di Fulvio Vassallo Paleologo
Malgrado gravi tentativi di delegittimazione, l’inchiesta condotta dalla Procura di Agrigento sulla vicenda del blocco imposto alla nave Diciotti della Guardia costiera italiana, prima davanti l’isola di Lampedusa e poi nel porto di Catania, sta procedendo con accertamenti istruttori sempre più ampi. Prima che il fascicolo d’indagine sia trasmesso al Tribunale dei ministri a Palermo, si tratta infatti di ricostruire una catena di comando molto articolata, anche a fronte del carattere informale delle decisioni adottate dai ministeri competenti in ordine allo sbarco dei migranti (comunicate talora a mezzo facebook !). Una ricostruzione che nel tempo potrebbe estendere l’area e la natura delle responsabilità dei soggetti coinvolti. Si tratta di attività di indagine doverose, che si svolgono d’ufficio, non certo rimesse alla discrezionalità dei magistrati inquirenti, a fronte dei documenti e delle testimonianze acquisite dalla procura agrigentina già prima dello sbarco dei migranti a Catania, in particolare durante l’ispezione condotta dopo l’attracco della nave in porto.
Dopo avere ascoltato diversi migranti e visitato la Diciotti ormeggiata nel porto di Catania, il Procuratore di Agrigento ha chiesto la esatta individuazione di tutte le persone trattenute a bordo della nave, come attività d’ufficio richiesta anche al fine di una effettiva tutela di possibili parti lese dagli atti e dalle prassi di rilevanza penale che potrebbero emergere nel corso del procedimento. La normativa sul tribunale dei ministri prevede infatti che venga data “immediata comunicazione ai soggetti interessati perché possano presentare memorie al collegio o chiedere di essere ascoltati”. Come riferisce il quotidiano La Repubblica “accanto alle ‘persone offese’ nel processo potrebbero esserci anche gruppi e associazioni che tutelano i diritti degli immigrati. Ha già presentato un esposto, per costituirsi nel giudizio, l’associazione Legambiente”.
È opportuno chiarire che il procedimento penale, inizialmente aperto contro ignoti dalla Procura di Agrigento, non si dovrebbe esaurire comunque con la decisione del Tribunale dei ministri, a Palermo, la cui valutazione si riferisce al ministro dell’interno. Quale che sia la decisione di questo tribunale, composto da tre magistrati del distretto giudiziario di Palermo, anche qualora la posizione del ministro dell’interno fosse archiviata su richiesta della Procura generale, il procedimento e le attività di indagine sulla vicenda Diciotti potranno comunque proseguire nei confronti di altri ministri o di altri soggetti non aventi la qualità di parlamentare, in via di ipotesi anche nei confronti di dirigenti, funzionari o altri pubblici ufficiali dipendenti di ministeri diversi dal Viminale. Il doveroso intervento del Tribunale dei ministri non può paralizzare indagini a carico di persone che non rivestono la qualità di parlamentare, anche in considerazione del rischio che casi simili potrebbero ripetersi in futuro.
Si deve dunque respingere il tentativo di personalizzare le indagini sul più importante indagato ad oggi, il ministro dell’interno, o di far credere che una volta dovesse cadere la contestazione più grave, quella di sequestro di persona, tutto quanto accaduto sulla nave Diciotti per effetto delle decisioni di organi di governo, o di dirigenti ministeriali, sia completamente privato di rilevanza penale o non possa produrre responsabilità amministrativa. Una partita politica e mediatica che qualcuno si sta giocando abilmente per passare comunque come vittima di una giustizia di parte.
La prolungata privazione della libertà personale a bordo di una nave soccorritrice, non giustificabile dalle esigenze del soccorso, ma discendente dalla mancata indicazione di un porto di sbarco, qualificabile come “place of safety” (POS), se non dal divieto di sbarco dopo l’attracco a Catania, magari indicato solo come “scalo tecnico”, solo per rifornimenti, non dovrebbe dunque restare priva di sanzione sia dal punto di vista penale, che dal punto di vista amministrativo. Non è stata peraltro la prima volta che con la indicazione di uno scalo tecnico si è di fatto negato lo sbarco dei migranti soccorsi in acque internazionali. Solo che in passato questa prassi era rivolta contro le ONG, mentre in questa ultima occasione si è rivolta contro una nave della Guardia costiera italiana. Tutto questo senza adottare neppure un provvedimento formale di divieto (il cosiddetto blocco dei porti). Sono state violate le procedure fin qui seguite, anche su indicazione europea, che dalla fine del 2015 prevedevano il cd. approccio Hotspot, richiamate dal novellato articolo 10 ter del Testo Unico sull’immigrazione n. 286 del 1998.
In base a questa norma, ”lo straniero rintracciato in occasione dell’attraversamento irregolare della frontiera interna o esterna ovvero giunto nel territorio nazionale a seguito di operazioni di salvataggio in mare è condotto per le esigenze di soccorso e di prima assistenza presso appositi punti di crisi allestiti nell’ambito delle strutture di cui al decreto-legge 30 ottobre 1995, n. 451, convertito, con modificazioni, dalla legge 29 dicembre 1995, n. 563, e delle strutture di cui all’articolo 9 del decreto legislativo 18 agosto 2015, n. 142. Presso i medesimi punti di crisi sono altresì effettuate le operazioni di rilevamento fotodattiloscopico e segnaletico, anche ai fini di cui agli articoli 9 e 14 del regolamento UE n. 603/2013 del Parlamento europeo e del Consiglio del 26 giugno 2013 ed è assicurata l’informazione sulla procedura di protezione internazionale, sul programma di ricollocazione in altri Stati membri dell’Unione europea e sulla possibilità di ricorso al rimpatrio volontario assistito”.
Dalle informative inviate dal Garante nazionale per le persone private della libertà personale alle procure di Agrigento e Palermo sembra poi acclarata la violazione dell’art. 5 della Convenzione europea a salvaguardia dei diritti dell’Uomo, che impone il principio della riserva di legge in materia di provvedimenti limitativi della libertà personale, e dell’art. 13 della Costituzione che impone l’intervento di convalida dell’autorità giudiziaria entro 96 ore dal momento in cui una persona viene arrestata o comunque privata della libertà personale. Per la violazione di queste norme, da interpretare in coordinamento tra loro, l’Italia ha subito due condanne da parte della Corte europea dei diritti dell’Uomo, nei casi Khlaifia e Richmond Yaw.
L’accertamento delle responsabilità delle attività di soccorso in quelle zone SAR italiane e maltesi che si sovrappongono a sud di Lampedusa potrebbe contribuire a fare chiarezza sulle regole di ingaggio tra autorità di paesi diversi che, dopo l’infausta istituzione, sulla carta e nei data base IMO di una zona SAR libica, non riescono neppure a coordinare i loro interventi di soccorso, come è successo nell’ultimo caso che ha riguardato la nave Diciotti. E intanto i libici continuano ad intercettare migranti in acque internazionali ed a riportarli indietro nei centri lager dai quali sono fuggiti. 400 persone bloccate dalle motovedette di Tripoli in acque internazionali, soltanto ieri. Persone che fino a poche settimane fa sarebbero state soccorse da imbarcazioni delle ONG o da mezzi della Guardia costiera italiana, se non da unità delle missioni europee Frontex ed Eunavfor Med (Operazione Sophia).
Al di là dell’autonomo accertamento delle responsabilità amministrative, occorre dunque lasciare procedere l’indagine penale senza intralci derivanti da attacchi politici o mediatici e senza cadere nella trappola di ritenere che le attività della magistratura possano sostituirsi all’iniziativa politica o alla rappresentanza più vasta di quella cittadinanza solidale che tutti i giorni si sforza di garantire accoglienza dignitosa e rispetto dei diritti fondamentali di tutti, nessuno escluso. Diritti fondamentali come il diritto ad essere soccorsi in mare, il diritto di chiedere protezione o il diritto alla salute, che vanno garantiti “allo straniero comunque presente alla frontiera o nel territorio dello stato”, al quale spettano “ i diritti fondamentali della persona umana previsti dalle norme di diritto interno, dalle Convenzioni internazionali in vigore e dai principi di diritto internazionale generalmente riconosciuti” ( così secondo l’art. 2 del Testo Unico n.286 del 1998).
In attesa che il Consiglio superiore della magistratura, chiamato a pronunciarsi il prossimo 5 settembre sul caso della nave Diciotti, assuma una posizione chiara in ordine al principio della indipendenza della magistratura affermato dalla nostra Costituzione, i cittadini e le associazioni solidali non si tireranno indietro e continueranno ad essere accanto ai migranti distribuiti in vari centri italiani, anche per raccogliere altre testimonianze, in vista di una partecipazione diretta ( come parti civili) ai procedimenti penali che dovessero svolgersi in futuro. Di certo il tentativo del ministro dell’interno di accentrare sulla sua persona tutte le responsabilità, soltanto con riferimento alla più grave delle fattispecie di reato contestate, il sequestro di persona, non potrà essere strumentalizzato per eludere il più rigoroso accertamento delle responsabilità nella direzione di altre ipotesi di reato, a tutti i livelli intermedi e in altre amministrazioni dello stato. In ogni caso la massa dei consensi non può permettere di eludere i capisaldi dello stato di diritto, lo ricorda Luigi Ferrajoli. Il populismo non può prevalere sullo stato di diritto.
L’Unione Europea ha già ricordato al governo italiano che non può disporre il trasferimento forzato in Albania di nessuno dei naufraghi soccorsi dalla Diciotti. Per non parlare delle violazioni del diritto europeo che potrebbero mettere l’Italia al centro di una procedura di infrazione con possibili gravi condanne sul piano della violazione dei diritti fondamentali ed in materia di rispetto degli obblighi di natura economica nei confronti dell’Unione Europea.
Articolo di Fulvio Vassallo Paleologo per ADIF – Associazione Diritti e Frontiere reperibile su www.a-dif.org
(Contenuto concesso dall’autore a Mediterraneo Cronaca)