta risposta: una risposta di grande cultura e civiltà che è il suo più vero ed autentico patrimonio di umanità!
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