di Fulvio Vassallo Paleologo
Alle dichiarazioni di Salvini, che ha dato la linea, si sono poi aggiunte le esternazioni di Toninelli, ministro dei trasporti, un rappresentante veneto dei Cinque Stelle che ha fatto proprie le posizioni da ruspa di Salvini ed ha insistito perchè fosse Malta il porto di sbarco sicuro (POS) per la nave Aquarius, “rifiutata” dal ministero dell’interno.
Toninelli rappresenta davvero la linea del Movimento Cinque Stelle, nel quale lo scorso anno qualcuno definiva le Ong come “taxi del mare”? Una conversione sulla linea Salvini, dopo le dichiarazioni assai evasive rese appena una settimana fa? I vertici del Movimento percepiscono il costo politico di queste posizioni?
Il Presidente del Consiglio Conte, alla fine, ha fatto sentire la sua flebile voce, come al solito, sotto dettatura dei suoi potenti alleati: “L’Italia si ritrova ad affrontare in totale solitudine l’emergenza immigrazione. Il problema è stato da me posto anche nel corso del G7 a tutti i partner europei in questi ultimi giorni dove ho anticipato che i flussi migratori devono essere gestiti in maniera condivisa anche per ciò che riguarda tutte le iniziative volte a prevenire le partenze. Il regolamento di Dublino va radicalmente cambiato”. Conte ha parlato mentre a Palazzo Chigi era in corso un vertice del Governo sul caso Aquarius. Potremmo dire la spettacolarizzazione di una violazione del diritto internazionale che l’Italia potrebbe pagare molto cara. Ci voleva un vertice di Governo per decidere di violare il diritto internazionale, come imposto da Salvini. La risposta di Bruxelles, o di Strasburgo, se si arriverà alla Corte Europea dei diritti dell’Uomo, non si farà attendere. Ma di gravi violazioni se ne potrebbero riscontrare anche sul piano del diritto interno.
In virtù dell’art. 117 e degli articoli 10 ed 11 della Costituzione, e delle relative leggi di ratifica delle Convenzioni internazionali, queste hanno rango normativo superiore alle disposizioni amministrative emanate da un ministro o ad un “codice di condotta” privo di basi legali. La solidarietà comunque non si arresta ed i fronti di resistenza si moltiplicano. Il ministro dell’interno se ne accorgerà presto. Già in passato Maroni aveva portato l’Italia ad una severa condanna da parte della Corte Europea per i diritti dell’Uomo per i respingimenti collettivi effettuati in Libia nel 2009. Oggi sembra che sia proprio Maroni a dare consigli di cautela a Salvini, senza alcun successo, a quanto sembra. In base all’art.1113 (che sanziona l’omissione di soccorso) del Codice della Navigazione, trattandosi ormai di casi che ricadono nella piena giurisdizione delle autorità italiane, il Governo italiano deve prestare immediata assistenza alle persone soccorse nell’ambito di operazioni coordinate dal Comando centrale della Guardia costiera italiana. Assistenza che non può che essere prestata altrimenti che con lo sbarco in un POS (Place of safety), e che non può certo essere limitata ad interventi pseudo-umanitari come i rifornimenti dal mare, che il Governo italiano sembrerebbe orientato a garantire comunque.
Tre battelli della Guardia costiera partiti da Lampedusa hanno operato sabato i primi soccorsi in acque internazionali, trasferendo quindi i naufraghi su Nave Aquarius della Ong SOS Mediterranee, su ordini ricevuti dai comandi della Guardia Costiera di Roma (MRCC). In un secondo momento gli stessi comandi, su diktat del ministro dell’Interno, come espressamente dichiarato da Salvini, hanno negato un porto di sbarco in Italia, chiamando in causa Malta, sembrerebbe con una lettera indirizzata al Governo di La Valletta, malgrado una diversa prassi consolidata dal 2014, dai tempi dell’operazione Mare Nostrum, e dopo molteplici dinieghi da parte delle autorità maltesi. Obiettivo non dichiarato di questa decisione, oltre la probabile raccolta di altro consenso elettorale, un attacco finale alle Ong che ancora continuano a fare attività di soccorso nelle acque del Mediterraneo centrale, malgrado le diverse indagini della magistratura ed attacchi sempre più violenti e diffamatori a livello mediatico. Ma quanto conta ancora la vita delle persone in pericolo in alto mare?
Non si comprende perchè le tre motovedette italiane impegnate nei primi soccorsi coordinati da MRCC Roma non siano rientrate a Lampedusa sbarcando lì le persone soccorse, o non abbiano trasbordato gli stessi naufraghi su uno dei numerosi assetti militari presenti nelle acque circostanti, sotto il controllo della missione Themis di Frontex e dell’operazione Eunavfor Med. Nei mesi scorsi si era parlato di una regionalizzazione delle operazioni SAR a partire dall’avvio dell’operazione Themis di Frontex. Di certo però, istruzioni operative interne all’agenzia Frontex non possono modificare la portata di obblighi sanciti da Convenzioni internazionali, come peraltro ribadisce il Regolamento UE n.656 del 2014. Tra questi obblighi rientra anche l’indicazione di un POS (Place of safety), porto sicuro di sbarco da parte delle autorità MRCC che coordinano le attività di ricerca e salvataggio in acque internazionali.
Sono mesi peraltro che le prassi operative della Guardia Costiera appaiono fortemente determinate dal Ministero dell’Interno e non dal Ministero dei Trasporti e delle Infrastrutture che sarebbe competente. Un precedente abbastanza simile al blocco odierno si era già verificato nei primi giorni dello scorso maggio. Poi la nave Aquarius era stata autorizzata a sbarcare in un porto italiano. Sull’assegnazione del POS (Porto sicuro di sbarco) alle navi delle Ong, nell’agosto dello scorso anno, c’era stato un durissimo scontro tra il ministro Minniti ed il ministro Delrio, conclusosi con la prevalenza del ministro dell’Interno, dopo un comunicato di sostegno giunto addirittura dal Quirinale. Si trattava della imposizione del Codice di Condotta redatto da Minniti per rallentare, se non bloccare, le attività di soccorso delle Ong, ed il conseguente ruolo subalterno lasciato ai comandi del Corpo della Guardia Costiera.
La politica non può incidere sui procedimenti penali. Appaiono incomprensibili le prime dichiarazioni, domenica 10 giugno, rilasciate dall’ambasciatrice maltese a Roma secondo cui, nell’occasione di un precedente evento di soccorso, riguardante la nave umanitaria Sea Watch pochi giorni fa, Malta avrebbe dato disponibilità all’ingresso in porto. Dichiarazioni che segneranno probabilmente l’apertura di una indagine della magistratura di Reggio Calabria anche su questo “sbarco”, avvenuto l’altro ieri sera, con un lungo interrogatorio del comandante ed il sequestro dei materiali di lavoro dei giornalisti. Queste dichiarazioni di disponibilità a garantire un porto di sbarco fornite dall’ambasciatrice maltese appaiono frutto di pressioni diplomatiche italiane, ma sono state contraddette dall’odierna querelle diplomatica nella quale si riconferma il consueto rifiuto delle autorità maltesi. La realtà è che Malta in termini percentuali (rispetto alla popolazione residente) si colloca al secondo posto in Europa (18%) per l’accoglienza dei richiedenti asilo (dati del 2016), mentre l’Italia figura in coda agli ultimi posti (meno del 3 %). Lo sbarco di 600 migranti a Malta equivarrebbe allo sbarco di 60.000 persone in un solo luogo, in Italia. Ma una comunicazione politica truffaldina ed una informazione distorta hanno sbattuto sulle prime pagine un improponibile conflitto Italia-Malta, come se si trattasse di una partita di calcio, buona per tifare Italia per quelli che si sentono orfani dei mondiali di calcio.
Venerdì le autorità maltesi avevano impedito l’ingresso in porto della nave Seefuchs, con 126 migranti a bordo: la nave, assai piccola, della Ong olandese, era in difficoltà per le cattive condizioni del mare, ma Malta – ha riferito alla polizia italiana il comandante dell’unità – ha solo proposto assistenza in mare, senza autorizzare l’ingresso in porto. Era così intervenuta la Guardia Costiera italiana e la nave, alla fine, è stata fatta approdare a Pozzallo, dove è arrivata sabato mattina. L’ambasciatrice di Malta in Italia, Vanessa Frazier, afferma invece ieri: “I 629 migranti dell’Aquarius non li accogliamo, è una questione di principio. L’operazione Sar (Search and rescue) nel Mediterraneo è avvenuta nella Sar libica coordinata dal centro MRCC di Roma. Per cui è assolutamente escluso che i migranti debbano essere sbarcati a Malta”.
Alla fine il premier maltese Muscat conferma come l’Italia stia violando le Convenzioni internazionali, utilizzando i corpi di centinaia di migranti già martoriati in Libia, per tentare una forzatura sulla modifica del Regolamento di Dublino, che non appare certo modificabile con i colpi di ruspa imposti da Salvini. Secondo Muscat, “siamo preoccupati per la direzione presa dalle autorità italiane sull’Aquarius, che è in alto mare. Vanno manifestamente contro le leggi internazionali e rischiano di creare una situazione pericolosa per tutti coloro che sono coinvolti”. Così il premier maltese Joseph Muscat su Twitter sul caso dell’imbarcazione con a bordo oltre 600 migranti in cerca di un approdo.
La posizione maltese è rafforzata dalla invenzione di una zona SAR libica, sulla quale il precedente ministro dell’Interno Minniti ha basato la sua politica di attacco contro le Ong. Una zona SAR libica ad oggi non esiste. È emerso anche nei tribunali italiani. Quasi tutte le operazioni di soccorso in acque internazionali nelle ultime settimane sono state coordinate dal Comando della Guardia Costiera italiana, perchè la Libia non esiste come paese unitario e non ha un Comando centrale unificato come Guardia Costiera (MRCC). Semmai è emerso un ruolo di coordinamento di mezzi della sedicente Guardia Costiera libica da parte della Marina Militare italiana che mantiene una nave a Tripoli, nell’ambito dell’operazione NAURAS. Adesso il Governo de La Valletta ricorda all’Italia che le operazioni di soccorso si svolgono in questa zona SAR libica, e quindi rifiutano qualunque possibilità di sbarco nella loro piccola isola, salvi casi di evacuazione per emergenza sanitaria. La risposta di chiusura di Malta, già risalente agli anni scorsi, trova adesso ulteriore fondamento nelle scelte politiche di Minniti nei rapporti con il Governo di Tripoli e con la sedicente Guardia Costiera libica.
Dopo la cauta reazione iniziale dei maltesi, si profila dunque una crisi diplomatica a livello di Unione Europea. Le posizioni espresse dell’ambasciatrice maltese a Roma esprimono le contraddizioni della politica maltese degli ultimi anni e di certo non gioveranno alla chiarezza dei rapporti internazionali. Ma le responsabilità principali di questo ultimo caso diplomatico, che sta bloccando Aquarius a nord di Malta con il suo carico di sofferenza, rimangono in capo alle autorità italiane. Ricordiamo che in precedenza, in un caso simile, nel quale si erano verificati gravi ritardi da parte italiana nella comunicazione del POS di sbarco, un rappresentante della Commissione Europea aveva intimato all’Italia di rispettare gli obblighi di soccorso e di individuazione di un POS (Place of Safety), che non spettavano né allo Stato di bandiera della nave soccorritrice, né al Paese che poteva offrire il porto più vicino. Anche le autorità inglesi hanno ricordato ai comandi italiani le responsabilità che loro competono come coordinatori delle attività SAR, responsabilità che discendono dalle Convenzioni internazionali di diritto del mare. Non esistono porti di sbarco “più sicuri”, o “più vicini” soltanto per convenienza politica dei Governi. La definizione del POS, porto sicuro di sbarco, è fornita dalle Convenzioni internazionali, non muta per una valutazione opportunistica di un ministro dell’Interno.
La Convenzione SAR di Amburgo del 1979 impone un preciso obbligo di soccorso e assistenza delle persone in mare ed il dovere di sbarcare i naufraghi in un porto sicuro (Place of safety) indicato dal Paese che ha assunto il ruolo di Autorità SAR competente. Generalmente il primo Paese che riceve le chiamate di soccorso è proprio l’Italia. Ed oggi queste chiamate arrivano soprattutto da assetti aeronavali militari appartenenti a Paesi dell’Unione Europea. Le operazioni di soccorso si concludono soltanto con lo sbarco delle persone in un porto sicuro. Una nave da soccorso è un luogo sicuro soltanto temporaneamente e lo sbarco deve avvenire nel più breve tempo possibile.
Gli Stati membri dell’IMO (International Maritime Organization), nel 2004, hanno adottato emendamenti alle Convenzioni SOLAS e SAR, in base ai quali gli Stati membri devono coordinarsi e cooperare per far sì che i comandanti delle navi siano sollevati dagli obblighi di assistenza delle persone tratte in salvo, con una minima ulteriore deviazione, rispetto alla rotta prevista. Malta non ha accettato questi emendamenti. Le Linee guida sul trattamento delle persone soccorse in mare (Ris. MSC.167-78 del 2004) dispongono che il governo responsabile per la regione S.A.R. in cui sia avvenuto il recupero, sia tenuto a fornire un luogo sicuro o ad assicurare che esso sia fornito.
Gli emendamenti alle Convenzioni SOLAS e SAR, approvati dall’Italia ma non da Malta, mirano a preservare l’integrità dei servizi di ricerca e soccorso (SAR), garantendo che le persone in pericolo in mare vengano assistite e, allo stesso tempo, riducendo al minimo gli inconvenienti per la nave che presta assistenza. Essi richiedono agli Stati e alle Parti contraenti di coordinarsi e cooperare per far sì che i comandanti delle navi che prestano assistenza, imbarcando persone in difficoltà in mare, siano assistiti in modo da organizzare lo sbarco al più presto.
Secondo un rapporto della Guardia Costiera italiana dello scorso anno, “In alcune occasioni particolarmente complesse, caratterizzate cioè da elevato numero di migranti, dalla scarsità di vettori idonei a trasferire i migranti verso i P.O.S., da avverse condizioni meteorologiche, è stata richiesta la collaborazione e cooperazione ai Maritime Rescue Coordination Centre viciniori (Malta e Tunisi) che tuttavia non hanno accolto la richiesta di sbarcare i migranti soccorsi presso i propri porti. In particolare:
– MRCC Tunisi ha declinato la richiesta di accogliere i migranti in quanto gli stessi non erano di nazionalità tunisina né erano partiti dalle coste tunisine e l’assetto intervenuto nelle operazioni SAR non batteva bandiera tunisina; in aggiunta, ha dichiarato di non essere in grado di accogliere l’ingente numero di migranti (578 in totale) a causa dello scarso preavviso ed in considerazione della mancanza di strutture e risorse logistiche per l’accoglienza.
– MRCC Malta, invece, ha declinato la medesima richiesta per non aver coordinato le operazioni SAR essendo le stesse avvenute al di fuori della propria “Search and Rescue Region”.
È dunque notorio come Malta non accetti lo sbarco di persone nel suo territorio, salvo casi di assoluta emergenza sanitaria, se si tratta di soccorsi al di fuori delle acque territoriali, al punto che nell’intero 2017 gli sbarchi a Malta sono stati appena un centinaio. Persino le imbarcazioni della Ong maltese MOAS, come quelle di Frontex, fino a quando sono rimaste operative, evitavano di sbarcare a Malta le persone che soccorrevano in quella che pure è, sulla carta, la vastissima zona SAR maltese. Malta adduce da tempo, d’altra parte, che per le persone soccorse in quella che si definisce sulla carta come zona SAR libica, la competenza ad indicare un porto di sbarco spetti alle autorità che coordinano gli interventi di soccorso, dunque in casi come quello che oggi ha esposto Aquarius ad un attacco concentrico, mediatico e politico, alle autorità italiane. Già lo scorso anno la nave umanitaria Open Arms, aveva chiesto una possibilità di sbarco a Malta, ricevendo un netto rifiuto. Eppure per qualcuno sarebbero in torto quei comandanti delle Ong che non chiedono più a Malta una possibilità di sbarco. Come se i comandanti delle navi umanitarie fossero tenuti ad agire di propria iniziativa, in attività SAR coordinate dalla Centrale Operativa della Guardia Costiera italiana (MRCC).
Dovrebbe essere noto a tutti il caso di scuola della nave greca Salamis che nel 2013 si vide rifiutato l’ingresso per lo sbarco dei naufraghi nel porto di Malta. Una vicenda che precedette le stragi del 3 e dell’11 ottobre 2013, quest’ultima dovuta proprio ad un conflitto di competenze tra autorità maltesi ed italiane. Nel caso della nave greca Salamis le autorità italiane, dopo una lunga trattativa con le autorità maltesi e greche, offrivano in Italia un place of safety (POS) di sbarco ai 102 migranti salvati da un gommone in avaria al largo delle coste libiche e che il Governo di Malta, nonostante le pressioni europee, aveva respinto, asserendo che si sarebbero dovuti consegnare alle autorità libiche nel porto “più vicino” di Khoms.
Nella prassi, le autorità maltesi hanno fatto sovente riferimento ad accordi con la Libia stipulati nel 2009, un anno dopo la stipula del Trattato di amicizia tra Berlusconi e Gheddafi, ed all’esistenza di una zona SAR libica, quando si trattava invece di interventi di ricerca e soccorso che si svolgono al di fuori della pur vasta zona SAR attribuita a Malta. Ma dall’avvio dell’operazione Mare Nostrum, nel mese di ottobre del 2013, la prassi era ormai consolidata nel senso che le autorità maltesi non venivano più richieste di indicare un luogo di sbarco nel proprio territorio. Ed anche negli anni successivi, nessuna delle numerose navi di Frontex o di Eunavfor Med coinvolte in operazioni SAR, coordinate dalla Centrale operativa della Guardia Costiera italiana, ha mai sbarcato a Malta persone soccorse in acque internazionali.
Leanza e Caffio osservano nel 2014 come “Malta abbia dichiarato per innumerevoli occasioni la propria indisponibilità, anche a distanza di ore dalla segnalazione italiana”. Abbiamo già ricordato il rifiuto di sbarco avanzato dalle autorità maltesi nel 2013, poco prima della strage dell’11 ottobre, nei confronti del mercantile Salamis carico di naufraghi, che poi furono sbarcati in Italia. Da allora ad oggi non risulta che le posizioni dei Governi maltesi siano cambiate, al punto che negli ultimi anni si è registrato un costante calo degli sbarchi nella cosiddetta “Isola dei Cavalieri” e lo scorso anno le persone soccorse in mare e sbarcate in quell’isola non sono state più di un centinaio. In termini percentuali, Malta ha un numero di rifugiati assai elevato, rispetto alla percentuale italiana, per il basso numero degli abitanti rispetto al nostro Paese. Un dato che in queste ore sembra completamente travisato.
Come nota De Sena, per quanto possa in astratto succedere che uno Stato competente per il coordinamento delle attività di ricerca e salvataggio in mare rifiuti di indicare un porto sicuro di sbarco, che non è necessariamente il porto più vicino, la chiusura dei porti italiani implicherebbe necessariamente una serie di conseguenze sul piano del rispetto di norme internazionali sui diritti umani e sulla protezione dei rifugiati. Vari elementi permettono infatti di considerare che l’Italia eserciterebbe, de jure e de facto, sulle imbarcazioni in parola, poteri idonei ad incidere sul godimento effettivo di diritti elementari da parte di coloro che si trovino a bordo. In altri termini, questi ultimi, pur tenuti fuori dai porti italiani, non mancherebbero di rientrare nella giurisdizione italiana, ai sensi dell’articolo 1 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, così come interpretato nella giurisprudenza rilevante. Nel caso Women on Waves c. Portogallo, la Corte non ha esitato a valutare nel merito la violazione dell’art. 10 derivante dal divieto di accesso al mare territoriale imposto dalle autorità portoghesi alla nave olandese Borndiep, ritenendo (sia pure) implicitamente che tale divieto costituisse un esercizio di giurisdizione ai sensi dell’art. 1 della Convenzione (§ 22 della sentenza del 3 febbraio 2009). All’analogia con questo caso va aggiunto che la dichiarazione del rappresentante italiano si riferisce a un divieto di accesso ai porti, ovvero alle acque interne; ciò che lascia intendere che le imbarcazioni interessate abbiano già raggiunto le acque territoriali italiane. Anche a voler negare il carattere di precedente della sentenza Women on Waves, in ragione del fatto che la questione della carenza di giurisdizione non era stata espressamente sollevata dal Portogallo (elemento peraltro non decisivo, visto che le ragioni di inammissibilità sono sempre rilevabili d’ufficio dalla Corte), ulteriori circostanze sembrano corroborare la tesi secondo cui le imbarcazioni che chiedono l’autorizzazione di ingresso in porto, dopo essere state soccorse, rientrano nella giurisdizione dello Stato italiano. Infatti, come responsabile della zona SAR di soccorso – o anche nel caso in cui il soccorso sia avvenuto al di fuori della zona SAR italiana, ma comunque su impulso di un SOS diramato dall’MRCC (Comando generale del Corpo della Capitanerie di Porto) di Roma – l’Italia risulta essere il Paese giuridicamente responsabile del coordinamento dei soccorsi ed è dunque lo Stato che esercita, «conformemente al diritto internazionale», le funzioni esecutive che tale coordinamento comporta (v. mutatis mutandis, Al-Skeini c. Regno Unito e Jaloud c. Paesi Bassi).
In base a queste considerazioni, la minacciata “chiusura dei porti italiani” se si andrà oltre la sparata elettorale mentre gli elettori esercitano il loro diritto di voto, potrebbe comportare gravi profili di responsabilità a carico dei vari soggetti, da identificare, artefici della complessa catena di comando che si dovrebbe attivare per rendere esecutiva tale decisione. A partire dalla possibile configurabilità del reato di omissione di soccorso previsto dall’articolo 593 del Codice Penale e dall’art. 1113 del Codice della Navigazione, qualora la ritardata od omessa indicazione del POS da parte delle autorità italiane si traduca nella impossibilità di fare fronte alle emergenze sanitarie presenti nella maggior parte dei casi a bordo delle navi che intervengono in operazioni SAR in acque internazionali. È a tutti nota infatti la condizione attuale delle persone che riescono a fuggire dalla Libia, e ritardi di giorni nello sbarco a terra possono avere effetti letali, malgrado il prodigarsi degli equipaggi delle navi soccorritrici. Sono le ragioni che hanno spinto il GIP ed il Tribunale di Ragusa a ritenere la Libia come uno stato (ammesso che si possa parlare di uno stato) privo di luoghi sicuri di sbarco (Place of safety).
Occorre ricordare anche la Convenzione di Ginevra ed il principio di non respingimento (art. 33). Se uno Stato respinge una nave di migranti irregolari che ha fatto ingresso nelle proprie acque territoriali senza controllare se a bordo vi siano dei richiedenti asilo e senza esaminare se essi possiedano i requisiti minimi per il riconoscimento dello status di rifugiato, commette una violazione del principio di non respingimento sancito dall’art. 33 par. 1 della Convenzione del 1951 se i territori (Stati terzi o alto mare) verso cui la nave è respinta non offrono garanzie sufficienti per l’incolumità dei migranti, o anche soltanto per la possibilità di accoglienza e di accesso ad una procedura di asilo. Ma soprattutto, se gli ordini di Salvini si imporranno anche dopo la scadenza elettorale, sarebbe violato l’inalienabile diritto delle persone, quale che sia il loro stato giuridico, “a non subire trattamenti inumani o degradanti”, che potrebbero ben configurarsi qualora a seguito di un ennesimo braccio di ferro tra gli Stati, la loro permanenza a bordo dovesse procurare loro ulteriori sofferenze, se non rischi per la salute o per la stessa vita. E per la violazione del divieto di trattamenti disumani o degradanti, imposto agli Stati nei confronti di tutte le persone che ricadono nella loro giurisdizione, come qualunque migrante soccorso in operazioni coordinate da una autorità statale, si potrebbero ipotizzare ricorsi alla Corte Europea dei diritti dell’Uomo. Mentre se il conflitto tra gli Stati nella individuazione di un POS (porto sicuro di sbarco) si dovesse ripetere, dovrebbe occuparsene la Corte di Giustizia dell’Unione Europea.
Se qualcuno spera di ricattare i vertici di Bruxelles per estorcere una modifica del Regolamento Dublino giocando sulla pelle dei disperati raccolti in mare dalle navi delle Ong, e poi si allea con quei Governi sovranisti, come Orban in Ungheria e Kurz in Austria, che hanno bloccato qualunque modifica migliorativa dello stesso Regolamento, bocciando le proposte di compromesso del Parlamento europeo, compie una operazione disumana, falsificatrice e priva di prospettiva politica. L’Unione Europea diventerà ancora una volta terreno di scontro elettorale e se queste linee nazionaliste prevarranno, magari con le elezioni del prossimo anno, alle quali guarda già Salvini, sarà il suicidio dell’Europa. Saranno anche gli entusiasti elettori dei partiti populisti e sovranisti che ne pagheranno le conseguenze, ancora più gravi della possibile fine dell’euro.
Articolo di Fulvio Vassallo Paleologo per ADIF – Associazione Diritti e Frontiere reperibile su www.a-dif.org
(Contenuto concesso dall’autore a Mediterraneo Cronaca)
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