di Mauro Seminara
Otto anni, oltre 220 udienze, un fiume in piena tra carte, testimoni, imputati e detrattori che ritenevano il processo un ridicolo dispendio di tempo e fondi pubblici. Alle 16 di oggi pomeriggio, presso l’aula bunker del carcere Pagliarelli di Palermo è stata data lettura della sentenza sul processo “Trattativa” tra Stato e Mafia iniziato nel maggio del 2013. La sentenza emessa dalla Corte è pesante e rimette in gioco una parte della storia del Paese. Mario Mori, generale dell’arma dei Carabinieri, ex comandante del Raggruppamento Operativo Speciale (ROS) dei Carabinieri, ex direttore del Servizio per le Informazioni e la Sicurezza Democratica (SISDE, oggi AISI), uomo che ha attraversato in pieno e con ruoli sempre di primo piano la storia italiana, compresa la guida dell’Antiterrorismo di cui venne incaricato il giorno del sequestro di Aldo Moro, è stato condannato a 12 anni di pena per l’accusa di violenza a Corpo politico, amministrativo o giudiziario del Paese. Antonio Subranni, generale dell’arma dei Carabinieri, protagonista anch’esso di una rilevante parte della storia italiana che passa anche dall’omicidio di Peppino Impastato – sul quale l’allora maggiore dei carabinieri indagò arrivando alla conclusione che si trattava di terrorismo finito male e non di omicidio di mafia – è stato condannato per lo stesso capo di imputazione a dodici anni come il collega e pari grado Mori. Mori e Subranni erano ritenuti punti cardine della cosiddetta trattativa tra Stato e Mafia, insieme all’allora capitano dei carabinieri Giuseppe De Donno, luogotenente di fiducia di Mario Mori ed oggi condannato a otto anni. Assolto l’ex ministro dell’Interno Nicola Mancino per l’accusa di falsa testimonianza, mentre per la trattativa è stato assolto già in primo grado con il richiesto rito abbreviato ed è in corso l’appello richiesto dalla Procura.
Lo Stato ha quindi subito condanne da dodici e otto anni. Tra gli esponenti della Mafia sono stati oggi condannati Leoluca Bagarella e Antonino Cinà. Il primo, boss della cupola di Cosa Nostra corleonese, cognato del cosiddetto “capo dei capi” Totò Riina e spietato sicario di un considerevole numero di vittime eccellenti, è stato condannato a 28 anni. Il secondo, Antonino Cinà, medico, mafioso e medico di fiducia dei capi Riina e Provenzano, uomo di spicco a Palermo per il clan corleonese, è stato condannato a 12 anni. All’esito del processo non sono arrivati i due boss corleonesi Totò Riina e Bernardo Provenzano, entrambi deceduti. Per Giovanni Brusca, il boss di San Giuseppe Jato che avrebbe premuto il pulsante del telecomando che fece saltare per aria duecento metri di autostrada uccidendo Falcone, moglie e scorta, è subentrata la prescrizione di cui ha beneficiato in virtù dell’attenuante concessa ai collaboratori di giustizia. La Mafia è stata quindi condannata, un quarto di secolo dopo, per aver commesso crimini efferati contro il Corpo politico, amministrativo o giudiziario dello Stato; esattamente come una parte dello Stato “rappresentata” dagli alti funzionari dell’Arma: Antonio Subranni, Maio Mori e Giuseppe De Donno.
In mezzo, tra la componente Mafia e la componente Stato, tra i nomi pronunciati oggi nell’aula bunker di Palermo nel corso della lettura della sentenza, condannato a dodici anni c’è anche Marcello Dell’Utri. Già in carcere per concorso esterno in associazione mafiosa e da poco rigettata l’istanza di misura alternativa della pena per motivi di salute, Marcello Dell’Utri era l’uomo di Silvio Berlusconi in Sicilia ed il mediatore succeduto a Vito Ciancimino nei nuovi rapporti tra la mafia e la politica. Marcello Dell’Utri fu anche l’artefice della fase ideatoria e preparatoria di quella che si chiamò Forza Italia e che portò il suo co-fondatore Silvio Berlusconi a vincere le elezioni. Forza Italia oggi rispolverata, dopo un periodo di fusione nel Popolo delle Libertà, ed impegnata nelle consultazioni per la formazione di una maggioranza parlamentare ed un governo.
Si attendono le motivazioni della sentenza di cui oggi è stata data lettura e che chiude in questo venerdì 20 aprile 2018 il primo grado di giudizio di un processo lungo e complesso che ha visto coinvolto perfino il presidente della Repubblica, oggi presidente emerito, Giorgio Napolitano. Annunciati o no, ci si attende che vengano depositate istanze di ricorso in appello, ma il risultato storico raggiunto oggi a Palermo è la dimostrazione che lo Stato trattò con la mafia. Non ci fu lotta senza quartiere, persecuzione, implementazione della pianta organica delle forze dell’ordine e della magistratura ma una trattativa in cui lo Stato si sedette al tavolo della mafia per “trattare”. Quella mafia che uccise eminenti rappresentanti dello Stato come Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, il giudice Francesca Morvillo (moglie di Giovanni Falcone), e gli agenti Antonio Montinaro, Rocco Dicillo, Vito Schifani, Emanuela Loi, Agostino Catalano, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina in due diverse stragi. Lo Stato trattò con la mafia.
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