di Mauro Seminara
Domani si terrà la tanto attesa audizione di Mark Zuckerberg alla Commissione energia e commercio della Camera Usa sul caso Cambridge Analytica. Il creatore, fondatore e Ceo del colosso mondiale social dovrà spiegare che ruolo ha effettivamente avuto la società per azioni Facebook nell’affare degli 87 milioni di profili usati a scopi elettorali dall’azienda britannica Cambridge Analytica. Lo scandalo, scoppiato solo recentemente, risale ad un lungo periodo di studio di profili ed interconnessioni – che ammontano a circa cento miliardi di utenze incrociate – che precede l’elezione negli Stati Uniti di Donald Trump. Il presidente americano avrebbe tratto vantaggio dalla conoscenza delle personali attitudini e preferenze di una massa sterminata di persone a cui si sarebbe rivolto conoscendo già le reazioni di questo enorme campione di elettori. La questione della trasparenza e della cessione dei dati personali degli utenti era però un problema di rilievo nazionale prima del caso Cambridge Analityca, esploso a livello mondiale a metà marzo con le inchieste pubblicate dal The Guardian e dal New York Times. A febbraio di quest’anno, in Germania, il Tribunale di Berlino era intervenuto su alcuni aspetti del social di Mark Zuckerberg. L’intervento era stato promosso dalla Federazione delle organizzazioni tedesche dei consumatori (Vzvb), secondo la quale le impostazioni predefinite di Facebook, e alcuni dei suoi termini di servizio, erano in violazione della legge sui consumatori. Il tribunale aveva infatti riscontrato che alcune parti del consenso all’uso dei dati non sono valide. Secondo Heiko Duenkel, responsabile per le note legali, contrattuali e la trasparenza della federazione Vzvb, “Facebook nasconde le impostazioni predefinite che non sono rispettose della privacy nel suo centro di privacy e non fornisce informazioni sufficienti su di esso quando gli utenti si registrano”.
Anche la Commissione europea si è preoccupata ed attivata per le notizie del The Guardian e del New York Times. Vera Jourova, commissaria europea alla Giustizia, aveva a tal proposito inviato una lettera di convocazione al numero uno di Facebook chiedendo chiarimenti sull’eventuale utilizzo di dati personali dei cittadini europei e di comprendere “in che modo i dati degli utenti di Facebook sono caduti nelle mani di terzi senza il loro consenso”. In un così alto polverone non potevano esimersi anche gli stessi inglesi che hanno appunto convocato anch’essi il fondatore di Facebook. Mark Zuckerberg si è però rifiutato di rispondere alla Commissione Cultura, Digitale e Media. All’epoca della convocazione dei deputati britannici, tra l’altro, la cifra dello scandalo era ancora la prima emersa e per la quale Zuckerberg si era scusato con i suoi utenti e riguardava “appena” 50 milioni di profili. Nell’utilizzo improprio che Cambridge Analityca avrebbe fatto delle informazioni tratte dal centinaio di miliardi di interconnessioni degli 87 milioni di utenti Facebook c’è anche il referendum sull’uscita del Regno Unito dall’Unione europea. Tra l’enorme quantità di utenti studiati ce ne sono anche 214mila in Italia, le cui interconnessioni ammontano quindi a centinaia di milioni tra contatti, condivisioni ed interazioni.
Le informazioni dedotte dalle attività degli utenti Facebook monitorati da Cambridge Analityca permettevano di profilare proposte di marketing mirate e cucite su misura delle aspettative del popolo social, quindi anche degli elettori. Un procedimento inverso e più efficace rispetto all’attività della cosiddetta “fabbrica del Troll” con sede a San Pietroburgo. Quest’ultima sarebbe artefice di post e vignette di propaganda che, attraverso profili creati ad hoc, inondavano la rete creando enormi catene di Sant’Antonio sui social. Gli stessi presunti beneficiari dello scandalo Cambridge Analityca, al tempo, urlarono allo scandalo per la Internet Research Agency di San Pietroburgo. Una indignazione condivisa e massiccia che costrinse Zuckerberg, messo sotto forte pressione, ad intervenire cancellando 270 profili ricondotti a falsi utenti utili alla propagazione dei post e delle vignette satiriche con cui sarebbero stati influenzati gli utenti di Facebook. Adesso risultano infatti in seria difficoltà sia gli allarmati governi che il mainstream di questi al servizio, dovendo giustificare – oppure omettere – le responsabilità precedentemente attribuite a Mosca sulle presunte interferenze con la Brexit e con l’elezione di Donald Trump.
La settimana scorsa, mercoledì 4 aprile, riguardo alla cosiddetta “fabbrica dei Troll”, su Agi era possibile leggere: “La decisione è strettamente legata all’indagine sul Russiagate, ovvero la presunta interferenza del Cremlino nella campagna elettorale Usa allo scopo di favorire il candidato repubblicano Donald Trump. Lo scorso 16 febbraio l’Internet Research Agency e tredici persone a esse legata sono state infatti incriminate in Usa dal Gran Giurì proprio per aver tentato di interferire “con le elezioni e i processi politici statunitensi”. Per Zuckerberg il colpo di spugna è stato quindi anche un modo di dimostrare di saper collaborare con le autorità (cosa mai scontata quando si tratta dei big della Silicon Valley), nonché l’occasione per rilanciare l’immagine dell’azienda e mostrarla di nuovo affidabile, dopo lo scandalo Cambridge Analytica e il successivo tracollo in borsa.”
Nel mirino della censura era quindi finita anche la satira proposta dalle vignette della Internet Research Agency, colpevole, nel caso specifico, di aver proposto vignette satiriche a tema politico. La satira resta un problema evidente anche in Italia, non solo sui social, dove si sta tentando di associare la satira alle fake news e rimuovere i diffusori di satira e vignette satiriche con la scusa di dover intervenire sulle bufale, ma anche in Tv con la lenta e progressiva scomparsa dei comici satirici. Questi avrebbero la colpa inconfutabile di produrre involontario interesse e conseguente riflessione su temi legati alla politica su un pubblico estremamente vasto. Nel corso di decenni, in Italia sono rimasti celebri le censure e le messe al bando dal piccolo schermo di Beppe Grillo prima e Daniele Luttazzi qualche anno più tardi. Anche il superstite comico satirico di razza Maurizio Crozza vede sempre più lontano il pubblico di prima serata sui canali di grande audience.
Tra teorie da thriller cospirazionista internazionale, come l’adozione della “Relazione Dulles” – di firma americana CIA – da parte della Internet Research Agency per corrompere i valor morali e civili dell’occidente attraverso le vignette satiriche a sfondo politico profuse in rete e sui social, ed altre narrazioni mainstream sul complotto russo ai danni della democrazia occidentale a colpi di “Mi piace”, viene oscurato il monito recente di George Soros a Mark Zuckerberg. Il miliardario ungherese, naturalizzato americano, conosciuto dal mondo per le sue speculazioni pilotate che hanno messo in difficoltà intere nazioni come l’Italia al tempo della svalutazione della Lira, era intervenuto al World Economic Forum di Davos maledicendo Google e Facebook rei di manipolazione. Che detto da George Soros fa apparire i Big data dei santi. Secondo l’88enne, Google e Facebook “influenzano il modo in cui le persone pensano e si comportano” all’insaputa delle ignare vittime. La strana uscita del noto manipolatore ha però di poco anticipato lo scandalo che ha coinvolto la Cambridge Analityca, Donald Trump e di riflesso Vladimir Putin, la Brexit il conseguente crollo in borsa del titolo del colosso dei social con un primo colpo da “titolo che affonda”. Il primo tonfo in borsa di Facebook è infatti costato 36 miliardi dollari agli azionisti, seguito da altri bruschi cali del titolo. Tra i miliardi bruciati nel primo crollo ce ne erano anche parecchi – 5,5 miliardi di dollari – del pacchetto azionario personale del fondatore Mark Zuckerberg. Contemporaneamente, con sollecita mobilitazione, la Ong Avaaz ha dato vita ad una campagna durissima contro Facebook. La rete dei “cari avaaziani” ha quindi lanciato una petizione in rete per la chiusura di Facebook perché “È ufficiale: Facebook e i social network sono totalmente fuori controllo. Solo su Facebook ci sono 270 MILIONI di profili falsi.” La campagna di Avaaz è affiancata da una lunga serie di hashtag contro Facebook che sta affollando in modo virale tutti i social. Una attività simile a quella che Facebook avrebbe dovuto combattere, forse con maggiore efficacia, ed attribuita alla “fabbrica dei Troll” ma rivolta contro il social di Zuckerberg dalla Ong nata dalla Fondazione “Avaaz.org”, con sede a New York. La Ong newyorkese Avaaz è stata ufficialmente cofondata da Res Publica e da MoveOn, e dietro la sua costituzione, motivata col il nobile scopo di promuovere nel mondo il “buon governo”, ci sarebbe niente di meno che il buon vecchio George Soros che tanto ha inviso Facebook negli ultimi tempi.