di Mauro Seminara
È sera, e tra un po’ si spegneranno le luci della ribalta. Gli attori andranno via portando con sé tutti le frasi di circostanza pronunciate con la fierezza dei navigati commedianti. L’ipocrisia è andata in scena anche oggi, dopo 27 anni. Per fortuna c’è ancora speranza. Ci sono quelle migliaia di ragazzi, che non erano neanche nati nel 1992, a far ben sperare. Loro non sanno, non possono neanche immaginare, perché non hanno vissuto quel brivido che ha percorso la schiena ed ha gelato il sangue agli italiani, ai siciliani ancor di più, ed ai palermitani al punto da renderne difficile il racconto. Loro, quei ragazzi giunti in nave da Civitavecchia ma provenienti da ogni dove insieme a quelli giunti a piedi dall’hinterland palermitano, sanno però che quella società non la vogliono. Non intendono viverla. Loro, i giovani, i “millennials”, sanno che non intendono somigliare a quella società omertosa di cui hanno fatto parte le generazioni precedenti. Se tutto andrà bene, quei ragazzi saranno migliori delle precedenti generazioni. Ma a loro tocca una sfida diversa da affrontare. Come il loro genitori, ed i loro nonni, hanno vissuto un tempo in cui la mafia e lo Stato si confondevano scambiando i relativi ruoli, adesso i ragazzi dovranno distinguere la mafia dei colletti bianchi dai colletti bianchi che non ne fanno parte. Perché anche la mafia si è evoluta, ed oggi lo sappiamo. Oggi non possiamo fingere di non sapere che quegli ignoranti senza onore che pretendevano di chiamarsi “uomini d’onore” non comandano ma prendono ordini dai veri boss, quelli laureati, in giacca e cravatta con 24ore al seguito e che spesso fanno parte delle istituzioni. Troppo spesso.
Un boato spaventoso. L’eco giunse fino alla periferia ovest di Palermo. Nei comuni di Capaci, Isola delle Femmine, Carini e dintorni si pensò ad un terremoto o all’esplosione della cementeria. Le villette nelle relative vicinanze dell’autostrada vennero bombardate dai massi che l’esplosione sollevò in aria. Erano pezzi di autostrada che piovevano sulle case. Le linee telefoniche saltarono e presto il panico prese quanti non riuscivano a mettersi in contatto con amici e parenti che vivevano in zona o che solitamente attraversavano quel tratto autostradale sabato pomeriggio. Poco più tardi, radio e Tv in edizione straordinaria, interrompendo qualunque programma in corso, iniziarono il racconto dell’orrore. Il sangue si gelò nelle vene dei palermitani, dei siciliani e di buona parte degli italiani. Tutto si fermò. Gli uffici sospesero il lavoro come i negozi e perfino le giovani coppie di sposi, che fino a pochi minuti prima posavano per i loro fotografi, si fermarono in auto per ascoltare la radio. Era buio. Buio pesto. Era morta la speranza di liberare la Sicilia dalla mafia. Era morta la speranza di avere uno Stato forte e dotato della caparbia volontà di combattere la mafia fino a sconfiggerla. Poco più tardi è morto anche Giovanni Falcone, in ospedale. Con lui persero la vita la moglie, Francesca Morvillo e gli agenti Antonino Montinaro, Rocco Dicillo e Vito Schifani. Morirono tutti perché facevano il loro dovere: servivano lo Stato.
La strage di Capaci, o “attentatuni”, fece tacere tutti quelli che criticavano le fastidiose sirene della scorta di Giovanni Falcone dalle pagine che venivano così imbrattate in stamperia ed anche quelli che asserivano che il giudice si piazzò da solo la borsa col tritolo davanti la propria casa estiva all’Addaura. Dopo 26 anni una Corte pronunciò la sentenza di primo grado di un processo che tutti criticarono mentre i giudici di Palermo lo istruivano. Dopo anni di critiche e sfottò sul denaro pubblico sprecato nel tentativo di dimostrare un teorema, la Corte stabilì che ci fu una trattativa fra lo Stato e la mafia. Tutti muti, di nuovo. Dall’esplosione che dilaniò l’autostrada Palermo-Trapani all’altezza del Comune di Capaci era trascorso oltre un quarto di secolo, ma almeno, attendendo l’esito dei due gradi di giudizio che scriveranno la storia, adesso c’è una sentenza che conferma una cosa che a Palermo tutti sentivano nel proprio cuore: la mafia non avrebbe mai potuto “alzare il tiro”, sfidare lo Stato, in questo modo da sola. Giovanni Falcone, Francesca Morvillo, Rocco Dicillo, Antonino Montinaro e Vito Schifani morirono mentre lo Stato che servivano trattava con la mafia che combattevano.
Il 23 maggio del 1992 morì lo Stato italiano, e la dimostrazione non tardò ad arrivare. Poco più tardi, il 19 luglio, una fortissima esplosione scuoteva l’intera città di Palermo incredula. Era un’autobomba, piazzata in via D’Amelio. Si disse che la bomba era stata posta la dove il giudice Paolo Borsellino soleva recarsi con abitudinaria frequenza. Ma non era così. Paolo Borsellino si recava, eccezionalmente in un periodo in cui lavorava giorno e notte, al compleanno della madre che si festeggiava con la sorella del giudice in via D’Amelio. Una evidente fuga di informazioni. Come se i servizi segreti, invece di lavorare per aiutare il giudice ed il pool antimafia di Palermo che piangeva ancora la eclatante scomparsa del giudice Giovanni Falcone, lavorava per spiare Paolo Borsellino a beneficio di chi lo voleva morto come il collega ed amico d’infanzia. Palermo era incredula. Quando il boato si udì in tutta la città ed il “fungo” dell’esplosione era visibile anche dalla periferia, nessuno poteva credere che il giudice Paolo Borsellino era stato lasciato solo. Solo a morire senza la protezione dello Stato che serviva fedelmente. Solo ma con la terrificante compagnia degli agenti Agostino Catalano, Emanuela Loi, Claudio Traina, Vincenzo Li Muli e Walter Eddie Cosina. Come poteva, lo Stato che si era visto uccidere uno dei più importanti alfieri antimafia insieme alla moglie – anch’essa magistrato – e tre agenti di scorta e quindi servitori dello Stato anch’essi, non dichiarare guerra alla mafia con tutti i mezzi a disposizione e lasciare che anche l’altro alfiere venisse ridotto in brandelli come accadde a Paolo Borsellino in via D’Amelio? Eppure accadde, a dimostrazione del fatto che il 23 maggio del 1992, oltre a Falcone, Morvillo, Schifani, Montinaro e Dicillo era ufficialmente morto lo Stato italiano. Quello che stava “trattando” con la mafia. Quello che stava aiutando la mafia ad eliminare i propri uomini migliori.
Oggi sono andati in scena i più raccapriccianti show politici che i palermitani potessero immaginare. Tra tre giorni si vota per le europee e nessuno pare abbia saputo rinunciare alla passerella palermitana. C’era il presidente del Consiglio, anche se non sapeva con esattezza dove si trovava, ed anche il presidente della Camera, che dopo 27 anni dalla strage e dopo un anno di governo del suo partito ha proposto un “piano Marshall” per combattere la mafia; giusto il 23 maggio a Palermo. C’era anche il ministro dell’Interno, che per un giorno non ha parlato di migranti da fermare e navi di Ong da affondare, ma che non è riuscito a fare a meno di fare campagna elettorale vantando il lavoro politica che sta facendo – e che farà – per combattere la mafia tra un selfie e l’altro, tra una direttiva ministeriale anti-Ong e l’altra, tra un decreto sicurezza anti salvataggio di migranti ed un decreto sicurezza bis anti salvataggio di migranti. Oggi, a Palermo, non c’era lo Stato. Oggi c’erano i rappresentanti eletti il 4 marzo 2018 che passeggiavano, la dove si sono radunate migliaia e migliaia di persone, in cerca di consenso per le votazioni di domenica. C’erano vari ministri, presidenti vari – del Consiglio, della Camera, della Regione e via scendendo – e tutta la batteria di “comunicazione & marketing” delle due forze di maggioranza. Tutti hanno perso l’occasione per tacere. Nessuno ha avuto un sussulto di dignità e tutti hanno provato a guadagnare uno spazietto sui giornali. I comunicati stampa hanno affollato la posta elettronica di tutte le redazioni ed i messaggi Whatsapp hanno fatto lo stesso con gli smartphone dei giornalisti. Il giorno del ventisettesimo anniversario della morte di Giovanni Falcone è stata un’occasione troppo ghiotta per fare la più meschina campagna elettorale che gli italiani possano ricordare tra prima, seconda e terza Repubblica.
Ai palermitani, a quanti ricordano dove si trovavano e cosa stavano facendo quel giorno, mentre saltava per aria l’autostrada travolgendo l’auto blindata di Giovanni Falcone e quelle della scorta, verrà sicuramente più facile capire che chi viene in città per la ricorrenza, asserendo che “bisognerebbe fare” invece di aver già disposto cosa fare, è una persona meschina. Matteo Messina Denaro è ancora latitante. Lo è dal 1993, cioè dalla strategia della tensione degli anni in cui morirono i giudici di Palermo e vittime innocenti che si trovavano nelle vicinanze dei monumenti nazionali fatti esplodere. Gli uomini “estranei”, o dei servizi segreti italiani, che hanno aiutato i corleonesi di Totò Riina a mettere in atto due attentati di precisione militare, non sono ancora stati identificati ed offerti alla giustizia. Lo Stato, morto il 23 maggio del 1993, non ha ancora aperto i propri cassetti segreti. L’attuale esecutivo, bravo come i precedenti nello sciorinare buoni propositi in occasione degli anniversari del 23 maggio e del 19 luglio, non ha ancora stanziato qualche milione di euro per finanziare una squadra speciale catturandi che metta in manette il boss di Castelvetrano e tagli definitivamente la testa a Cosa Nostra, alla ‘Ndrangheta, alla Camorra ed a tutte le altre associazioni mafiose che soffocano l’Italia e ne pregiudicano i conti pubblici e la qualità dei servizi per i quali i cittadini pagano tasse fin troppo alte. Nessuno ha ancora pensato che i decreti e le direttive da emettere non sono quelle pagliacciate incostituzionali ma ben altre. Eppure, hanno il coraggio, a tre giorni dalle elezioni, di recarsi a Palermo a fare campagna elettorale nel giorno in cui i palermitani ed i siciliani tutti meriterebbero la più discreta e silenziosa comprensione per il lutto dovuto alla scomparsa dei figli di quella terra e per il lutto dovuto alla morte di quello Stato che invece di difenderli li ha condannati alla sottomissione.
Oggi è stato celebrato il perfetto anniversario della morte dello Stato italiano.
Segue il post pubblicato oggi dalla Polizia di Stato con cui si ricorda, nell’unico modo reale e concreto, cosa accadde il 23 maggio di 27 anni fa
I numeri a volte raccontano la storia meglio di qualunque parola perché danno il senso concreto di ciò che è accaduto e si trasformano, a loro volta in parole. È il caso di Capaci, o meglio della strage di Capaci.
E allora leggiamoli insieme questi numeri: 15 sono i quintali di esplosivo utilizzati nell’attentato, una quantità impressionante; 5 i morti dilaniati dal tritolo: Giovanni Falcone, Francesca Morvillo, Antonio Montinaro, Rocco Dicillo e Vito Schifani, 23 i feriti sopravvissuti alla strage.
Altri numeri sostengono la memoria di quel giorno il 23.5.1992, 27 anni fa; ma nelle menti e nelle cerimonie ricorre anche un altro numero, l’ora in cui gli assassini premettero il telecomando dell’innesco: le 17,58.
Poi ci sono i numeri che pochi conoscono e ricordano come ad esempio il numero del contachilometri della macchina della scorta; i tre agenti furono scagliati a cento metri di distanza dentro la loro croma blindata, la Quarto Savona 15; tra le lamiere fu ritrovato il contachilometri fermo a 100.287.
Questo insieme di numeri creano nella nostra memoria e nella memoria collettiva volti, gesti, momenti diventati patrimonio dell’intera società civile del nostro Paese che oggi ricorda cinque servitori dello Stato assassinati dalla mafia.
Gli eventi legati alla manifestazione “#PalermochiamaItalia” porteranno sui luoghi simbolo di Palermo 70.000 studenti che, da tutta Italia, verranno a rendere onore a queste persone.
E alla fine questo è il numero che conta di più, il numero del futuro e della legalità.