di Mauro Seminara
Con la massima comodità per l’intera Unione europea, l’Italia sta svolgendo il ruolo del caporale cattivo a cui poi poter addossare tutte le responsabilità dei crimini che ormai quotidianamente si consumano nel Mar Mediterraneo. Il ministro dell’Interno italiano sembra esserne ben lieto. Probabilmente lo sarà fino a quando non finirà a processo, non potendo poi neanche più cercare correi con i quali condividere le violazioni della Convenzione di Ginevra del 1951, della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, della Convenzione internazionale per la salvaguardia della vita umana in mare del 1974, della Convenzione internazionale del 1979 sulla ricerca e il salvataggio marittimi, della Convenzione delle Nazioni Unite del 1982. L’Europa, con la sua Unione europea, si era dotata di leggi internazionali che spingevano l’intero continente verso una uniformità di civilizzazione. Una superpotenza in avanguardia dei diritti civili. Adesso però sembra che la stessa Unione, per opera di alcuni Stati membri, tra i quali anche fondatori dell’Unione come l’Italia, abbia deciso di operare in deroga a quanto sancito nell’arco di decenni.
La Sea Watch 3 si trova a largo di Lampedusa e da due giorni naviga avanti ed indietro a sedici miglia dall’isola pelagica italiana. A bordo ci sono profughi fuggiti dalla Libia e tra essi anche donne e minori. La Libia aveva indicato alla nave della Ong tedesca il porto di Tripoli quale “porto sicuro” in cui sbarcare le 53 persone soccorse in acque internazionali ricadenti sotto il coordinamento SAR (ricerca e soccorso) libico. L’indicazione di Tripoli quale Place of Safety è però irregolare e la Centrale di Coordinamento Soccorso Marittimo della Libia non poteva indicare un proprio porto essendo l’intera Libia riconosciuta universalmente “porto non sicuro” in cui è in atto una guerra civile e nella quale non sono mai stati garantiti i diritti umani. La Sea Watch 3, nave di Ong tedesca, batte bandiera dell’Olanda ed è pertanto una nave europea che non può violare le convenzioni internazionali di cui sopra. La Sea Watch 3, in assenza di indicazioni su un reale porto sicuro da parte della Libia, è obbligata a rivolgersi alle autorità europee per ottenere l’immediata indicazione di un vicino Place of Safety. Nessuna indicazione però giunge a bordo della nave che ha con sè persone salvate dal mare ed alle quali le vigenti norme internazionali devono garantire l’immediato sbarco in un porto sicuro.
A largo di Zarzis, il porto della Tunisia più a sud del Paese, dal 31 maggio si trova la nave Maridive 601 con a bordo 75 profughi soccorsi in acque internazionali di competenza SAR della Libia. La barca soccorsa dalla nave di una compagnia tunisina, ormai 16 giorni addietro, è stata costretta ad intervenire in soccorso delle persone che erano state ignorate da qualunque possibile autorità di soccorso. Alcuni, tra i 75 malcapitati a bordo del piccolo natante, si erano tuffati in mare costringendo la Maridive 601 – che attendeva indicazioni da chi avrebbe dovuto coordinare l’evento SAR – ad un immediato soccorso. Al termine del quale però nessuna autorità MRCC del Mediterraneo ha fornito indicazioni sul Place of Safety in cui chiudere l’operazione di soccorso. La nave, una “offshore supply ship”, cioè un grande rimorchiatore da supporto logistico alle piattaforme petrolifere che si trovano a largo di Libia e Tunisia, ha avviato i motori con il timone in direzione dello Stato di bandiera: la Tunisia. Giunta a largo di Zarzis però le è stato negato l’accesso in porto e l’armatore, il comandante e l’equipaggio della Maridive 601 si sono ritrovati sequestrati a largo con una operazione SAR mai conclusa e 75 persone a bordo da sfamare ed alle quali garantire – con evidente impossibilità – condizioni igieniche e sanitarie in linea con quanto prevedono diritti umani e dignità umana. La Tunisia non ha una “SAR zone” e con il rifiuto alla Maridive 601 pare intenda evitare di ritrovarsi in breve l’unico Place of Safety di tutto ciò che l’Unione europea si rifiuta di soccorrere e ricevere.
A terra si mobilitano persone ed autorità europee e dalla Germania arrivano anche disponibilità ad accogliere le 53 persone soccorse dalla Sea Watch 3 inviando pullman in Italia a proprie spese. Questa è l’apertura di Berlino e Rottenburgs, ma non sono le uniche città che aprono le braccia alle persone che l’Italia si ostina a sequestrare in alto mare con la subdola pretesa di accusare di sequestro la Ong che le ha salvate. L’unico problema è che per trasferire i profughi nelle città tedesche bisogna prima concludere la missione di soccorso e farle sbarcare, e la Sea Watch 3 si trova ancora a 16 miglia da Lampedusa, fuori dalle acque territoriali di uno Stato che le nega l’accesso. Il momento, sempre più delicato, viene reso adesso critico dalla decisione pilatesca del presidente della Repubblica italiano che ha posto ieri la propria firma sul cosiddetto “decreto sicurezza bis” di salviniana volontà. Malgrado il decreto, come ogni decreto legge o disegno di legge, non sia retroattivo e non possa quindi – teoricamente – applicare la sanzione alla Sea Watch 3 che ha rifiutato il porto non sicuro di Tripoli prima della promulgazione del Ponzio Pilato del Colle, il rischio è di una pretesa immediata applicazione da parte del ministro dell’Interno. Comunque, in vigore da ieri, il DL sicurezza bis sposta la competenza dalla Procura di Agrigento (della cui provincia fa parte Lampedusa) a quella di Palermo, tagliando fuori quel procuratore capo Luigi Patronaggio al quale era stata affibbiata l’etichetta di “pro migranti” ed al quale era anche stata recapitata una minaccia condita di proiettile.
I principi di incostituzionalità del decreto sicurezza bis ci sono tutti e già è in corso il vaglio del primo decreto sicurezza da parte della Corte Costituzionale. Il presidente della Repubblica ha però deciso di apporre la propria firma, promulgando così anche il secondo super-deterrente al soccorso in mare, in attesa che dell’ottemperanza ai doveri costituzionali del DL sia la Corte che egli presiede in modo onorario ad occuparsene. Una lavata di mani che offre uno slancio politico, sul piano dei consensi, notevole alla Lega di Matteo Salvini che, pur continuando a disertare riunioni europee, italiane ed anche il proprio ufficio, fa sembrare ai suoi elettori d’essere l’uomo del fare invece che l’uomo del non far nulla dalla mattina alla sera. Nel 2009 era stato intentato un ricorso contro il respingimento ordinato dal collega di partito, ed allora ministro dell’Interno ad interim, Roberto Maroni. Il ricorso venne vinto in sede europea e l’Italia dovette risarcire i profughi respinti in Libia accollandosi anche una severa ammonizione sul rispetto delle Convenzioni internazionali. In questo momento però, forse non a caso per mano di un altro ministro dell’Interno della Lega, l’Italia sta nuovamente violando l’obbligo di non respingimento. Lo sta facendo in modo passivo, non riaccompagnando i profughi soccorsi in mare nuovamente in Libia, ma pretendendo che a farlo sia una Ong e inducendola a farlo con la negazione del proprio porto sicuro che è in assoluto il più vicino. Una trappola, ormai divenuto il Mar Mediterraneo, nel quale – come ha ricordato Papa Francesco – l’Unione europea non chiude i porti alle navi cariche di armi destinate alle guerre in cui perdono la vita migliaia di persone, ma li chiude ai migranti costringendoli a continui naufragi silenziosi in cui comunque perdono la vita migliaia di persone.
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