di Mauro Seminara
Il memorandum siglato dall’Italia con la Cina avrà senz’altro aspetti positivi ed altri negativi. Una intensificazione dei rapporti commerciali con il Paese superproduttore orientale non è per una novità. Il mercato italiano è già stato perforato dalla Cina e le merci prodotte entro la grande muraglia contribuiscono, da anni, a distruggere l’economia italiana. La cosiddetta “via della seta”, che in termini infrastrutturali non è come una TAV italiana ma un’opera che la Cina realizzerebbe prima che l’Italia riesca a risolvere il cedimento del viadotto Himera sull’autostrada Palermo-Catania. In termini di rapporti commerciali e volumi di scambi merci, l’Italia potrebbe esportare una percentuale minima di prodotti rispetto a quelli che già importa. Inoltre, in questa assurda epoca sovranista, l’Italia pare abbia deciso di fare da se, senza considerare in alcun modo l’Unione europea e quindi escludendo che in ambiente europeo possano esserci mire diverse sulla gestione del commercio e quindi sull’import-export. Proprio ad inizio marzo, l’Ue ha stabilito che la Russia non può più essere considerata un partner strategico. La politica europea, sotto il profilo commerciale, sembra andare in una direzione mentre alcuni Stati membri vanno in tutt’altra ed in solitaria.
L’apertura commerciale italiana, vista sotto il profilo squisitamente ideologico, non sarebbe errata. Nuovi scambi per nuove esportazioni ed importazioni utili a rendere più competitive le imprese produttrici nazionali. Ma c’è un però, e riguarda la cecità con cui da anni il potere legislativo nazionale approccia un fenomeno commerciale ormai inarrestabile che riguarda – in modo molto ravvicinato – anche la Cina. In Italia non è mai stato considerato un pacchetto legislativo che potesse rendere le microimprese nazionali competitive rispetto ai colossi mondiali dell’e-commerce. Il primo nome che ovviamente può venire in mente è quello occidentale di Amazon, ma non è l’unico. Altri colossi dell’e-commerce sono talmente imponenti da minacciare perfino la leadership di Amazon e costringerlo a piegarsi alla vendita, diretta, dei prodotti provenienti proprio dalla Cina. Tra i big dell’e-commerce orientale ci sono Alì Babà, leader nelle forniture all’ingrosso, e Wish. Quest’ultimo, fino a poco tempo addietro, leader nella vendita del prodotto cinese a prezzi imbattibili e spediti direttamente da Hong Kong.
Amazon, con un solo magazzino sul territorio nazionale e sede legale in Lussemburgo – piccolo ma gettonatissimo paradiso fiscale europeo che fa concorrenza agli altri Stati membri – riesce a demolire il tessuto commerciale nazionale ed anche quello artigianale. Negozi, piccoli, medi e grandi, con spese di affitto locali e di personale qualificato, energia elettrica e tasse con cuneo fiscale tutto italiano, hanno pagato il prezzo della concorrenza Amazon e, uno dopo l’altro, hanno chiuso i battenti causando una crisi occupazionale senza precedenti. Colpa dell’assopiagliatutto del web, ma anche degli stessi italiani che, credendosi astuti, hanno beneficiato dei consigli dei commessi e della valutazione del prodotto “in mano” per un “ci penso, grazie” cui seguiva l’ordine di acquisto sul sito di e-commerce. In tal modo, Amazon ha indirettamente beneficiato della competenza dei commessi di quegli stessi negozi che ha trangugiato. E Mentre Amazon monopolizzava il sistema di vendite e la rete dei corrieri nazionali, in tutta Europa, la Cina riempiva navi ed aerei per travolgere l’Unione europea con i propri prodotti. Su Wish si possono acquistare autoradio per dieci euro ed accessori per solo un euro. Il metodo commerciale che in tal modo la Cina sta attuando, non è soltanto quello di esportare a basso costo – ma con ampio margine di guadagno al cambio valuta – ma soprattutto di trasferire migliaia di container pieni zeppi di ogni cosa Made in China con il solo costo di spedizione Cina-Italia pari ad un euro.
Amazon ha quindi iniziato a vendere gli stessi prodotti reperibili su Wish, spesso con gli stessi tempi di spedizione – circa un mese – e con gli stessi prezzi. Nel frattempo però le città si spogliano del proprio tessuto commerciale, le competenze vanno in esubero ed i locali commerciali perdono di valore. Cento negozi da dieci dipendenti l’uno vengono facilmente disintegrati da tre dipendenti in un solo turno di magazzino smistamento Amazon. In questa rivoluzione commerciale, ancora prima di comprendere insieme a tutti i partner europei come fronteggiare l’avanzata dell’e-commerce e della sua nuova forma di schiavitù dal punto di vista fiscale, l’Italia decide di aprire le braccia alla Cina. Un Paese, quest’ultimo, che conta quasi il triplo degli abitanti dell’intera Europa. Alla Cina, di contro, l’Italia potrebbe vendere le arance siciliane – in quota di esportazione controllata – e manufatti di alto prestigio per la fascia benestante della Cina, come già avviene in esportazione verso la Russia. Di contro, l’Italia verrebbe travolta, definitivamente, da quel Made in China che già comprende il settore tessile – dall’Italia astutamente omaggiato anche entro i confini nazionali – oltre che la tecnologia e materie prime come acciaio ed alluminio a prezzi imbattibili. Il memorandum con la Cina cosa è e cosa comporta, si suppone, è ben chiaro nella mente del Governo italiano. Quello che attendiamo è invece una vera riforma fiscale che metta la microimpresa italiana in condizione di sopravvivere, con vantaggi sul costo del lavoro piuttosto che sui tributi, oppure ancora tassando con parametri diversi la vendita online e la spedizione dei prodotti acquistati. Se con un euro ci si paga la consegna di un acquisto che dalla Cina arriva dritto a casa in Italia, in un mese attualmente ma in tre giorni con una vera “via della seta”, è chiaro che anche la panetteria sotto casa ha perso in partenza, non potendo pagare meno di un euro il garzone che consegna il pane in portineria.