di Mauro Seminara
Oggi si è tenuta presso il Tribunale di Agrigento una nuova udienza sul caso del naufragio del 3 ottobre 2013, quando davanti la costa di Lampedusa persero la vita 366 persone giunte fino alla costa dell’isola italiana su un barcone in legno. In aula erano presenti quattro testimoni citati dal pubblico ministero per il procedimento a carico del comandante e dell’equipaggio del peschereccio Aristeus, accusati di omissione di soccorso. I testimoni sono due agenti in servizio presso la Questura di Agrigento e due lampedusani che sin dal primo giorno hanno seguito le testimonianze dei sopravvissuti e le tracce delle imbarcazioni che, in linea con quanto dichiarato dai superstiti, risultavano essersi mosse intorno al barcone poi naufragato omettendo il dovuto soccorso.
Oltre al peschereccio di Mazzara del Vallo “Aristeus”, con i suoi sette membri di equipaggio, tre italiani e quattro stranieri, i superstiti asserivano di aver visto un’altra imbarcazione. Questa, di cui non è mai stata trovata traccia AIS, avrebbe – secondo le dichiarazioni dei sopravvissuti – avvicinato il barcone della morte e puntato un potente faro addosso per verificarne meglio le condizioni. La barca in questione era grigia per alcuni testimoni, bianca per altri e “argento” per altri ancora. Nessuna caratteristica connotativa da peschereccio, con le tipiche variazioni di colore e la forma da barca da pesca armata di reti e paranco. Il dubbio, a distanza di sei anni dal disastro, non schiarisce l’ombra su motovedette o pattugliatori di autorità italiane che avrebbero potuto “rinviare” l’intervento SAR.
Le dichiarazioni in merito alle due barche che avrebbero omesso il soccorso, da parte dei superstiti erano state rese subito dopo i soccorsi e rilanciate anche da Don Mussie Zerai, il prete eritreo che si era subito recato a Lampedusa ed aveva incontrato i migranti sopravvissuti alla tragedia. Affermazioni che però erano state pochi giorni dopo ritrattate dagli stessi testimoni, dichiaratisi in un secondo momento meno sicuri sul colore e sulle caratteristiche della seconda imbarcazione che li aveva avvicinati prima del naufragio. La vicenda non ha mai svelato i lati oscuri di cui era contornata, e oltre alle testimonianze rese questa mattina dai lampedusani Giacomo Sferlazzo e Antonino Maggiore all’udienza del processo che vede imputati i pescatori del Aristeus di Mazzara del Vallo c’è ancora da verificare, fino a sentenza definitiva, la posizione dei testimoni della Gamar, la piccola barca da diporto intervenuta prima di altri in soccorso dei naufraghi.
Nell’immediato dopo soccorso, la Gamar ed i suoi otto passeggeri – che avevano trascorso una notte in barca tra amici – era stata posta in completa oscurità ed al suo posto erano stati offerti in pasto alla stampa, e proposti per vari premi e riconoscimenti, altri due nomi di soggetti intervenuti in soccorso. Gli otto passeggeri della Gamar erano quelli che avevano sollevato la questione del presunto ritardo nell’intervento da parte della Capitaneria di Porto. Vito Fiorino, proprietario e capitano della piccola imbarcazione che aveva salvato la vita di 47 naufraghi, ha infatti ottenuto di mettere agli atti processuali le pressioni ricevute a suo dire da due militari della Guardia Costiera perché ritrattasse la dichiarazione resa a verbale su un ritardo di circa cinquanta minuti tra la richiesta di soccorso e l’arrivo delle motovedette distanti poco più di un miglio; distanza tra il porto di Lampedusa ed il luogo del naufragio.
La vicenda, in fase processuale, si riapre con la testimonianza resa questa mattina da Giacomo Sferlazzo e Antonino Maggiore. Proprio ieri, tra l’altro, come dichiarato da Sferlazzo, i due testimoni hanno ricevuto un video da parte di uno dei sopravvissuti nel quale tornava la testimonianza relativa alla seconda imbarcazione descritta di colore “argento”. Colore che, unito al riflesso del mare – illuminato dalla luna del 3 ottobre 2013 – sullo scafo, farebbe pensare ad una imbarcazione “militare”; notoriamente grigio chiaro. Della distorsione mediatica dei fatti accaduti la notte del naufragio ha parlato anche il testimone Sferlazzo, a margine dell’udienza, ricordando che nei giorni successivi è stata operata una scelta di campo per la tragedia, omettendo i soccorritori della Gamar dal racconto mainstream – con le loro accuse sui ritardi dei soccorritori – ed i testimoni Sferlazzo e Maggiore e dando maggiore visibilità ai soccorritori Costantino Baratta e Domenico Colapinto. Entrambi intervenuti dopo Vito ed i suoi ospiti a bordo della Gamar e prima della Guardia Costiera.
Il processo in corso ad Agrigento rinvia adesso a giugno per la prossima udienza i cui verranno ascoltati altri testimoni di uno dei più ingenti naufragi della storia e dal quale prese vita la missione della Marina Militare italiana battezzata “Mare Nostrum”. Parallelamente, in altra sede, è in corso un’altra ricerca di verità che riguarda in questo caso una presunta omissione di soccorso da parte della nave Libra della Marina Militare italiana: quella del naufragio del 11 ottobre 2013. Morirono, nel naufragio che si consumò otto giorni dopo quello di Lampedusa, 268 persone. Tra le vittime, a far ribattezzare la tragedia come “il naufragio dei bambini”, circa sessanta bimbi in fuga dalla Siria smembrata da bombe di ogni nazionalità. In quel caso furono indagati e rinviati a giudizio ufficiali della Marina Militare, dopo che il Giudice per le Indagini Preliminari respinse la richiesta di archiviazione e stabilì che i rapporti forniti dalla Marina non erano veritieri. Partì, anche in quel caso, una odissea giudiziaria con al centro un tentativo di depistaggio da parte delle autorità nazionali.