Alejandro sta guardando il giornale. Legge una notizia che attira la sua attenzione. Posa il quotidiano sul tavolino, prende il soprabito ed esce. Ha con sé il giornale. La città si presenta in tutto il suo grigiore e una leggerissima nevicata sta imbiancando le strade. Le poche macchine che passano davanti a lui, lasciano una scia lungo la strada. Si avvia alla fermata dell’autobus. Dopo qualche minuto il bus si ferma. Sale. L’autobus raggiunge la periferia della città. Alejandro scende e si dirige verso un palazzo color crema di quattro piani, circondato da un giardinetto. Suona un campanello su cui c’è scritto “Jorge Barros Tapia”.
La porta sul pianerottolo si socchiude. Una donna con i capelli bianchi fa capolino. Riconosce Alejandro e apre la porta. I due si abbracciano. “Papà?” chiede Alejandro. La donna si scosta e indica la stanza. Alejandro entra nella camera e Jorge, il padre, è seduto su una poltrona e sta leggendo un libro. Dimostra tutti i suoi settantanove anni. Alza lo sguardo e riconosce il figlio. Posa il libro e appoggia la mano sul bracciolo destro per alzarsi ma Alejandro lo raggiunge e lo bacia sulla fronte. Alejandro si toglie il soprabito e prende, dalla tasca laterale il giornale. Lo apre alla pagina che contiene la notizia che stava leggendo e lo passa al padre. Jorge comincia a leggere con attenzione poi, all’improvviso una lacrima segna il suo volto. Alza lo sguardo verso il figlio “Andiamo?”.
Alejandro e Jorge sono seduti sulla panchina del binario 1 di una piccola stazione. Dopo qualche minuto arriva un treno che rallenta e si ferma. I due uomini salgono. Trovano posto in uno scompartimento, dove c’è una ragazza di circa venti anni, sguardo incollato allo smartphone. E’ vestita completamente di nero e ha diversi tatuaggi e un paio di piercing sul viso. Il treno parte. Dopo un po’ Jorge si rivolge al figlio “A che ora arriviamo a Bologna?”. La ragazza alza lo sguardo e lo guarda. “Anch’io vado a Bologna, arriveremo per le tre.” Alejandro sorride, mentre Jorge socchiude gli occhi. Dopo un po’, la ragazza ripone il suo smartphone nello zaino. “Non siete italiani, vero?”. Alejandro sorride. “Naturalizzati. Siamo di origini cilene. Siamo nati là, ma siamo arrivati in Italia nel 1975.”. “Non ero ancora nata. E cosa ci andate a fare a Bologna? Spese? Andate a trovare dei parenti?”. Jorge dischiude gli occhi “E’ una lunga storia.”. La ragazza prende dallo zainetto una bottiglietta d’acqua. “Non ho nient’altro da fare fino alle tre. Ha tutto il tempo che serve.” Beve. Jorge raddrizza la schiena e si sistema sul grande sedile. “Dovrò cominciare dall’inizio. Mi chiamo Jorge, Jorge Barros Tapia e sono nato a Santiago del Chile il 16 dicembre del 1938.
A vent’anni stavo frequentando l’Istituto d’Arte, quando incontrai David Alfaro Siqueiros. Era già uno dei principali esponenti messicani della corrente dei “muralisti”. Diventai un suo allievo. Fucili, forconi, bandiere, barbe folte, visi fieri, sombreri. Questi erano i principali soggetti della nostra arte. Ci facevano da ispiratori altri due grandi artisti, Diego Rivera e José Clemente Orozco. Era una modalità di espressione nuova, oggi è abbastanza normale, si chiama street-art, mi sembra. Disegnare un murale voleva dire lanciare un messaggio per la lotta sociale. Anche in Chile c’erano alcuni muralisti, ma le esperienze artistiche che venivano dal Messico erano sicuramente le più importanti del Sud-America, anche perchè il murale veniva usato dal governo messicano post-rivoluzionario come programma educativo del popolo. Avevo venticinque anni quando nacque Alejandro – Jorge guarda il figlio e sorride – e di murales non si viveva e così feci domanda e fui assunto dal Ministero della Cultura. Mi occupavo della catalogazione delle opere in arrivo da altri musei o collezionisti per le esposizioni e del loro rientro. All’inizio del mese di agosto del 1973, cominciarono ad arrivare una serie di lavori importanti di artisti contemporanei, muralisti messicani. Arrivarono opere di Rivera, di Orozco e del mio mentore Siqueros. Iniziammo così l’allestimento di questa imponente mostra. Lavorammo ininterrottamente, in vista dell’inaugurazione prevista per il 13 settembre.”. Jorge si ferma e sfrega le labbra. Ha la bocca secca. “Alejandro mi prendi la bottiglia di acqua?” Alejandro si alza e apre il suo zaino. Prende una bottiglia di acqua e la porge a Jorge che beve avidamente. Jorge restituisce la bottiglietta al figlio, poi rimane in silenzio e guarda fuori dal finestrino. La ragazza si sposta verso di lui “E poi?”. La voce di Alejandro le arriva quasi alle spalle. “E poi arrivò l’11 settembre del 1973”. La ragazza crollò sulla spalliera della poltrona. “Pinochet…”. “Il Generale Augusto José Ramón Pinochet Ugarte, per la precisione…”. La voce di Jorge era roca, stava piangendo. “Il giorno prima dell’inaugurazione, fu smontato tutto e rimesso negli imballi di legno. La mostra era troppo rivoluzionaria per essere inaugurata da un dittatore, quindi non fu rinviata, ma sospesa”. “Come sospesa?”. “Le opere rimasero in un limbo per quasi quarantadue anni, perché, di fatto, non sono mai uscite dal Messico.” Jorge si volta verso di loro “Erano 169 opere, tutte provenienti dal Messico e di proprietà del collezionista Alvaro Carrillo Gil. Si temette molto per i quadri, ma dopo un paio di settimane, un aereo messicano riuscì a riportare il tesoro in patria, e con loro la vedova e i figli di Allende. Da allora, più nulla.” “E quindi andate a vedere la mostra? Perfetto. Anch’io sto andando a Bologna solo per vederla. Oggi non si chiamano più muralisti, come ai suoi tempi” guarda Jorge e sorride. “Graffitari?” fu la risposta di Jorge. “Esatto, sono una graffitara e loro sono i miei maestri. Mi vuole fare da cicerone, Jorge? Penso che nessuno meglio di lei possa parlare di quelle opere.”.
Il treno è arrivato alla stazione di Bologna. La strada che li separa da palazzo Fava, luogo che ospita la mostra, è breve.
Un importante manifesto e diversi stendardi informativi li accolgono sin dall’ingresso: “Per la prima volta in Europa i Muralisti messicani: Orozco, Rivera, Siqueiros. Los Tre Grandes a Bologna a palazzo Fava fino al 18 febbraio.” E poi ancora “In mostra 70 opere dei tre artisti messicani José Clemente Orozco, Diego Rivera e David Alfaro Siqueiros: figure di spicco nella cultura e nella politica messicane e internazionali”. I nostri tre camminano all’interno del cortile di Palazzo Fava e raggiungono le sale della mostra. La ragazza prende a braccetto Jorge. Alejandro rallenta leggermente, come per distanziarsi da loro. Li vede fermarsi davanti alla prima opera esposta. Vede Jorge mettere gli occhiali e avvicinarsi all’opera poi voltarsi verso la ragazza ed iniziare a parlare, indicando con ampi movimenti delle braccia l’opera. Si spostano verso l’opera successiva. Jorge ricomincia a parlare. Dopo qualche istante un paio di persone si aggiunge ad ascoltare, poi ancora altre. Quando Jorge e la ragazza arrivano davanti alla terza opera esposta, attorno a loro ci sono una dozzina di persone, tutte incantate dai racconti di Jorge.
Non troverete Jorge, Alejandro e la ragazza, a Palazzo Fava, ma fino al 18 gennaio prossimo troverete le opere di Orozco, Rivera, Siqueros.
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