di Fulvio Vassallo Paleologo
1.
La guerra contro le Organizzazioni non governative che dalla fine del 2016 hanno soccorso decine di migliaia di persone sulla rotta del Mediterraneo centrale è stata sempre caratterizzata dal richiamo costante alla lotta contro le organizzazioni dei trafficanti, che avrebbero avuto vantaggi per la presenza in acque internazionali delle imbarcazioni delle ONG. Come se queste avessero favorito gli scafisti e gli stessi trafficanti, rendendo possibile, più vicino alla costa, l’intervento di soccorso e quindi lo sbarco in un porto sicuro. Nella versione più recente di questa crociata contro la solidarietà si è giunti addirittura a sostenere che la chiusura informale dei porti e le pressioni politiche ed amministrative sulle autorità marittime di diversi paesi avrebbero bloccato le partenze e dunque con il blocco delle ONG si sarebbe verificata una diminuzione delle vittime in mare. Un’affermazione smentita dai fatti.
Una narrazione che ha riscosso molti consensi, ma che alla prova dei fatti si rivela mistificante, perchè nasconde, sia le vittime in mare che sono invece in forte aumento, in misura percentuale rispetto alle partenze, che le conseguenze devastanti che gli accordi con i paesi terzi di transito (non solo Libia, ma anche Niger, Sudan, Egitto) hanno prodotto sulle persone rimaste intrappolate nei centri di detenzione e nelle “connecting house” in mano alle milizie che controllano i territori. Se la conta dei morti in Mediterraneo apparentemente ha subito una flessione, è incalcolabile il costo umano sofferto da chi è rimasto bloccato nelle zone di transito e sosta delle rotte che, dal Corno d’Africa e dall’Africa subsahariana, portano verso le coste del Mediterraneo, con un numero incalcolabile di vittime. Soltanto le testimonianze atroci dei migranti che, malgrado tutto, riescono ad arrivare dalla Libia nel nostro paese, confermano le torture inflitte ai colpevoli di fuga e le tante uccisioni che nessuno in Europa si preoccupa di impedire davvero. La frase “aiutiamoli a casa loro” si rivela un infame slogan elettorale. Qualcuno ritiene addirittura che in Libia ci siano alberghi “a cinque stelle” per i migranti. I report internazionali sui campi (lager) libici, come quelli di MSF o di Human Rights Watch, smentiscono queste affermazioni. Ma l’Unione Europea finge di non vedere e continua ad inviare risorse finanziarie, direttamente, o tramite paesi come l’Italia.
2.
I principali paesi europei, l’Italia soprattutto, a partire dal Processo di Khartoum, avviato nel 2014, poi sviluppato con le due Conferenze di Malta del 2015 e del 2017, hanno cercato di intensificare la cooperazione di polizia e giudiziaria con paesi che sono privi di un sistema giurisdizionale unico a livello nazionale (Libia) o che non rispettano gli standard minimi dei diritti umani (come il Sudan e l’Egitto). Con risultati che sono stati fallimentari sia dal punto di vista della tutela delle vittime che della individuazione e dell’arresto dei responsabili del traffico di esseri umani, ancora liberi di spostarsi da un paese africano all’altro.
Le conferme inconfutabili di questo degrado della situazione nei paesi con cui le “democrazie” occidentali intrattengono rapporti finalizzati al contrasto della cosiddetta immigrazione clandestina, sono contenute negli ultimi Rapporti delle Nazioni Unite, e quindi anche nei Report di attività di grandi organizzazioni umanitarie come Amnesty International e Human Rights Watch. Particolarmente deteriorata la situazione in Sudan, paese che a partire dal Processo di Khartoum e stato finanziato dall’Unione Europea e dall’Italia per attività di contrasto dell’immigrazione “illegale” e di cooperazione di polizia.
3.
Durante il semestre di presidenza dell’Unione Europea nel 2014 l’Italia proponeva il cosiddetto Processo di Khartoum, per esternalizzare la lotta contro l’immigrazione “irregolare”. In base a questo accordo i governi africani coinvolti, e tra questi il Sudan, si impegnavano a collaborare con le autorità italiane nelle attività investigative per tracciare i trafficanti e contrastare le reti che permettevano il passaggio dei migranti, attraverso il bacino del lago Chad, in Niger ed in Libia, e poi verso il Mediterraneo.
Poco prima del Memorandum d’intesa stipulato dal governo italiano con le autorità sudanesi il 3 agosto del 2016, nello stesso periodo preparatorio dell’intesa, nel maggio del 2016, si verificavano già importanti effetti sul piano della collaborazione giudiziaria, alla quale partecipavano agenti dei servizi segreti inglesi. Il giovane eritreo Mered, ritenuto capo di una pericolosa banda di trafficanti, veniva arrestato a Khartoum, con il concorso di agenti italiani ed inglesi, e dopo qualche giorno di violenti interrogatori, trasferito in Italia e qui sottoposto ad un processo a Palermo, dove veniva internato nel carcere di Pagliarelli.
L’arresto del presunto “Generale” Medhanie Yehdego Mered a Khartoum, un giovane eritreo che in realtà si chiama Medhanie Tesfamarian Behre, è da inquadrare, almeno cronologicamente, in quella cooperazione pratica di polizia che nel 2016 l’Italia stava sviluppando con particolare riferimento al Sudan, ritenuto nodo strategico dei passaggi verso la Libia ed il Mediterraneo. Una cooperazione di polizia concretizzata attraverso Memorandum d’intesa che in molti paesi risente delle modalità di trattamento degli inquisiti e dei detenuti, fino alla tortura, caratteristiche degli stati che non rispettano i diritti umani, o che, come nel caso della Libia, non hanno mai sottoscritto la Convenzione di Ginevra del 1951 sui rifugiati. Veniva allora sempre più riconosciuto il ruolo centrale del dittatore sudanese, mentre si moltiplicano disordini e arresti. Per chi finisce in carcere in Sudan non c’è scampo dalla tortura, ma si continua a collaborare con un regime corrotto a livello diffuso, per arrestare i transiti dal Corno d’Africa verso la Libia. E poi sono proprio le milizie sudanesi che destabilizzano le frontiere meridionali della Libia. A tutto vantaggio dei trafficanti che dicono di contrastare.
Era il periodo nel quale tra la polizia sudanese ed il ministero dell’interno italiano si stringevano legami sempre più forti, nel più totale silenzio della stampa italiana. Qualche mese dopo, nell’agosto del 2016, la collaborazione con le autorità sudanesi permetteva il rimpatrio forzato collettivo di alcune decine di migranti provenienti dal Sudan, bloccati a Ventimiglia, deportati nell’Hotspot di Taranto, e poi, altri a Torino, infine rimpatriati a Khartoum.
Nello stesso mese di agosto di quell’anno l’Italia concludeva un Memorandum d’intesa con il Sudan del dittatore Bashir, indagato dal Tribunale penale internazionale per crimini contro l’umanità. Obiettivo degli accordi era contrastare le partenze dei migranti irregolari, in realtà profughi in fuga, molti provenienti dall’Eritrea, diretti verso l’Europa, per stabilire una collaborazione di polizia nella caccia ai trafficanti che dal Sudan, in quel periodo, riuscivano a controllare la rotta libica.
Il Memorandum contiene una clausola specifica in base alla quale la stessa intesa non produce effetti in materia di estradizione e di mutua assistenza giudiziaria in materia penale. In realtà la collaborazione tra autorità italiane e polizia sudanese non si è mai interrotta, ed ancora oggi sembra attiva. Al di fuori di un quadro normativo certo ed in assenza di qualsiasi garanzia per i diritti di difesa delle persone indagate. Dopo la stipula di questo accordo, mai portato all’approvazione del Parlamento, i rapporti delle Nazioni Unite hanno però confermato il grado di collusione tra le forze di polizia e le organizzazioni di trafficanti che in Sudan garantivano il passaggio di migliaia di persone in fuga dal Corno d’Africa (Etiopia, Eritrea, Somalia) e dirette in Libia.
“The head of the notoriously abusive Rapid Support Forces, Mohamed Hamdan “Hemeti,” publicly claimed that his forces were assisting the European Union, raising concerns that the EU is funding the abusive forces as part of its migration assistance package”
“Sudan has not reformed laws governing its security agency. The National Security Act of 2010 gave broad powers of arrest, detention, search, and seizure and violates accepted international standards, to which Sudan is bound. Sudan also retains the death penalty, despite international consensus to ban it.”
4.
La situazione in Sudan oggi è ancora peggiorata rispetto al 2016, si perseguono anche i giornalisti d’opposizione, ma con una crescente legittimazione internazionale del dittatore Bashir, riconosciuto come attore fondamentale della regione, sia per i suoi rapporti con l’Egitto di Al Sisi, che con l’Etiopia e l’Eritrea alle prese con un difficile processo di riavvicinamento. Eppure l’Unione Europea ha negato formalmente accesso al dittatore in recenti conferenze internazionali. La situazione economica del paese, soffocato da un regime corrotto e dittatoriale, diventa giorno dopo giorno sempre più critica, con proteste di piazza represse duramente dalla polizia. Rimane molto calda anche la situazione al confine del Sudan con il Chad e la Libia, teatro delle scorribande di diverse milizie armate che sfruttano qualsiasi tipo di traffico, dalle armi alle persone, considerate come una merce da scambiare e da rivendere.
Gli accordi di polizia tra Italia e Sudan stipulati nel 2016 con Memorandum d’intesa, mai portati all’esame del Parlamento, anzi tenuti segreti rispetto ai parlamentari che ne chiedevano la pubblicazione, non sono stati revocati ed hanno avuto ad oggetto anche la formazione di agenti e di guardacoste in Italia, o a bordo di unità militari europee (EunavforMed). Non sembra allentarsi tuttavia la morsa della corruzione interna alle stesse forze, in Sudan come in Libia, i rapporti di connivenza con i trafficanti, e le relazioni incontrollabili con i servizi segreti di mezzo mondo. Di fatto, gli accordi che venivano propagandati come strumento di contrasto dei trafficanti, sono diventati supporto di regimi spietati o di governi che non riuscivano a garantire né l’integrità territoriale né, tantomeno, la vita e la libertà delle persone migranti, e della stessa popolazione autoctona, che erano sottoposte alla loro giurisdizione.
5.
In Sudan, ancora oggi, il regime di Bashir, ricercato dal Tribunale dell’Aja, ma al centro del processo di Khartoum voluto da Renzi e sostenuto dall’Unione Europea, continua a violare i diritti umani ma rimane partner strategico dei governi europei che dicono di combattere l’immigrazione “illegale”, mentre finanziano polizie e servizi segreti che danno coperture ai peggiori trafficanti. Era così con Gentiloni e Minniti, va ancora peggio con l’attuale governo. In Italia è calata una censura totale sulle proteste della popolazione sudanese e sulla repressione in corso in quel paese. La polizia sudanese ancora in questi giorni spara ad altezza d’uomo durante le manifestazioni ed arresta oppositori che subiscono tortura in carcere. Come riporta Africa Express, “E’ altrettanto inquietante che alcuni attivisti abbiano rilasciato foto che dimostrano la presenza di mercenari della società militare privata russa Wagner – contractors al servizio di Putin, uomini pronti a tutto, addestrati alla guerra, quasi sempre ex militari delle forze armate moscovite – durante una delle manifestazioni anti-governative a Khartoum. La notizia – con relative foto – è stata riportata da diversi giornali online, tra loro anche il britannico The Times”. “Si è cominciato a parlare per la prima volta della Wagner nel 2014, per il loro impiego accanto ai separatisti in Donbass, in Ucraina. In seguito hanno svolto un ruolo importante in Siria. Il capo del gruppo è Dimitriy Valeryevich Utkin, nato in Ucraina nel 1970 ed ex colonnello delle forze speciali russe, molto legato al presidente. Da qualche tempo i suoi paramilitari sono presenti anche in Africa. Nella Repubblica Centrafricana e, appunto, ora anche in Sudan”. Secondo il Sudan Tribune (giornale online con base a Parigi) uomini di Wagner si troverebbero attualmente in Sudan per addestrare le forze speciali dell’intelligence (NISS).
6.
Le diverse fasi del processo Mered, registrate da Radio Radicale, nelle più recenti udienze del primo ottobre, del 18 ottobre, e del 25 ottobre 2018, fino all’ultima udienza del 4 febbraio scorso, malgrado l’accumularsi delle prove a discarico, dimostrano una crescente determinazione della procura che insiste sulla ipotesi accusatoria della colpevolezza di una persona evidentemente diversa dal trafficante ricercato a livello internazionale, riallineando le attività di indagine a seconda dell’esito delle prove addotte dalla difesa e scovando sempre nuovi “pentiti“, mentre l’escussione dei testimoni e le prove biologiche hanno confermato tutti i dubbi sull’identità dell’imputato che risponde al vero nome di Medhanie Tesfamarian Behre, presente in aula. Che alla fine di ogni udienza viene riportato nel carcere palermitano di Pagliarelli. Dove, anche a ragione della sua lingua, sconta una situazione di deprimente solitudine. Una impostazione del processo da parte della Procura che si conferma costante e trova riscontro anche nelle decisioni del Presidente della Corte, sempre più restio ad ammettere ulteriori prove proposte dalla difesa. La prossima udienza del processo si terrà il 14 febbraio, mentre si avvicina il compimento del terzo anno dall’arresto dell’imputato in Sudan.
Sorprende che, in questo quadro, si tentino esperimenti di cooperazione giudiziaria che non sembrano sorretti da adeguate base legali. Si profila infatti l’arrivo in Italia di esponenti delle forze di sicurezza del regime di Bashir che dovrebbero testimoniare, a quasi tre anni dall’inizio del procedimento penale, contro il falegname eritreo Medhanie Tesfamarian Behre che è sotto processo a Palermo, oggetto di uno scambio di persona, con il più noto trafficante Mered, noto come Il Generale. Che secondo le ultime informazioni diffuse in Svezia, sarebbe al sicuro in Uganda o in un altro dei paesi africani a sud della Libia nei quali i trafficanti di ogni risma godono ancora della libera circolazione. Come riferisce il Post, la Televisione pubblica svedese (SVT) “sarebbe in possesso di un fascicolo che rivela come un’autorità di polizia europea sia a conoscenza del fatto che il vero trafficante è ancora in libertà e di come non riesca a convincere i pubblici ministeri italiani a emettere un nuovo mandato di cattura”.
Chiarissima la posizione critica di Amnesty riportata dal Guardian, “Amnesty International said the judge’s decision was unacceptable for a democratic country. “Any type of judicial collaboration between Italy and the Sudanese police is morally unacceptable,” said Riccardo Noury, a spokesman for Amnesty in Italy. “Considering they’ve invited members of his police force, why don’t they extend their invitation to Bashir himself? They might do the ICC a favour and turn him over to the judicial authorities.”
Vedremo quale sarà il contributo che potranno portare in un procedimento penale in Italia persone che appartengono a forze di polizia che nel loro paese non esitano a ricorrere alla tortura come un normale strumento di indagine, o che si rendono colpevoli di sparizioni forzate. Esattamente come continua a succedere con l’Egitto, nel quale è stato barbaramente torturato e ucciso Giulio Regeni, come migliaia di oppositori di Al Sisi, ma con il quale rimane in vigore l’accordo bilaterale di riammissione, che adesso si sta cercando di riattivare nuovamente. Se davvero questi agenti sudanesi si presenteranno per deporre davanti al tribunale di Palermo potrebbero emergere prove di una loro partecipazione ad attività di polizia che si sono realizzate con il ricorso alla tortura o ad altri trattamenti inumani o degradanti. Con la conseguenza che potrebbero a loro volta diventare oggetto di una indagine penale nel nostro paese. In caso contrario sarebbero la prova, non della colpevolezza di un imputato, ma dell’abbandono dei valori costituzionali sui quali si basa il processo penale in Italia.
Appare sempre più evidente, ed in linea con la svolta autoritaria chiaramente percepibile in diversi paesi europei, dalla Polonia all’Italia, come il rispetto dei diritti umani venga sempre più spesso sacrificato alle attività di contrasto dell’immigrazione “illegale”, se non ad esigenze elettorali dei partiti di governo che speculano sulla paura, sull’insicurezza, e sull’allarme invasione, se non sulla minaccia terroristica. Succederà anche nelle aule di giustizia?
Per usare le parole di Luigi Ferrajoli, “Assistiamo in Italia – e in generale in tutto l’occidente, a cominciare dagli Stati Uniti – a politiche penali autoritarie, tanto indifferenti alle cause strutturali dei fenomeni criminali e inefficaci a alla loro prevenzione, quanto promotrici di un diritto penale massimo e disuguale, pesantemente lesivo dei diritti fondamentali: politiche interessate soltanto, tramite misure massimamente repressive, a riflettere e ad assecondare, ed anzi ad alimentare, le paure e gli umori repressivi presenti nella società quali massimi fattori del consenso politico.
Ci auguriamo che questo tentativo non passi anche attraverso un processo penale. Con una prima serie di vittime tra i migranti sottoposti a procedimenti indiziari, ma con una involuzione dello stato di diritto e con una riduzione della effettività delle garanzie costituzionali, che già stanno scontando sulla pelle tutti coloro che a vario titolo vengono messi in stato di accusa in quanto ritenuti “colpevoli di solidarietà”.
7.
La Convenzione di Palermo contro il crimine transnazionale ed i due Protocolli allegati, contro la tratta e contro il traffico di esseri umani, che pure prevedono accordi con i paesi di origine e transito dei migranti, antepongono la salvaguardia della vita umana e della integrità della persona alla lotta contro quella che si definisce immigrazione “illegale”. Un specifica clausola di salvaguardia si ritrova all’art.19 del Protocollo addizionale contro il traffico:: Nessuna disposizione del presente Protocollo pregiudica diritti, obblighi e responsabilità degli Stati e individui ai sensi del diritto internazionale, compreso il diritto internazionale umanitario e il diritto internazionale dei diritti dell’uomo e, in particolare, laddove applicabile, la Convenzione del 1951 e il Protocollo del 1967 relativi allo Status di Rifugiati e il principio di non allontanamento”.
Non si è compreso, o non si è voluto comprendere che, per smantellare davvero le reti di trafficanti internazionali non basta il processo penale. Gli accordi bilaterali hanno dimostrato da tempo la loro inefficacia. L’unica via, praticabile con un ritorno al multilateralismo, sarebbe quella dell’apertura di canali legali di ingresso, anche attraverso la concessione di visti umanitari rilasciati dalle ambasciate dei paesi occidentali.
Solo con la moralizzazione delle forze di polizia e con il disarmo delle milizie paramilitari nei paesi di origine e transito, ed in genere con un comportamento conforme agli standard internazionali degli eserciti, si potranno creare le condizioni per la creazione di spazi minimi di sicurezza personale e di agibilità democratica, oltre che di rispetto minimo dello stato di diritto, nei paesi di transito. Dai quali si fugge perchè anche lì i migranti si ritrovano a subire gli stessi rischi (se non ancora più gravi) di quelli che avevano costretto alla fuga dai paesi di origine. Senza una lotta effettiva alla corruzione tra le forze di polizia non è possibile pensare di avviare forme di cooperazione giudiziaria che portino risultati autentici nel contrasto delle organizzazioni di trafficanti. Basti pensare alla scarsa o nulla collaborazione delle autorità dei paesi di origine o transito quando dall’Italia parte una richiesta di rogatoria internazionale. Che spesso non si sa neppure a chi indirizzare. O che non riceve alcuna risposta. Non sono praticabili espedienti processuali per superare questa situazione caso per caso. Non sembra in definitiva necessario smantellare le garanzie dello stato di diritto, a partire dalla presunzione di innocenza e dal principio del giusto processo, per vantare successi effimeri nella lotta contro il traffico di esseri umani. “Successi” anticipati dai titoli dei giornali ma che vengono smentiti giorno dopo giorno dai fatti. Fatti che contano, che non si potranno cancellare, che caratterizzano una fase storica, oltre a segnare quella che si potrà definire soltanto come verità processuale. Non sono in gioco soltanto destini individuali, ma le basi stesse della nostra democrazia, e ciascuno dimostrerà, nei diversi ruoli che riveste, da che parte si schiera, assumendosene tutte le responsabilità.