di Roberto Greco
È il 30 marzo 1960. Un uomo, tarchiato, con il viso quadrato, e una donna, di bell’aspetto, stanno passeggiando lungo Viale della Vittoria, ad Agrigento. Sono circa le 20:30. Forse, pensano entrambi, questa è una delle ultime passeggiate in Viale Europa, visto il trasloco imminente. Stanno rientrando a casa. Un uomo esce dall’ombra di un portone. Si posiziona alle spalle della coppia e apre il fuoco. Cinque colpi su quattro vanno a segno e l’uomo cade a terra morto. Il quinto proiettile, vagante, colpisce un ragazzo di diciassette anni che si trovava lì per caso. Si tratta di Antonio Diamanti, Ninni per la famiglia e gli amici. Appena l’identità della vittima fu nota, un leggero tremore attraversò i palazzi del potere siciliano.
Il morto non era uno qualsiasi. Si trattava del commissario capo Cataldo Tandoy, ex dirigente della Squadra Mobile di Agrigento e responsabile dello Schedario Criminale a Roma, dove si stava trasferendo definitivamente con la moglie. La sua presenza in città è dovuta a una testimonianza che avrebbe reso ad un processo. L’avvio delle indagini ritenne questa informazione irrilevante e, come nelle migliori tragedie siciliane, si scavò nella vita personale di Tandoy.
Questo mise alla ribalta una squallida storia di tradimenti che Leila, la bella moglie del poliziotto, aveva perpetrato durante il matrimonio, approfittando delle lunghe assenze del marito. Si parlò quindi di delitto d’onore, o meglio di disonore, visto che la vittima era colui che aveva subito l’infedeltà, non chi l’aveva commessa. Ma Cataldo Tandoy era qualcosa di molto diverso che un semplice marito cornuto finito nel mirino dell’arma di un amante geloso. Chi è il commissario Cataldo Tandoy, che viene onorato da messaggi di cordoglio da parte delle massime autorità nazionali, capo della Polizia per primo, che viene salutato da solenni funerali di Stato nel duomo di Agrigento e che i giornali di poco successivi al delitto esaltano con parole alate non lesinando in aggettivi come coraggioso e valoroso e usando frasi che pochi giorni dopo suoneranno imbarazzanti come “molti umili e deboli sentivano in lui una difesa sicura contro le prepotenze della mafia”?
Barese, Tandoy si sposa nel 1946 con Leila Motta, una donna molto più bella di lui. Moglie infedele, ma con la consapevolezza del marito e, quindi, frutto di un accordo coniugale, è rimasta qualche mese ad Agrigento da sola, dopo il trasferimento a Roma del marito. Le indagini portarono all’amante di Leila Motta, Mario La Loggia, che fu arrestato assieme a lei per l’omicidio del commissario. Il La Loggia e la Motta, furono rimessi in libertà quando gli inquirenti si resero conto che la pista non portava a nulla. S’iniziò quindi a indagare sulla sua attività professionale. Nella sua carriera, Cataldo Tandoy, si era occupato con successo delle indagini per l’omicidio di Accursio Miraglia, ucciso dalla mafia il 4 gennaio 1947. Tandoy arrestò sei mafiosi, che furono però prosciolti in istruttoria. I sei mafiosi, appena furono messi in libertà, lo denunciarono, accusandolo, assieme ad altri poliziotti in servizio alla Squadra Mobile di Agrigento, di percosse e torture. Ma erano soprattutto le ultime indagini cui Tandoy stava lavorando prima del trasferimento a Roma, le indagini su cui gli inquirenti dovevano ricercare i motivi della sua morte. Si trattava dell’affaire del fondo Graziano, i cui passaggi di proprietà sembrano essere legati a minacce nei confronti dei proprietari.
Il commissario ha i suoi confidenti, i suoi canali privilegiati per comunicare con l’altra sponda, come normalmente succedeva in quegli anni. Ma forse, a cambiare tutto, sono le disinvolte indagini di Tandoy sull’omicidio avvenuto nel gennaio del 1959 di Antonino Galvano, un capo mafia di Raffadali. Tandoy, grazie alle rivelazioni di un confidente, arresta i due esecutori materiali, due poveracci arruolati per quattro soldi, ma più in là non va. Nel suo rapporto all’autorità giudiziaria non fa un solo accenno ai mandanti e non fa svolgere una perizia balistica sull’arma del delitto, che l’avrebbe collegata all’omicidio di un altro mafioso, compiuto dalla cosca Librici-Di Carlo. Poco dopo arriva il trasferimento a Roma, in un ufficio che è di fatto una condanna per la sua carriera ma, prima della partenza, Tandoy riceve la visita della madre di uno degli assassini, la quale non accetta che suo figlio sia l’unico a pagare e chiede al commissario di testimoniare in favore del giovane. Tandoy esplode, urla che è stanco di farsi umiliare, che in aula dirà la verità, che rivelerà il nome dei mandanti. Per i boss Librici e Di Carlo, il servizievole commissario del giorno prima ora è diventato un’incontrollabile mina vagante. Se in tribunale si limitasse a confermare le sue accuse contro gli esecutori materiali, mandandoli all’ergastolo, aumenterebbe il rischio che i due assassini coinvolgano Librici e Di Carlo. Molto meglio eliminare il problema alla radice. Con la morte di Tandoy i due esecutori materiali dell’omicidio di Galvano vengono prosciolti. Il processo per il delitto, trasferito a Lecce per legittima suspicione, non svela il nome dei politici coinvolti negli affari sporchi. Di fatto a pagare sono solo i mafiosi del clan Di Carlo e Librici, condannati a pesanti pene detentive. Le carte di Cataldo Tandoy, se mai sono esistite, scompaiono. Del memoriale che nelle sue intenzioni era destinato a sconvolgere Agrigento, Palermo e Roma non si saprà più nulla.
Cataldo Tandoy era nato a Bari nel 1913. Arrivò ad Agrigento nel 1946. Fu ucciso dalla mafia il 30 marzo 1960.