A differenza di altri Paesi che si affacciano sul Mar Mediterraneo, il rapporto tra il cinema e la Tunisia ha radici profonde e ha potuto contare su percorsi d’autore originali. Le prime proiezioni pubbliche furono organizzate nel 1897 da Albert Shammamma Shilky che nel 1922 diresse “al-Zahara”, primo cortometraggio tunisino. Il cinema continua a svilupparsi sia attraverso film con contenuti impegnati sia con i primi lungometraggi di finzione, interessando, prevalentemente, co-produttori francesi. Negli anni successivi la fine della seconda Guerra Mondiale, la Tunisia vede nascere un nuovo fermento culturale. In tutto il Paese sono costituiti cineclub, nuove società di produzione cinematografica e si crea una diffusa sensibilità popolare nei confronti del cinema che porta alla nascita di un organismo nazionale dei cineclub.
Molto si deve al grande lavoro di Tahar Cheriaa. Il suo incontro con il cinema avvenne all’inizio del 1952, quando aderì al “Film Club Louis Lumière” a Sfax e si sviluppa dopo il suo ritorno in Tunisia dalla Francia. Il suo costante impegno per la promozione e lo sviluppo del cinema come arte, sia nei suoi scritti sia nelle sue azioni e iniziative, gli è valso il titolo di “padre del cinema tunisino e africano”. A lui si deve, nel 1966 la nascita del primo festival pan-arabo e pan-africano: il Festival del Cinema di Cartagine di cui fu segretario generale fino al 1974. Sempre nel 1966 la Tunisia produce il suo primo lungometraggio completamente tunisino. Si tratta di “al-Faǧr” di Omar Khlifi. “L’alba”, questo il titolo in italiano del film, affronta un tema di grande attualità e di forte impatto sociale, raccontando la storia di tre giovani che combattono e muoiono per la patria durante la Guerra di liberazione.
La sua nuova generazione di cineasti concilia desiderio di espressione individuale e volontà di testimonianza sociale, come in “Aziza” di Abdellatif Ben Ammar, opera del 1980 in cui l’autore esprime il malessere dei giovani di fronte alle scelte culturali che si offrono davanti alla Tunisia in termini di rapporti con l’occidente, problemi religiosi e ruolo della donna. Nella seconda metà degli anni settanta, nasce un nuovo aspetto del dualismo cinema-Tunisia.
Le grandi produzioni americane la “scoprono” come set e nel 1976 la Lucasfilm realizza “Star Wars: Episode IV – A New Hope”. Da quel momento cambia il modo con cui si fruisce delle location della Tunisia. Interessano sempre meno le vecchie e destrutturate città, vittima delle vicissitudini politico-religiose del Paese. Le nuove produzioni sono interessate ai grandi e desolati spazi, ambienti ideali per ricostruire set cinematografici senza alcun riferimento o vincolo architettonico. Dagli accampamenti di “Star Wars”, di cui saranno girate in Tunisia scene anche degli episodi I e II, alle loro futuribili città, ma anche alla fedele ricostruzione storica di una vecchia città siciliana, quella “Baarìa” che si trova a poco più di venti chilometri da Tunisi. Stessa distanza che separa Baarìa (Bagheria, ndr) da Palermo.
Ricostruita su sei ettari di terreno, è il set del film che Giuseppe Tornatore ha voluto dedicare al luogo in cui è nato. Altro film italiano realizzato in Tunisia è “La tigre e la neve”, quel film non fortunatissimo che Benigni diresse nel 2005. Nel 1958, Jacques Baratier scelse il paese per girare il suo “Goha”, protagonista Omar Sharif, già importante interprete del cinema egiziano. Al suo arrivo a La Goulette, sulle coste della Tunisia, individua la giovane Claude Joséphine Rose Cardinale per un ruolo secondario. Dopo quel film Claudia Cardinale inizierà la sua lunghissima carriera. Ma il primato si deve al più famoso film italiano del cinema muto, l’imponente kolossal “Cabiria” racconto visionario di Giovanni Pastrone realizzato proprio in Tunisia nel 1914 da un romanzo di D’Annunzio. Passo dopo passo, nonostante le difficoltà degli autori tunisini nel far uscire dai confini del Paese le loro opere e le difficili relazioni culturali con gli altri Paesi che si affacciano sul Mediterraneo, la Tunisia ha iniziato la via del riscatto e del recupero della grande identità, sia cinematografica sia cinefila, che ha sempre avuto. Film di finzione, documentari su temi impegnati. Le produzioni tunisine degli ultimi vent’anni sono, senza dubbio, più socialmente utili e meno politicamente corrette delle loro omologhe italiane. Il visionario Nacer Khemir firma, nel 1984, il primo episodio della sua trilogia che terminerà nel 2005. Si tratta de “Les Balisieurs du desert”, un viaggio attraverso enigmi inseguiti nello spazio-tempo delle leggende proprie della cultura araba.
“Un été à la Goulette”, il film diretto da Férid Boughedir nel 1996, affronta l’esasperazione delle differenze religiose di tre amici analizzando il tema delle relazioni intercomunitarie in Tunisia, soprattutto tra ebrei e musulmani e il loro deteriorarsi dopo l’uscita di scena della Francia e allo scoppio della “Guerra dei sei giorni”. Ancora un tema forte e attuale quello affrontato da Mehdi Ben Attia nel suo “Le Fil” del 2008, in cui parla di un tema delicatissimo in Tunisia, quello dell’omosessualità, film che vede come protagonista Claudia Cardinale. Negli ultimi anni, anche il cinema tunisino ha cominciato a parlare d’immigrazione e la Tunisia è diventata location per non solo per la cinematografia ma anche per le inchieste giornalistiche, i documentari e film come “L’ordine delle cose” di Andrea Segre, che tratta i delicati rapporti politico-economici che legano l’Italia alla Tunisia e il controllo dei flussi migratori.
Ha voluto dire la sua anche Ala Eddine Slim, già autore di documentari e vincitore del “Grand Prix FID 2012” a Marsiglia. Il suo “The Last of Us” ha vinto il “Leone del Futuro” come migliore opera prima inoltre è il film tunisino candidato all’Oscar 2018 come miglior film in lingua straniera. Eddine Slim porta sul grande schermo la solitudine del migrante protagonista di un thriller di sopravvivenza. Nessun dialogo, solo la consapevolezza che attraverso lo scontro con la natura selvaggia, rappresentata dal deserto e dal Mar Mediterraneo, si può arrivare a conquistare una nuova vita. Voglia di verità e riscatto arrivano anche dallo sguardo delle donne, da quel “Fatma 75” del 1976, diretto da Salma Baccar, che analizza la condizione femminile nel periodo storico del paese che va dal 1930 al 1975, anno della proclamazione da parte dell’ONU dell’“Anno della Donna”.
Nel 2012 viene presentato al Festival del Cinema di Venezia “Era meglio domani” della regista tunisina Hinde Boujemaa che, attraverso la protagonista Aida, racconta con sguardo lucido e attento e con un’ottica molto privata, la rivoluzione del 2011 dopo la caduta del regime di Ben Alì. Nel 2013, Kouter Ben Hania realizza “Le Challat de Tunis” affrontando, attraverso la realizzazione di un mockumentary, il drammatico tema della violenza nei confronti delle donne. Vince “Un Certain Regard” a Cannes nel 2017 con il suo “Beauty and the dogs”, la talentuosa regista tunisina Kaouther Ben Hania dopo aver realizzato il delicato “Zaineb n’aime pas la neige” che racconta, attraverso gli occhi attenti di una giovane migrante, cinque anni della vita della giovane Zaineb e della sua famiglia durante il loro incessante tentativo di ricostruirsi una vita degna di questo nome. Nasce anche la volontà di riscoprire le proprie radici culturali, e Mohamed Challouf, nel 2015, gira “Tahar Cheriaa all’ombra del baobab”, omaggio e ritratto di Tahar Cheriaa, padre indiscusso del panafricanismo. È anche la storia della sua amicizia con i pionieri del cinema africano, come Sembène Ousmane, Tawfikq Salah, Timité Bassori, Moustapha Alassane e molti altri che, all’indomani dell’indipendenza, hanno messo tutte le loro energie per creare le prime immagini autentiche dell’Africa post-coloniale e indicare la strada per una cinematografia africana capace di contribuire alla modernizzazione del continente assumendo la responsabilità delle proprie immagine, nella dignità e nel rispetto di sé.
Oggi Mohamed Challouf regista, consigliere artistico della neonata Cinémathèque Tunisienne diretta da Hichem Ben Ammar, pluripremiato regista tunisino di documentari, vuole recuperare il vecchio patrimonio di pellicole del cinema tunisino. Ma purtroppo, la storia del cinema tunisino è chiusa all’interno di un edificio malmesso, senza nessun criterio per la sua conservazione. Scatole di rulli di pellicola accatastati in attesa del loro ancora incerto destino, giacciono negli edifici del SATPEC, la Tunisian Company of Production and Cinematographic Expansion, chiusa negli anni ottanta. Alcuni dei capolavori sono finalmente approdati in Europa e, grazie a una serie di Cineteche europee, sono iniziati i restauri in 4K delle vecchie pellicole originali. Saranno restaurati “L’uomo di cenere” e “Les sabots en or”, entrambi del regista tunisino Nouri Bouzid ma anche “Wend Kuuni” del regista Gaston Kaboré del Burkina Faso. Il progetto, che riguarda il cinema pan-africano nel suo insieme, grazie ad un accordo tra la Cineteca di Bologna, la Fondazione Scorsese e la Fédération panafricaine des cinèastes, prevede il restauro di cinquanta film ed è realizzato in collaborazione con l’Unesco per iscriverli nel patrimonio universale per l’umanità.