di Samantha Scala
Impasto diretto, indiretto, poolish, biga, lievito madre, idrolisi, maturazione…
Potrei continuare per un po’, memore di nozioni alle quali ho attinto con curiosa testardaggine negli ultimi dieci anni. Sì, sono almeno dieci anni che i lievitati, con la loro “viva” difficoltà, albergano nelle mie giornate e nel mio forno.
Io ci parlo. Con gli impasti intendo:
– …eeeee amici miei, accoppiatevi con amore, riproducetevi con gioia e non fatemi fare brutta figura eh! –
Così recito mentre, con un misto di dolcezza ed energia, affondo palmi e polpastrelli in ciò che presto inebrierà ogni angolo della casa, del profumo più autentico.
E loro si accoppiano, si riproducono e io non faccio brutta figura. Anche perché, come la mia mamma, a quell’impasto sodo e liscio, non faccio mai mancare una croce propiziatoria e un timido bacio.
Per questo tolgo sempre il rossetto prima di mettere le mani in pasta.
Parole e baci vi appariranno bizzarri. Anche a me, credetemi. Ma chi lo corre il rischio che poi i saccaro “micetti” non si sentano coccolati, si raffreddino, non si riproducano e io faccia brutta figura con gli ospiti.
Mai sia!
Ho sperimentato decine di varianti e proporzioni. Dall’impasto per le soffici brioche a quello della rosticceria siciliana, dal cornetto sfogliato al pane ai cereali.
Ma la mia passione vera è la pizza: in teglia, al suolo del forno a legna, condita in mille modi o la semplice “faccia di vecchia” (non è altro che una focaccia bianca con sale, olio e origano), per me sarà sempre una sfida. Da vincere.
E non basterà sfornare, all’ora di cena quando si è affamati, un prodotto sfrigolante pieno di ingredienti goduriosi.
Eh no! Così è vincere facile!
– Oh mamma mia sono le sette! Scusami scappo ad impastare un po’ di pizza per stasera. I ragazzi ne vanno matti e mio marito pure!
Per fortuna ha chiuso subito il telefono non dandomi modo e tempo di inveire.
Ne ho tante di amiche così. In fondo, a fare una pizza che ci vuole? E non facciamo mille balletti! E bacetti e discussioni e parole difficili…
– Farina, acqua, sale, olio…un bel panettone di lievito e in due minuti impasto. Gonfia che è un piacere!
Sì, lo stomaco! Ma non arrivo mai a dire neppure questo.
Un po’ è vero. Se provate a girovagare tra i gruppi di cucina amatoriale su Facebook, di sabato, troverete milioni di foto di pizze, focacce, ripiene di ogni cosa e con impasti di ogni tipo. A giudicare dalla quantità, di certo superiore alle foto di un croquembouche, non la si considererebbe affatto una preparazione complessa; anzi, piuttosto alla portata di tutti.
Sapete perché? Ci avete mai riflettuto?
Quanti di voi resistono, dopo aver comprato il pane caldo, a non tirarne via un pezzo nel tragitto verso casa? Dai che ci arrivate.
Quante pizze sfornate dalla pizzeria più approssimativa allestita in un lido estivo, con un arrangiato forno elettrico, profumano di meraviglia?
Quel pane caldo, a cui non avete resistito, il giorno dopo andrà bene come batticarne e quella pizza, quella che profumava di meraviglia, vi farà trascorrere notti insonni.
Ma, spesso, non ve ne accorgerete nemmeno. Perché il pane lo avrete consumato già prima di entrare a casa e…
– mannaggia all’origano della pizza! Io lo dicevo che non l’avrei digerito!
L’origano…certo.
Torniamo alla mia sfida e al vincere “difficile”.
È la prova del giorno dopo.
È la prova anche di due giorni dopo.
È fragranza e scioglievolezza al morso. Digeribilità e gusto. È mio fratello, tornato dal “nordi”, che ne mangia in quantità e ne prende un ultimo pezzo al posto della camomilla prima di andare a dormire. E il giorno dopo ci fa pure colazione.
Mi sto forse vantando? Delle mie pizze?
Credete questo? Vero è!
Io non impasto alle sette di sera, non uso scorciatoie, non approfitto dell’appetito dei commensali, del calore del forno e non camuffo tutto con olio, würstel e sottilette. E poi, io ci parlo. L’avevo detto no?
Vi ho raccontato tutto questo perché possiate immaginare la diffidenza con la quale mi sono approcciata a ciò che, per i Baresi, è un’istituzione: la focaccia.
Impossibile immaginare di avere la ricetta originale. Non esiste.
Così come non esiste la focaccia migliore da comperare al panificio migliore.
Già in famiglia e tra gli amici, in questo mio breve soggiorno pugliese che volge al termine, ho contato una decina di “migliori” focacce. C’è quella che compera la nonna al panificio sotto casa, croccante e unta; quella di mio cognato, più alta e con tanto pomodoro; quella degli amici, sottile e bruciacchiata.
Per i baresi è un simbolo. È una vera compagna di vita, una certezza. Con “lei” si marina la scuola, si va al mare, si guardano le partite di calcio.
È lei che si ritrova, tonda e abbondante, ad accogliere per prima quando si torna dopo tanti anni.
È una tappa obbligata ad ogni mia nuova visita in questa splendida terra.
L’ho detto. Lo ammetto. Quando sentivo dire che “la focaccia va mangiata calda” si, l’ho detto:
-…e certo! Arrivi affamato e la trovi profumata e bollente, sfrigolante di olio e pomodori. Anche un impasto mediocre, così, sembrerà buonissimo. Ma a me, mica mi fregano!
Mi hanno fregata? Io non lo so.
Non lo so, perché le meravigliose “ruote” di quella che è diventata una certezza anche per me, non sono mai avanzate per il giorno dopo.
Io non lo so, perchè quel sapore che cambia ad ogni morso, prima croccante nel bordo, poi umido di pomodoro, aromatico di olive, arriva sempre dritto al cuore.
Io non lo so, perché nonostante le mani e la bocca unti come una ragazzina, poi mi ritrovo a “perdonarlo” tutto quell’olio.
Perdóno il nocciolo dell’oliva, l’impasto a volte troppo bruciato e i semini dei pomodori che si incastrano tra i denti.
Io però lo so.
Che vorrò sempre ritrovarmi in macchina, davanti al panificio “migliore” (che per me è il primo che trovo) con la bocca unta e il sorriso sgangherato bianco di denti e rosso di pomodoro. Bianco e rosso come la squadra di calcio di quei Baresi che, io questo lo so, mentre impastano, come me si fanno delle gran discussioni.
E baciano pure bene!
Questo, di almeno uno, lo so eccome!
Arrivederci focaccia. A presto Puglia. A presto Bari.
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