di Roberto Greco
È una calda sera di un sabato di maggio. A Monreale, capolavoro dello stile Arabo-Normanno non molto distante da Palermo, è la festa del Santissimo Crocifisso, Patrono della città. Le famiglie, dopo cena, sono uscite per assistere allo spettacolo, comprare dolcetti per i bambini e, soprattutto, aspettare i fuochi d’artificio. Si avvicina la mezzanotte. I bambini più piccoli cominciano a lamentarsi e chiedono di essere presi in braccio. I fuochi stanno tardando, ma ci sono tante bancarelle illuminate e colorate da guardare. Barbara, una bambina di quattro anni, ha chiesto al suo papà, Emanuele Basile, di essere presa in braccio. I suoi occhi fanno fatica a stare aperti. Si sente il primo rumore dei botti. Emanuele, tenendo in braccio Barbara allunga la mano verso la moglie, Silvana. I fuochi artificiali sono uno spettacolo magico. La famiglia si stringe a sé, ad uno fuoco esploso corrisponde un desiderio. Sono quasi le due di notte e, oramai, è il 4 maggio, domenica. Ma Emanuele, domattina, deve andare al lavoro e, lentamente, con la famiglia, s’incammina verso casa lungo la via Novelli. All’improvviso un killer esce dal buio e spara diversi colpi di arma da fuoco verso Emanuele, poi, protetto dal buio della notte, raggiunge un’auto che lo stava aspettando sulla quale ci sono due complici. Emanuele si accascia a terra, stringendo a sé la piccola Barbara. Silvana tenta di parare il colpo di grazia diretto al marito e si salva per un pelo, protetta da una piccola agendina con la copertina in argento massiccio in cui si conficca il proiettile. Quell’agenda era un regalo di Emanuele. Dopo aver cercato di rianimare il marito, Silvana prende in braccio la piccola Barbara, ancora tramortita e con la manina sporca di polvere da sparo. Basile viene trasportato all’ospedale di Palermo dove viene sottoposto ad un delicato intervento chirurgico, ma Emanuele muore durante l’operazione. Chi è Emanuele Basile e chi lo ha ucciso sotto gli occhi della sua famiglia?
Comandante della locale Compagnia Carabinieri, Emanuele Basile era uno strettissimo collaboratore investigativo del giudice istruttore Paolo Borsellino. Tarantino, classe 1949, era il terzo di cinque figli. Aveva frequentato l’Accademia Militare di Modena, ma prima di intraprendere la carriera militare, riuscì a superare il test d’ingresso alla Facoltà di Medicina e a sostenere l’esame di Anatomia. I suoi forti sentimenti di giustizia e legalità, valori fondamentali nella sua vita, hanno il sopravvento sulla professione medica e decide di entrare nell’Arma dei Carabinieri. Prima di giungere a Monreale nel settembre 1977, comanda la Compagnia di Sestri Levante (GE) e, al momento dell’agguato, già gli era stata comunicata la destinazione successiva alla Sicilia, San Benedetto del Tronto, in Abruzzo. Prima del suo assassinio conduce alcune indagini sull’uccisione del Capo della Squadra Mobile palermitana Boris Giuliano, avvenuto il 21 luglio 1979. Ripartendo da dove era giunto il tenace poliziotto, scopre l’esistenza di traffici di stupefacenti in cui sono coinvolti i Corleonesi in piena ascesa, che individua anche tramite accertamenti bancari, una prospettiva investigativa all’epoca assolutamente all’avanguardia. Particolare impegno investigativo viene profuso nel perseguire la pericolosa cosca mafiosa di Altofonte, che opera proprio nel territorio della Compagnia Carabinieri di Monreale, e che per i legami con il gruppo corleonese è divenuta particolarmente temibile: le ascriverà il delitto di traffico internazionale di stupefacenti, riciclaggio e ben diciassette omicidi in due anni; nella stessa giurisdizione di Monreale rientrano i comuni di Altofonte, Piana degli Albanesi e Camporeale, tutti facenti parte del mandamento di S. Giuseppe Jato, rappresentato in seno alla commissione provinciale di Cosa Nostra da Antonino Salamone, generalmente sostituito da Bernardo Brusca. I risultati cui giunge Basile lo portano alla coraggiosa decisione di procedere, il 6 febbraio 1980, all’arresto d’iniziativa in flagranza per il delitto di associazione per delinquere di esponenti delle suddette famiglie, alla denuncia tra gli altri di Leoluca Bagarella, Antonino Gioé, Antonino Marchese, Francesco Di Carlo, nonché alla formulazione di rilevanti ipotesi investigative sulle attività delle famiglie facenti capo a Salvatore Riina, culminate nel rapporto del 16 aprile 1980, ultimo atto prima della sua morte: in quella data il Capitano Basile consegna i faldoni con i risultati cui è pervenuto al giudice Paolo Borsellino.
Il processo di primo grado viene sospeso per una nuova perizia balistica, ma una volta ripartito, nonostante la testimonianza diretta e circostanziata della signora Silvana che, in Tribunale, guardando fisso negli occhi Vincenzo Puccio riconosce in lui colui che ha sparato contro il marito Emanuele, quest’ultimo, Madonia e Bonanno vengono assolti, creando sgomento e rabbia. I tre vengono scarcerati ed inviati al soggiorno obbligato in Sardegna, in tre località diverse, da cui fanno perdere le proprie trace fin dal giorno successivo al loro arrivo, per cui risultano irrintracciabili quando la Corte d’Assise d’Appello li condanna all’ergastolo, rovesciando così il verdetto di primo grado; tuttavia la prima Sezione della Cassazione, presieduta dal giudice Corrado Carnevale, rileva un vizio di forma ed annulla il processo. La Corte d’Appello di Palermo presieduta dal giudice Antonino Saetta li dichiara nuovamente colpevoli e li condanna all’ergastolo, ma nuovamente la Cassazione annulla per difetto di motivazione. Nel settimo processo sul banco degli imputati, insieme agli esecutori, anche i mandanti, tutti i boss della “cupola”: Totò Riina, Michele Greco, i Madonia, tutti condannati, insieme a Pippo Calò, Bernardo Provenzano, Bernardo Brusca e Nenè Geraci, invece assolti; viene altresì chiarita la posizione di Giovanni Brusca, che concorse nella commissione dell’omicidio, come successivamente ammetterà nell’ambito della sua collaborazione. Ma né Armando Bonanno, vittima di lupara bianca, né Vincenzo Puccio, ucciso il 9 maggio 1989 a colpi di bistecchiera di ghisa nel carcere dell’Ucciardone, sconteranno la pena dell’ergastolo.
Emanuele Basile era nato a Taranto il 2 luglio 1949. Era sposato con Silvana e, insieme, avevano una figlia, Barbara. Fu ucciso dalla mafia il 4 maggio 1980.