Ancora un respingimento collettivo ordinato dal ministro dell’Interno

Il Ministero dell’Interno tiene al largo da giorni, dopo il soccorso di 53 persone effettuato il 12 giugno scorso in acque internazionali, una nave con ancora 43 persone a bordo. Le nuove previsioni legislative introdotte in tempi rapidissimi, prendono spunto dalle ultime tre fallimentari direttive ministeriali emanate dal Viminale in materia di attività conseguenti ad operazioni di ricerca e salvataggio in acque internazionali

di Fulvio Vassallo Paleologo

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Dopo la firma lampo del Presidente Mattarella e l’entrata in vigore del “Decreto legge sicurezza bis”, il ministro dell’interno, adesso “di concerto” con i ministri della difesa e delle infrastrutture, adotta una “Direttiva ministeriale” con cui si dispone il divieto di ingresso, transito e sosta della nave Sea Watch 3 nel mare territoriale nazionale. Una nave che il ministero tiene al largo da giorni, dopo il soccorso di 53 persone effettuato il 12 giugno scorso in acque internazionali.

Appare sempre più evidente come le nuove previsioni legislative che si sono introdotte, in tempi rapidissimi, quasi come una cambiale fatta valere dal ministro dell’interno dopo la campagna elettorale, prendano spunto dalle ultime tre fallimentari direttive ministeriali emanate dal Viminale in materia di attività conseguenti ad operazioni di ricerca e salvataggio in acque internazionali. Direttive che sono rimaste di rilievo marginale in assenza di precise basi legali, oltre che per l’evidente contrasto con fonti normative di rango superiore. Il decreto sicurezza bis riaccenderà comunque lo scontro tra ministero dell’interno, ministero della difesa e ministero delle infrastrutture sulla gestione dei porti e degli ingressi dei naufraghi soccorsi in acque internazionali. Ed è sempre più visibile il rischio di un “cortocircuito” tra le misure di sequestro “di iniziativa” demandate direttamente dal ministro dell’interno alla Guardia di finanza e le attività di indagine e di controllo giurisdizionale affidate alla magistratura.

Secondo il Viminale, l’equipaggio della Sea Watch, in questa ultima occasione di scontro, avrebbe tenuto un “comportamento contraddittorio”, in quanto avrebbe rifiutato il porto di sbarco indicato dalle autorità libiche. che le autorità italiane avevano indicato come competenti nel coordinamento dell’evento SAR (di ricerca e soccorso). Inoltre, sempre secondo il ministero dell’interno il comportamento della Sea Watch 3 sarebbe stato preordinato alla “scarico di persone in violazione delle leggi di immigrazione vigenti nello stato costiero, e quindi verrebbe a costituire una ipotesi di “passaggio non inoffensivo ai sensi dell’articolo 19. comma I lettera g) della UNCLOS”.

Nella direttiva ministeriale non manca neppure un cenno al “rischio di ingresso sul territorio nazionale di soggetti coinvolti in attività terroristiche o comunque pericolosi per l’ordine e la sicurezza pubblica in quanto trattasi nella totalità di cittadini stranieri privi di documenti di identità e la cui nazionalità è presunta sulla base delle rispettive dichiarazioni”. Un rischio che finora è rimasto del tutto privo di riscontri dopo anni di indagini e di intercettazioni.

Per tali ragioni il ministro Salvini, “di concerto” con i ministri Trenta e Toninelli, ha disposto “il divieto di ingresso. transito e sosta della nave Sea Watch 3 nel mare territoriale nazionale”, minacciando, in caso di violazione, “salve le sanzioni penali ove il fatto costituisca reato. la sanzione amministrativa del pagamento di una somma da euro 10.000 a 50.000″ e “in caso di reiterazione commessa con l’utilizzo della medesima nave, …..altresì, la sanzione accessoria della confisca della nave, procedendo immediatamente al sequestro cautelare”.

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Le disposizioni adottate dal ministro dell’interno subito dopo l’entrata in vigore del “decreto sicurezza bis”, si basano su una norma di legge in aperto contrasto con norme cogenti di diritto internazionale ed europeo, da valutare come vincolanti per il legislatore interno ed il potere esecutivo in forza del chiaro richiamo dell’art. 117 della Costituzione italiana.

Malgrado il ministro Salvini sia stato costretto a consentire l’evacuazione medica (MEDEVAC) e dunque lo sbarco a Lampedusa di dieci naufraghi in condizioni di estrema urgenza medica, rimane il dato documentale che ha apposto una firma, insieme ad i suoi colleghi Trenta e Toninelli, ad un provvedimento che configura un vero e proprio respingimento collettivo attuato dalle autorità italiane, in violazione del divieto di refoulement sancito dall’art. 33 della Convenzione di Ginevra, e del divieto di respingimenti collettivi, sancito dall’art. 4 del Quarto Protocollo allegato alla CEDU e dall’art.19 della Carta dei Diritti fondamentali dell’Unione Europea.

Lo stesso provvedimento adottato dal Viminale si pone in contrasto frontale con gli obblighi di salvataggio affermati dai Regolamenti europei n. 656 del 2014 e 1624 del 2016, direttamente vincolanti anche per il legislatore interno. Ne consegue la illegittimità dei provvedimenti amministrativi conseguenti e la rilevanza di eccezioni di costituzionalità ove le norme del recente “decreto sicurezza bis” dovessero venire in discussione nell’ambito di un procedimento penale o amministrativo.

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Una volta che la Centrale nazionale di coordinamento di soccorso marittimo della Guardia Costiera di Roma abbia comunque ricevuto la segnalazione di un’emergenza e assunto il coordinamento iniziale delle operazioni di soccorso – anche se l’emergenza si è sviluppata fuori dalla propria area di competenza Sar – questo impone alle autorità italiane di portare a compimento il salvataggio individuando il luogo sicuro di sbarco dei naufraghi. Se le autorità di Malta hanno negato il loro consenso allo sbarco in un porto di quello stato, l’Italia non può negare lo sbarco in un proprio porto sicuro, che diventa essenziale per completare le operazioni di salvataggio. Se, come risulta dai rapporti delle Nazioni unite e come ha riconosciuto persino il ministro degli esteri del governo Conte, Enzo Moavero Milanesi, la Libia non garantisce «porti di sbarco sicuri», spetta al ministero dell’interno, di concerto con la Centrale operativa della guardia costiera di Roma, indicarne uno con la massima sollecitudine, anche se l’evento Sar si è verificato nelle acque internazionali che ricadono nella pretesa Sar libica.

Eventuali inadempimenti di tali obblighi potranno essere sanzionati a livello nazionale o internazionale.

Non si può ammettere che in acque internazionali ci siano persone sottratte a qualsiasi giurisdizione, magari per effetto della qualificazione come «clandestini». Fino a quando non intervengono direttamente unità navali o aeree o centrali di coordinamento Sar di altri paesi, le persone che chiamano soccorso dall’alto mare si trovano sotto la giurisdizione del primo paese che riceve la chiamata di soccorso, dal cui esito tempestivo può dipendere la vita o la morte. Questo paese, dunque, ha l’obbligo di rispettare tutti gli obblighi cogenti derivanti dalle Convenzioni internazionali, a partire dal rispetto assoluto del diritto alla vita e dal principio di non refoulement (articolo 33 della Convenzione di Ginevra).

Solo dopo lo sbarco in un Place of Safety appare legittimo attivare tutte le procedure contro l’immigrazione irregolare e avviare una negoziazione con l’Unione Europea, al fine di una distribuzione dei richiedenti asilo nei diversi paesi che ne fanno parte. Non si può pensare di continuare ancora con singole negoziazioni dopo ciascuna azione di soccorso: se gli stati non riusciranno a trovare soluzioni consensuali di questi problemi, si dovrà comunque pervenire a un sistema organizzato di soccorso che si imponga con sanzioni effettive e individuazione di responsabilità, in tutti i casi di inadempimento degli obblighi di ricerca e salvataggio.

L’art. 10, par 1, della Convenzione SAR prevede che ogni comandante è obbligato, nella misura in cui lo possa fare senza serio pericolo per la propria nave e le persone a bordo, a rendere assistenza a qualsiasi persona che rischia di perire in mare. Il comandante di una nave in navigazione che sia in grado di poter prestare assistenza, al ricevimento di un segnale da qualsiasi provenienza indicante che delle persone si trovano in pericolo in mare, è obbligato a portarsi a tutta velocità ad assisterle, se possibile informando tali persone o il servizio di ricerca e soccorso di quanto la nave sta facendo.

Il comandante di una nave è liberato dall’obbligo imposto dal paragrafo a) e, se la nave è stata requisita, dall’obbligo imposto dal paragrafo b), qualora venga informato che l’assistenza non è più necessaria dalle persone in pericolo o dal servizio di ricerca e soccorso o dal comandante di un’altra nave che abbia raggiunto tali persone.

In base al punto 3.1.9 della Convenzione SAR (Search and Rescue) di Amburgo del 1979 dispone: «Le Parti devono assicurare il coordinamento e la cooperazione necessari affinché i capitani delle navi che prestano assistenza imbarcando persone in pericolo in mare siano dispensati dai loro obblighi e si discostino il meno possibile dalla rotta prevista, senza che il fatto di dispensarli da tali obblighi comprometta ulteriormente la salvaguardia della vita umana in mare. La Parte responsabile della zona di ricerca e salvataggio in cui viene prestata assistenza si assume in primo luogo la responsabilità di vigilare affinché siano assicurati il coordinamento e la cooperazione suddetti, affinché i sopravvissuti cui è stato prestato soccorso vengano sbarcati dalla nave che li ha raccolti e condotti in luogo sicuro, tenuto conto della situazione particolare e delle direttive elaborate dall’Organizzazione (Marittima Internazionale). In questi casi, le Parti interessate devono adottare le disposizioni necessarie affinché lo sbarco in questione abbia luogo nel più breve tempo ragionevolmente possibile.»

Secondo il manuale IAMSAR, adottato in esecuzione della legge di adesione alla Convenzione di Amburgo del 1979 n.147 del 1989, ed alla luce del Regolamento di attuazione contenuto nel D.P.R. 28 settembre 1994 n. 662, ogni stato al quale è riconosciuta una area SAR deve disporre di un centro di coordinamento dei soccorsi (MRCC). Per area SAR si intende “una area di dimensioni definite, associata ad un centro di coordinamento del soccorso, all’interno della quale sono assicurati i servizi SAR”. Secondo lo stesso Manuale “le SAR consentono di definire chi ha la responsabilità principale di coordinare la risposta a situazioni di pericolo in qualsiasi area del mondo, ma ciò non preclude la possibilità ad alcuno di fornire assistenza a persone in difficoltà”;

La Convenzione di Amburgo 1979 non precisa quali debbano essere i limiti spaziali delle zone SAR ma pone in risalto, in linea con l’Unclos, che deve esservi un rapporto tra l’estensione delle zone SAR e le capacità dei servizi SAR del Paese responsabile.

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Con l’insediamento del governo Conte-Salvini-Di Maio, già nelle prime dichiarazioni del ministro dell’Interno, si percepiva un ulteriore inasprimento della linea di condotta delle autorità italiane nelle occasioni ancora frequenti di interventi di ricerca e soccorso in acque internazionali sulla rotta libica operati dalle navi delle Ong. Per tutta l’estate del 2018 era guerra aperta contro le Ong, con espedienti burocratici, come le pressioni sugli stati di bandiera delle navi umanitarie perché le cancellassero dai registri navali, e con la minaccia di altre sanzioni penali, unico strumento effettivo per «chiudere i porti». Restava inoltre una situazione di grande incertezza sulle aree di competenza degli stati nello svolgimento di attività di ricerca e salvataggio, anche per la parziale sovrapposizione, mai risolta in sede Imo, tra l’area di competenza maltese e quella italiana, con evidenti ricadute nella determinazione del porto sicuro di sbarco.

Cresceva anche la pressione diplomatica sulla Libia e sull’Imo a Londra perché fosse riconosciuta una zona Sar «libica» in modo da delegare completamente, almeno sulla carta, il coordinamento delle attività di salvataggio ad assetti libici e alla costituenda Centrale operativa libica. Un’autentica finzione, dal momento che la Libia non aveva organi di governo o forze armate uniche per tutto il suo vasto territorio, coste e mare territoriale compreso, controllato da milizie in perenne conflitto tra loro. Il 28 giugno 2018, l’Imo inseriva nei suoi data base la autoproclamata zona Sar libica comunicata dal governo di Tripoli che neppure riusciva a controllare il territorio dell’intera città, ma che veniva incontro alle richieste del governo italiano, dopo che una prima richiesta rivolta dai libici all’Imo nel dicembre del 2017 era stata ritirata per la evidente mancanza dei requisiti richiesti a livello internazionale per il riconoscimento di una zona Sar.

Se fino al 28 giugno 2018 era almeno chiaro che le responsabilità di coordinamento nella Sar libica, ancora allo stato di progetto, spettavano alla Centrale operativa della Guardia costiera italiana, le responsabilità di coordinamento nella cosiddetta Sar libica, a partire da quella data, con la notifica di una zona Sar «libica» da parte del governo di Tripoli all’Imo a Londra è venuta meno qualsiasi certezza sulle responsabilità di coordinamento dei soccorsi e dunque di individuazione del punto di sbarco.

Non si è riusciti neppure a risolvere il problema ricorrente della sovrapposizione tra la zona Sar maltese e quella italiana, a sud di Lampedusa e Malta, già occasione di conflitti di competenze, che avevano portato a tragedie con centinaia di morti, come in occasione della «strage dei bambini» dell’11 ottobre 2013.

A seguito di intercettazione o salvataggio di persone in mare, la Guardia costiera libica le consegna alle autorità della Direzione per combattere la migrazione illegale, che le trasferisce direttamente ai centri di detenzione gestiti dal governo dove sono detenute per periodi indefiniti. Il 5 marzo 2019 l’Oim ha condannato le violenze avvenute nel centro di detenzione libico di Trig Al Sikka, dove alcuni migranti sarebbero stati «puniti» per aver tentato la fuga dallo stesso centro «governativo», richiedendo di poter incontrare quanto prima le persone vittime dell’episodio.

Per le Nazioni unite, e dunque per qualunque governo del mondo, «la Libia non può essere considerata un luogo sicuro di sbarco». Anche se nei punti di sbarco compaiono le pettorine azzurre dell’Unhcr, coloro che ancora riescono a tentare la pericolosa traversata del Mediterraneo, e che «vengono sempre più spesso intercettati o soccorsi dalla Guardia costiera libica che li riconduce in Libia», ritrovano l’inferno da dove erano fuggiti, anche nei casi di loro registrazione da parte dei funzionari delle Nazioni unite. Dopo lo sbarco e la consegna di un kit di prima accoglienza, finiscono comunque nelle mani delle milizie che controllano i centri di detenzione. In una situazione di guerra civile ormai endemica, in Libia la confusione tra milizie e trafficanti è ormai totale.

Le Nazioni unite non possono tollerare che una loro agenzia come l’Unhcr dichiari la Libia come un paese privo di porti sicuri di sbarco e poi un’altra agenzia come l’Imo continui a riconoscere una zona Sar libica che permette lo sbarco di persone che, anche se vengono consegnate al Dipartimento della polizia contro l’immigrazione, sono immediatamente esposte ad abusi di ogni genere.

L’appoggio fornito dal governo italiano alla Guardia costiera libica, che è stata dotata di mezzi e di strutture di coordinamento, è apparso sempre più orientato a eludere le disposizioni vincolanti in materia di soccorso in mare, fissate dalle Convenzioni internazionali. Il portavoce della sedicente Guardia costiera libica ha dichiarato in diverse occasioni che gli assetti militari a sua disposizione non avrebbero svolto attività di ricerca e soccorso che non siano operate da autorità libiche con i mezzi decisi da Tripoli, dunque con totale esclusione di ogni possibilità di collaborazione con le Ong o con navi di missioni europee ancora presenti nelle acque internazionali del Mediterraneo centrale. Anche per questa ragione si sono progressivamente ritirate le navi delle missioni Nauras della marina militare italiana, Themis di Frontex e Sophia di Eunavfor Med, ormai limitate solo ad alcuni assetti aerei, con attività di avvistamento. Un avvistamento che sempre più spesso non corrisponde poi a un’effettiva attività di soccorso.

Non è vero che i libici abbiano offerto disponibilità a “riprendersi” migranti soccorsi dalle ONG in acque internazionali. Le autorità italiane non possono continuare a ignorare che il loro partner libico impartisce ordini ai suoi mezzi navali, stabilendo che le tante motovedette donate generosamente dall’Italia a Tripoli non usciranno dai porti quando le attività di soccorso in acque internazionali non siano svolte da assetti libici. Una dichiarazione inaccettabile, quella dell’ammiraglio Ayoub Qassem, portavoce della Guardia costiera libica, che indebolisce i sistemi di soccorso nell’alto mare della cosiddetta Sar libica e conferma in modo inconfutabile come gli accordi tra i governi italiani e le autorità di Tripoli possano avere effetti mortali e costituiscano una grave violazione del diritto internazionale. Da una intervista rilasciata a un giornalista della trasmissione Report, andata in onda il 18 marzo 2019, un rappresentante dell’Imo dichiarava che non risultava ancora operativa una vera e propria «centrale di coordinamento libica», una circostanza che sembra destinata a essere ancora più evidente e perniciosa dopo lo scoppio delle ostilità che hanno portato la Libia in una situazione di guerra civile.

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Come ha osservato la Corte Europea dei diritti dell’Uomo nella sentenza Hirsi, “secondo il diritto internazionale in materia di tutela dei rifugiati, il criterio decisivo di cui tenere conto per stabilire la responsabilità di uno Stato non sarebbe se la persona interessata dal respingimento si trovi nel territorio dello Stato, o a bordo di una nave battente bandiera dello stesso, bensì se essa sia sottoposta al controllo effettivo e all’autorità di esso”.

La giurisprudenza della Corte europea rivela casi di esercizio extraterritoriale della competenza da parte di uno Stato nelle cause riguardanti azioni compiute all’estero da agenti diplomatici o consolari, o a bordo di aeromobili immatricolati nello Stato in questione o di navi battenti la bandiera di detto Stato. In queste situazioni, basandosi sul diritto internazionale consuetudinario e su disposizioni convenzionali, la Corte ha riconosciuto l’esercizio extraterritoriale della giurisdizione da parte dello Stato interessato (casi Banković, e Medvedyev ed altri).

Afferma ancora la Corte di Strasburgo nella sentenza Hirsi: “Dotato di questo contenuto e di questa estensione, il divieto di respingimento costituisce un principio di diritto internazionale consuetudinario che vincola tutti gli Stati, compresi quelli che non sono parti alla Convenzione delle Nazioni Unite relativa allo status dei rifugiati o a qualsiasi altro trattato di protezione dei rifugiati. È inoltre una norma di jus cogens: non subisce alcuna deroga ed è imperativa, in quanto non può essere oggetto di alcuna riserva” (articolo 53 della Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati, articolo 42 § 1 della Convenzione sullo status dei rifugiati e articolo VII§1 del Protocollo del 1967).

Il coordinamento operativo, documentato da atti giudiziari e report internazionali, tra la Guardia costiera italiana, nel suo Comando centrale (IMRCC), la Marina militare, con una nostra nave presente nel porto di Tripoli, e la sedicente Guardia costiera “libica” potrebbe configurare un vero e proprio respingimento collettivo attuato anche direttamente con il coordinamento operativo garantito dall’Italia, un respingimento vietato dall’art.4 del Quarto Protocollo allegato alla CEDU. Se infatti per la configurazione di un respingimento collettivo, in base a quanto affermato dalla Giurisprudenza della Corte di Strasburgo, occorre che i migranti siano soggetti alla potestà esclusiva del paese che respinge, in questo caso l’Italia, la circostanza che le persone siano a bordo di imbarcazioni coinvolte in attività SAR inizialmente segnalate ad autorità italiane, le sottopone alla piena giurisdizione dell’Italia, che deve quindi garantire un luogo di sbarco nel Place of Safety più vicino, e non nel porto più vicino. È dunque l’Italia che deve garantire il rispetto del principio di non refoulement (respingimento) affermato dalla Convenzione di Ginevra (art.33) e del divieto di respingimenti collettivi, oltre che il divieto di trattamenti inumani o degradanti, pure sanciti dalla CEDU.

Quando le autorità italiane sollecitano la responsabilità SAR “libica”, con riferimento alle persone che, trovandosi a bordo di gommoni in acque internazionali, sono state segnalate per prima alle autorità italiane, e dunque ricadono già sotto la giurisdizione italiana, indipendentemente dallo stato di bandiera dei mezzi civili o militari che vengono soccorsi nel soccorso, realizzano tutti gli estremi di una consegna (rendition) di quelle stesse persone alle autorità di un paese che non garantisce un luogo di sbarco sicuro, che non aderisce alla Convenzione di Ginevra sui rifugiati, nel quale sono note le collusioni tra autorità statali e trafficanti, e che da ultimo si trova in una fase di conflitto armato e di gravi violazione dei diritti umani anche ai danni della popolazione libica.

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Il principio di non respingimento sancito dall’art. 33 della Convenzione di Ginevra sui rifugiati del 1951, integrato dall’art.3 della Convenzione ONU contro la tortura, quindi richiamato dai Regolamenti europei n.656/2014 e 1624/2016, impedisce di respingere una persona verso uno Stato dove la sua vita sarebbe in pericolo o dove essa rischi di essere sottoposta a tortura o altro trattamento inumano o degradante. Questo divieto, a partire dal caso Hirsi, è stato interpretato dalla Corte europea dei diritti umani come applicabile anche ai casi di respingimento in alto mare. È quindi evidente come respingere una nave con persone soccorse verso un territorio dove queste persone potrebbero subire una violazione di diritti fondamentali costituisce un atto illecito.

Il principio di non respingimento è stato ribadito nel rapporto “Rescue at Sea: A Guide to Principles and Practice as Applied to Migrants and Refugees”, elaborato dall’IMO e dall’UNHCR e sottoposto ad aggiornamento nel 2015. In tale documento viene evidenziato l’obbligo che incombe al comandante della nave che compie l’intervento di soccorso di tutelare adeguatamente i richiedenti asilo, verificando la loro presenza a bordo, comunicandola all’UNCHR ed effettuando lo sbarco unicamente laddove sia possibile garantire loro adeguata protezione (place of safety).

Il Regolamento di Frontex n. 656/2014 definisce il Place of Safety come il «… luogo in cui si ritiene che le operazioni di soccorso debbano concludersi e in cui la sicurezza per la vita dei sopravvissuti non è minacciata, dove possono essere soddisfatte le necessità umane di base e possono essere definite le modalità di trasporto dei sopravvissuti verso la destinazione successiva o finale tenendo conto della protezione dei loro diritti fondamentali nel rispetto del principio di non respingimento…».

Va ricordato anche l’articolo 19 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (Protezione in caso di allontanamento, di espulsione e di estradizione), secondo cui “Le espulsioni collettive sono vietate” e “Nessuno può essere allontanato, espulso o estradato verso uno Stato in cui esiste un rischio serio di essere sottoposto alla pena di morte, alla tortura o ad altre pene o trattamenti inumani o degradanti.»

In base all’articolo 4 del Quarto Protocollo allegato alla Convenzione Europea a salvaguardia dei diritti dell’Uomo, le espulsioni collettive, e secondo la giurisprudenza della Corte europea di Strasburgo, anche i respingimenti collettivi in acque internazionali (caso Hirsi), sono vietati.

La collaborazione con il JRCC (Centrale di coordinamento “congiunto”) libico, ammesso che esista e non sia di fatto partecipato dalla missione italiana Nauras presente a Tripoli, contraddice le norme internazionali in materia di diritti umani e diritto dei rifugiati soprattutto quando il JRCC libico richieda ad una ONG di sbarcare le persone soccorse nei porti libici. Nel caso Hirsi Jamaa c. Italia, la Corte europea dei diritti umani ha considerato che il respingimento di migranti verso la Libia costituiva una doppia violazione del divieto di refoulement da parte dell’Italia.

In primo luogo luogo, perché i migranti, come confermato dai rapporti ONU, corrono il pericolo di essere sottoposti a tortura e trattamenti inumani e degradanti in Libia; in secondo luogo, perché, una volta consegnati i migranti alle autorità libiche, queste potrebbero respingere i migranti stessi verso i loro Stati di origine, dove potrebbero nuovamente essere sottoposti a tortura, trattamenti inumani e degradanti e persecuzioni, in violazione alle norme sulla tutela dei diritti umani e dei diritti dei rifugiati. Con le Direttive ministeriali notificate alle ONG di cooperare con il MRCC libico, l’Italia impone alle stesse ONG di adottare comportamenti che violano le norme internazionali sui diritti umani e sui rifugiati cui essa stessa è vincolata, per effetto delle Convenzioni internazionali che ha sottoscritto e dei Regolamenti europei che hanno forza cogente anche rispetto ad atti aventi forza di legge adottati dal legislatore interno, come il recente Decreto sicurezza bis.

La cooperazione, infatti, non può in alcun modo essere imposta, allorché conduca al respingimento di migranti irregolari verso il territorio di Stati dove questi potrebbero subire torture, trattamenti inumani o degradanti, o altre violazioni dei loro diritti fondamentali. Questo principio è stato affermato con forza dalla Corte europea dei diritti umani nel caso Hirsi Jamaa. In quel caso, infatti, l’Italia aveva addotto a giustificazione del fatto che avesse condotto i migranti intercettati in Libia, il fatto che essa aveva degli obblighi di cooperazione con la Libia discendenti da Trattati bilaterali. A fronte di tale argomentazione, la Corte di Strasburgo ha affermato che «l’Italia non può liberarsi della sua responsabilità invocando gli obblighi derivanti dagli accordi bilaterali con la Libia. Infatti, anche ammesso che tali accordi prevedessero espressamente il respingimento in Libia dei migranti intercettati in alto mare, gli Stati membri rimangono responsabili anche quando, successivamente all’entrata in vigore della Convenzione e dei suoi Protocolli nei loro confronti, essi abbiano assunto impegni derivanti da Trattati».

A maggio scorso un duro documento di denuncia delCommissariato dell’Onu per i diritti umani ha accusato l’Italia di gravi violazioni del diritto internazionale e del diritto umanitario. Come al solito provocatoria la reazione italiana.

Per il ministro dell’interno e leader della Lega, l’Onu “fa ridere, è da scherzi a parte”. secondo l’ONU, invece, “Il diritto alla vita e il principio di non respingimento dovrebbero sempre prevalere sulla legislazione nazionale e su altre misure presumibilmente adottate in nome della sicurezza nazionale”. L’ONU ha sollecitato “le autorità a smettere di mettere in pericolo le vite dei migranti, compresi i richiedenti asilo e le vittime di traffico di esseri umani, in nome della lotta contro i trafficanti – continuano – Si tratta di un approccio fuorviante, non in linea né con il diritto internazionale generale né con la legislazione internazionale sui diritti umani.

Amnesty International ha definito deplorevole la risposta in tono di sfida di Salvini all’Alto Commissario per i diritti umani delle Nazioni Unite. Una risposta evasiva come e’ stata evasiva la reazione del governo italiano alle critiche che da mesi altre agenzie delle Nazioni Unite come Unhcr ed Oim rivolgono alla politica dei “porti chiusi”. Prima si sono ordinati respingimenti collettivi, vietati dalle Convenzioni internazionali. Adesso il ministro dell’interno è costretto ad ammettere che la Libia non è “un paese sicuro”. Come ha confermato da ultimo l’OIM. Le balle di Salvini sulla riduzione delle vittime in mare sono smentite dall’OIM e dall’UNHCR. Per questo si vuole adesso ricorrere ad un decreto legge, per dare copertura a prassi ancora prive di basi legali.

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Il testo del Regolamento (UE) n. 656/2014, che sostituisce nonché statuisce la cessazione degli effetti della decisione 2010/252/UE (in merito v. A. Del Guercio, Controllo delle frontiere marittime nel rispetto dei diritti umani: prime osservazioni sulla decisione che integra il codice delle frontiere Schengen, in Diritti umani e dir. int., 2011, p. 193 ss.) annullata dalla Corte di giustizia dell’Unione europea con la sentenza del 5 settembre 2012 (v. specificamente la causa C-355/10), contiene diverse disposizioni che regolano i molteplici aspetti riguardanti la sicurezza in mare (art. 3), la protezione dei diritti fondamentali e principio di non respingimento (art. 4), la localizzazione (art. 5), l’intercettazione nelle acque territoriali, in alto mare, nella zona contigua (rispettivamente: artt. 6-7-8), le situazioni di ricerca e soccorso (art. 9), lo sbarco (art. 10), i meccanismi di solidarietà (art. 12).

La considerazione del Regolamento europeo, e di altre norme dell’Unione dotate della stessa valenza normativa diretta, è importante perché si tratta di una fonte normativa chiaramente sovra-ordinata rispetto all’ordinamento nazionale che richiama le Convenzioni internazionali di diritto del mare e la Convenzione di Ginevra, come limite estremo di tutela dei diritti fondamentali della persona che le autorità statali ed europee non possono violare. Si stabilisce così un chiaro ordine gerarchico tra le fonti del diritto applicabile nei singoli casi, che le autorità nazionali, militari, civili e giudiziarie devono rispettare, anche al di fuori della sfera di attività, ormai alquanto limitata, delle operazioni Frontex..

Riportiamo qui alcuni “Considerando” del Regolamento UE n.656 del 2014, che come è noto hanno efficacia vincolante diretta anche sul piano dell’ordinamento interno dei paesi membri. Si tratta di norme che anche i giudici nazionali devono rispettare come diritto cogente. Il contenuto del considerando n. 3 precisa l’ambito di applicazione del regolamento, ossia «le operazioni di sorveglianza di frontiera condotte dagli Stati membri alle loro frontiere marittime esterne» coordinate naturalmente dall’Agenzia FRONTEX istituita all’epoca dal Regolamento (CE) n. 2007/2004 (più volte modificato) che svolge proprio significativi compiti di assistenza, supporto, organizzazione, analisi, nel contesto dei diversi e delicati aspetti concernenti la gestione integrata delle frontiere esterne (peraltro, l’atto in esame prevede, quale base giuridica, particolarmente l’art. 77, par. 2, lett. d del TFUE relativo alle misure necessarie per istituire gradualmente un sistema integrato di gestione delle frontiere esterne).

Va anche aggiunto quanto prevede l’articolo 4 dello stesso Regolamento UE n.656 del 2014:

Articolo 4 (Regolamento UE n.656 del 2014) Protezione dei diritti fondamentali e principio di non respingimento

1. Nessuno può, in violazione del principio di non respingimento, essere sbarcato, costretto a entrare, condotto o altrimenti consegnato alle autorità di un paese in cui esista, tra l’altro, un rischio grave di essere sottoposto alla pena di morte, alla tortura, alla persecuzione o ad altre pene o trattamenti inumani o degradanti, o in cui la vita o la libertà dell’interessato sarebbero minacciate a causa della razza, della religione, della cittadinanza, dell’orientamento sessuale, dell’appartenenza a un particolare gruppo sociale o delle opinioni politiche dell’interessato stesso, o nel quale sussista un reale rischio di espulsione, rimpatrio o estradizione verso un altro paese in violazione del principio di non respingimento.

2. In sede di esame della possibilità di uno sbarco in un paese terzo nell’ambito della pianificazione di un’operazione marittima, lo Stato membro ospitante, in coordinamento con gli Stati membri partecipanti e l’Agenzia, tiene conto della situazione generale di tale paese terzo

3. Durante un’operazione marittima, prima che le persone intercettate o soccorse siano sbarcate, costrette a entrare, condotte o altrimenti consegnate alle autorità di un paese terzo e tenuto conto della valutazione della situazione generale di tale paese terzo ai sensi del paragrafo 2, le unità partecipanti utilizzano, fatto salvo l’articolo 3, tutti i mezzi per identificare le persone intercettate o soccorse, valutare la loro situazione personale, informarle della loro destinazione in un modo per loro comprensibile o che si possa ragionevolmente supporre sia per loro comprensibile e dar loro l’opportunità di esprimere le eventuali ragioni per cui ritengono che uno sbarco nel luogo proposto violerebbe il principio di non respingimento.

4. Nel corso di un’operazione marittima le unità partecipanti rispondono alle particolari esigenze dei minori, compresi i minori non accompagnati, delle vittime della tratta di essere umani, di quanti necessitano di assistenza medica urgente, delle persone con disabilità, di quanti necessitano di protezione internazionale e di quanti si trovano in situazione di particolare vulnerabilità.

Infine l’articolo 9 prevede le regole di comportamento da rispettare nel caso di situazioni di ricerca e soccorso gestite da assetti Frontex (che comprendono anche navi della Marina militare italiana)

1. Gli Stati membri osservano l’obbligo di prestare assistenza a qualunque natante o persona in pericolo in mare e durante un’operazione marittima assicurano che le rispettive unità partecipanti si attengano a tale obbligo, conformemente al diritto internazionale e nel rispetto dei diritti fondamentali, indipendentemente dalla cittadinanza o dalla situazione giuridica dell’interessato o dalle circostanze in cui si trova.

2. L’applicazione del presente regolamento non incide sulla ripartizione delle competenze tra l’Unione e gli Stati membri, a norma dei trattati, né sugli obblighi degli Stati membri sanciti da convenzioni internazionali, quali la Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare, la Convenzione internazionale per la salvaguardia della vita umana in mare, la convenzione internazionale sulla ricerca e il salvataggio marittimo, la Convenzione internazionale per la prevenzione dell’inquinamento causato da navi, la Convenzione sulle norme relative alla formazione della gente di mare, al rilascio dei brevetti e alla guardia e altri pertinenti strumenti marittimi internazionali.

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Secondo l’ultima formulazione del decreto sicurezza bis,

1. All’articolo 11 del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, dopo il comma 1-bis è inserito il seguente:

“1-ter. Il Ministro dell’interno, Autorità nazionale di pubblica sicurezza ai sensi dell’articolo 1 della legge 1° aprile 1981, n. 121, può limitare o vietare l’ingresso, il transito o la sosta di navi nel mare territoriale, salvo che si tratti di naviglio militare o di navi in servizio governativo non commerciale, per motivi di ordine e sicurezza pubblica ovvero quando si concretizzano le condizioni di cui all’articolo 19, comma 2, lettera g), limitatamente alle violazioni delle leggi di immigrazione vigenti, della Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del Mare, con allegati e atto finale, fatta a Montego Bay il 10 dicembre 1982, ratificata dalla legge 2 dicembre 1994, n. 689. Dei provvedimenti adottati sono informati il Ministro delle infrastrutture e dei trasporti e il Ministro della difesa”.

In base alla versione finale del decreto sicurezza, all’articolo 2 (Inottemperanza a limitazioni o divieti in materia di ordine, sicurezza pubblica e immigrazione) si prevede che:

1. All’articolo 12 del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, dopo il comma 6 è inserito il seguente:

“6-bis. Salvo che si tratti di naviglio militare o di navi in servizio governativo non commerciale, il comandante della nave è tenuto ad osservare la normativa internazionale e i divieti e le limitazioni eventualmente disposti ai sensi dell’articolo 11, comma 1-ter. In caso di violazione del divieto di ingresso, transito o sosta in acque territoriali italiane, notificato al comandante e, ove possibile, all’armatore e al proprietario della nave, si applica a ciascuno di essi la sanzione amministrativa del pagamento di una somma da euro 10,000 a euro 50,000. Si applica altresì la sanzione accessoria della confisca della nave, procedendo immediatamente a sequestro cautelare. All’irrogazione delle sanzioni, accertate dagli organi addetti al controllo, provvede il prefetto territorialmente competente. Si osservano le disposizioni di cui alla legge 24 novembre 1981, n. 689.”.

La formulazione del decreto ormai entrato in vigore, fatta salva la conversione in legge del Parlamento entro 60 giorni, contiene ancora un parziale richiamo ad una singola norma di una Convenzione internazionale ( art. 19 comma 2 della Convenzione UNCLOS) che non può essere utilizzata in modo isolato, al limite della strumentalizzazione, perché verrebbe a stravolgere il fondamentale principio (art. 98 UNCLOS) che obbliga gli stati a prestare attività di assistenza e di coordinamento a qualsiasi imbarcazione in mare che abbia operato attività di ricerca e salvataggio, a prescindere dal tipo di imbarcazione, dalla bandiera che batte, dallo stato giuridico dei naufraghi e dalla natura civile o militare dei mezzi navali che hanno partecipato alle operazione di soccorso.

In base all’art. 19 comma 2 della Convenzione Unclos “il passaggio di una nave nelle acque territoriali di uno Stato” è permesso “fintanto che non arreca pregiudizio alla pace, al buon ordine e alla sicurezza dello Stato costiero”. La disposizione contenuta nel decreto sicurezza bis avrebbe natura “meramente esemplificativa”, ma la lettera g) del comma 2 precisa che tra le attività che potrebbero portare a considerare il passaggio non inoffensivo c’è anche “il carico o lo scarico di materiali, valuta o persone in violazione delle leggi e dei regolamenti doganali, fiscali, sanitari o di immigrazione vigenti nello Stato costiero”.

Per gli estensori del decreto legge e per il ministro dell’interno che se ne dichiara autore, evidentemente, lo sbarco in un “porto sicuro” dei naufraghi soccorsi in acque internazionali, come sarebbe imposto nei tempi più solleciti dal diritto, oltre che da un minimo senso di umanità, diventa un atto illecito, riconducibile alla fattispecie penale dell’agevolazione preordinata dell’ingresso di immigrati irregolari. Un totale capovolgimento del rapporto tra realtà ed assetto normativo, che può consentire certo un qualche guadagno elettorale, ma che pone l’operato del governo italiano al di fuori dei limiti imposti dal diritto internazionale e dal diritto umanitario, oltre che in evidente contrasto con i principi di solidarietà affermati dagli articoli 2, 3 e 10 della Costituzione italiana. Quasi un capovolgimento della presunzione di innocenza, come se tutte le attività di soccorso operate dalle ONG in acque internazionali potessero ritenersi automaticamente illecite, e finalizzate alla commissione del reato di agevolazione dell’ingresso di “clandestini”.

9

Il ricorso al divieto di ingresso nelle acque territoriali, affermato solo nei confronti delle navi umanitarie appartenenti alle ONG, in base al richiamo surrettizio all’art. 19 della Convenzione UNCLOS permette la legittimazione di misure di respingimento collettivo che sono vietate dalle Convenzioni internazionali, ed appare potenzialmente lesivo della effettivo riconoscimento del diritto di asilo, garantito dall’art. 10 della Costituzione in misura più ampia di quanto previsto dalla Convenzione di Ginevra sui rifugiati e dalle Direttive in materia di protezione internazionale adottate dall’Unione Europea. In questo senso il decreto legge sicurezza bis continua a mantenere, anche nella sua versione finale, gravi profili di incostituzionalità, laddove si prevede che il ministero dell’interno possa impedire e sanzionare l’ingresso nelle acque territoriali, e dunque in un porto sicuro in Italia, di imbarcazioni private che abbiano svolto operazioni SAR (di ricerca e salvataggio) in acque internazionali. Qualora il decreto venga approvato dal Consiglio dei ministri rimangono questioni di costituzionalità che il Presidente della Repubblica non potrà ignorare. Si assiste soprattutto ad un ennesimo tentativo di svuotamento della portata effettiva degli articoli 10 e 117 della Costituzione. Si vorrebbe assimilare il soccorso in mare al trasporto di “clandestini”.

Secondo l’UNHCR: In mare non è possibile una valutazione formale dello status di rifugiato o di richiedente asilo (in virtù del Protocollo di Palermo del 2000 contro la tratta di migranti; Reg. EU 2014/656 per le operazioni Frontex; d.lgs 286/’98 – T.U. immigrazione e discendente DM 14 luglio 2003; ecc.). Tutte le imbarcazioni coinvolte in operazioni SAR hanno come priorità il soccorso e il trasporto in un “luogo sicuro” dei migranti raccolti in mare e le azioni di soccorso prescindono dallo status giuridico delle persone. Il rifiuto, aprioristico e indistinto, di un governo, peggio di un singolo ministro, di far approdare la nave in porto comporta l’impossibilità di valutare le singole situazioni delle persone a bordo, e viola il divieto di espulsioni collettive previsto dall’art. 4 del Protocollo n. 4 alla CEDU. L’invito a rivolgere la prua verso un altro stato (ad esempio Malta o la Tunisia) rivolto ad una nave che ha effettuato un soccorso e che si trova all’interno della zona contigua alle acque territoriali di un paese, per quanto osservato in precedenza, viola il diritto internazionale. Si deve quindi consentire lo sbarco a terra, ferma restando, ove ne ricorrano i presupposti, la potestà sovrana dello stato di eseguire, nel rispetto delle Convenzioni internazionali misure di respingimento e di espulsione. Non lo impongono le ONG, ma le norme che anche il ministro dell’interno deve rispettare.

Se è vero che, in base alla Convenzione UNCLOS lo stato può comunque impedire l’ingresso nei propri porti ad una nave sospettata di trasportare migranti irregolari, è altrettanto da considerare che se uno Stato respinge una imbarcazione carica di naufraghi soccorsi in acque internazionali, senza controllare se a bordo vi siano dei richiedenti asilo o soggetti non respingibili, o altrimenti inespellibili , come donne abusate e/o in stato di gravidanza e minori, e senza esaminare se essi possiedano i requisiti per il riconoscimento dello status di rifugiato, commette una grave violazione del principio di non respingimento sancito dall’art. 33 par. 1 della Convenzione del 1951 se i territori (Stati terzi o alto mare) verso cui la nave è respinta non offrono garanzie sufficienti per l’incolumità dei migranti o per il riconoscimento dei loro diritti fondamentali. Respingere una nave che ha effettuato un soccorso (SAR) verso l’alto mare, con la certezza che nessuno dei paesi confinanti (come aree SAR) provvederà al soccorso tempestivo dei naufraghi, corrisponde ad una grave lesione del diritto internazionale, oltre che ad un atto disumano, che nessuna norma di legge potrà mai ratificare. E se questa norma fosse mai approvata potrebbe essere censurata dalla Corte Costituzionale e dai tribunali internazionali. Per non parlare della possibile configurazione di reati diversi, dall’omissione di soccorso fino alla vasta gamma di reati configurabili nel caso siano presenti tra i naufraghi “respinti” minori non accompagnati.

L’articolo 10 del Testo Unico sull’immigrazione 256/98 prevede ancora espressamente la possibilità di applicare il respingimento differito (comma 2) alle persone straniere che sono state “temporaneamente ammesse nel territorio per necessità di pubblico soccorso”. Ma anche nei casi di respingimento differito ci sono precisi limiti alla discrezionalità amministrativa, come ricorda la Corte Costituzionale.

Il principio di non refoulement implica “no rejection at frontiers without access to fair and effective procedures for determining status and protection needs”. In altre parole, è possibile individuare un “contenuto minimo” di natura procedurale del diritto d’asilo, che “prima ancora di imporre in capo agli Stati precisi obblighi materiali di tipo positivo in ordine alla concessione del beneficio, non consente loro comportamenti che possano costituire una limitazione della libertà di accesso alle procedure, a meno di non svuotare di significato la partecipazione alla Convenzione di Ginevra sui rifugiati”. Come ha ribadito l’UNHCR nel suo Paper sulle intercettazioni in mare ciò dovrebbe comportare in linea generale che la persona intercettata in prossimità della zona contigua alle acque territoriali abbia accesso alle procedure nello Stato che ha effettuato l’intercettazione, poiché questo di solito consente sia l’accesso alle strutture di accoglienza, sia eque ed efficienti procedure d’asilo, nel rispetto degli standards garantiti dal diritto internazionale.

Una singola previsione derogatoria di un principio generale (che afferma il diritto alla libera navigazione) all’interno di una Convenzione internazionale (art. 19 comma 2 della Convenzione UNCLOS) non può essere utilizzata in modo isolato. In base ad un esercizio di discrezionalità politica o amministrativa ( attuata con atti di indirizzo e direttive ministeriali), si verrebbe a stravolgere il fondamentale principio del Diritto internazionale del mare (art. 98 UNCLOS) che obbliga gli stati a prestare immediata attività di assistenza  e di coordinamento a qualsiasi imbarcazione in mare che abbia operato attività di ricerca e salvataggio, a prescindere dal tipo di imbarcazione, dalla bandiera che batte, dallo stato giuridico dei naufraghi e dalla natura civile o militare dei mezzi navali che hanno partecipato alle operazione di soccorso. Soprattutto nei casi nei quali le autorità che sarebbero responsabili di una determinata zona SAR non sono nelle condizioni di intervenire, o decidono espressamente di non portare a compimento operazioni di ricerca e salvataggio (come avviene nel caso delle autorità libiche che si rifiutano sistematicamente di prendere in carico eventi SAR dopo che ci sia già stata una nave di una ONG che sia intervenuta dopo avere notiziato tutte le autorità SAR titolari delle zone limitrofe).

10

Qualora si negasse l’ingresso nelle acque territoriali italiane, ad una nave che ha operato una attività SAR in acque internazionali e chiede lo sbarco dei naufraghi in un porto sicuro, con una attività di imperio affidata ad un corpo militare dello stato italiano, si realizzerebbe dunque un caso di respingimento collettivo in frontiera. In questo caso verrebbe violato il diritto di chiedere asilo, riconosciuto come diritto fondamentale della persona , dall’art. 10 della Costituzione italiana, dalle Direttive e dai Regolamenti dell’Unione Europea e dalla Convenzione di Ginevra, che vieta espressamente di attribuire rilievo penale all’ingresso di richiedenti asilo nel territorio dello stato ( e lo stesso vale per tutte le persone che non sono comunque soggette ad espulsione o respingimento come vittime di violenza, minori, donne con prole o vittime di abusi). Dunque, dopo le azioni di soccorso in acque internazionali non esistono clandestini da trasportare, ma naufraghi da sbarcare in un porto sicuro.

Quando il soccorso sia stato operato per ragioni di urgenza, al prevalente scopo di salvaguardare la vita umana, nell’area di responsabilità corrispondente alla cd. “zona SAR libica”, qualora l’imbarcazione che ha effettuato il soccorso abbia raggiunto la zona contigua alle acque territoriali italiane (24 miglia dalla costa) , o vi abbia fatto addirittura ingresso, come si è verificato nei recenti casi della Mare Jonio  e della Sea Watch 3, non si può addurre l’argomento tratto dalla nozione astratta di “passaggio ( non) inoffensivo. Che lo stato potrebbe negare, esercitando i suoi poteri di sovranità e di controllo delle frontiere, per giustificare quello che di fatto, in assenza di provvedimenti individuali, assumerebbe tutte le caratteristiche di un respingimento collettivo vietato dalle Convenzioni internazionali.

Anche arrivando a ritenere ammissibile il diritto dello stato a negare l’accesso nei porti per ragioni di sicurezza nazionale, nell’ambito delle diverse previsioni stabilite dall’art. 19 comma 2 della Convenzione di Montego Bay (UNCLOS), tale diritto può essere concretamente esercitato solo a condizione che siano adottate misure di respingimento individuale nei confronti delle persone che si trovano a bordo delle navi alle quali si inibisce l’ingresso nelle acque territoriali o in porto. Nello stesso senso anche il Regolamento europeo sulle frontiere Schengen vieta i respingimenti collettivi ed esige la registrazione individuale dei respingimenti alle frontiere esterne. Se il legislatore italiano dovesse emanare disposizioni in contrasto con la normativa imposta con effetto cogente dal Regolamento frontiere Schengen, oltre che dall’art. 19 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea (divieto di respingimenti collettivi), si potrebbe adire la Corte di Giustizia dell’Unione europea per l’apertura di una procedura di infrazione nei confronti dell’Italia.

Come ha affermato la Corte europea dei diritti dell’Uomo nella sentenza Hirsi, «secondo il diritto internazionale in materia di tutela dei rifugiati, il criterio decisivo di cui tenere conto per stabilire la responsabilità di uno Stato non sarebbe se la persona interessata dal respingimento si trovi nel territorio dello Stato, o a bordo di una nave battente bandiera dello stesso, bensì se essa sia sottoposta al controllo effettivo e all’autorità di esso». Per la Corte, dotato di questo contenuto e di questa estensione, il divieto di respingimento costituisce un principio di diritto internazionale consuetudinario che vincola tutti gli Stati, compresi quelli che non sono parti alla Convenzione delle Nazioni Unite relativa allo status dei rifugiati o a qualsiasi altro trattato di protezione dei rifugiati. È inoltre una norma di jus cogens: non subisce alcuna deroga ed è imperativa, in quanto non può essere oggetto di alcuna riserva» (articolo 53 della Convenzione di Vienna sul diritto dei Trattati, articolo 42 § 1 della Convenzione sullo status dei rifugiati e articolo VII§1 del Protocollo del 1967).

Risulta evidente come tutti le misure di polizia e le prassi operative di respingimento adottate nei confronti delle persone soccorse in acque internazionali e fermate in prossimità dell’ingresso nelle acque territoriali italiane, o nella zona contigua ( 24 miglia dalla costa) dovrebbero comportare provvedimenti individuali che andrebbero notificati direttamente alle medesime persone a bordo delle navi.

Gli stessi provvedimenti di respingimento, sempre che si ammetta che siano adottabili nei confronti di persone soccorse in acque internazionali, che dunque avrebbero comunque diritto di ingresso per ragione di soccorso nel territorio dello stato, a mente dell’art. 10 del T.U. n.286/98, non possano applicarsi nei confronti di persone per le quali operino le cause di inespellibilità o di non respingimento stabilite dalle Convenzioni internazionali ( ad esempio l’art. 33 della Convenzione di Ginevra sui rifugiati) o dal diritto interno ( ad esempio dall’art. 19 del Testo Unico 286/98 sull’immigrazione, per non parlare dell’art. 10 comma 3 della Costituzione italiana). Sotto questo punto di vista non assume alcun rilievo la bandiera di nazionalità che batte la nave soccorritrice, e appare privo di qualsiasi base legale il potere che si vorrebbe arrogare il ministero dell’interno, di disporre divieti di ingresso nelle acque territoriali in base all’art. 19 comma 2 della Convenzione UNCLOS.

Di certo appare evidente che, a prescindere dallo stato di bandiera, quando una nave carica di persone soccorse in acque internazionali si trovi al limite o all’interno della cd. “zona contigua” alle acque territoriali, ricade sotto la giurisdizione dello stato, sia per l’adozione delle misure di carattere penale ed amministrativo, sia in modo corrispondente per quanto riguarda gli obblighi di sbarco e di assistenza dei naufraghi, con particolare riferimento ai minori ed ai soggetti più vulnerabili. Obblighi di assistenza che non potranno essere assolti con lo sbarco imposto dalle autorità mediche di persone in stato di emergenza sanitaria, o inviando soltanto scorte di vestiario e rifornimenti di viveri o provvedendo alle esigenze sanitarie più urgenti, senza trovare una soluzione di sbarco che non comporti il rinvio dei naufraghi ormai sottoposti alla giurisdizione italiana ed europea verso paesi che non garantiscono porti sicuri di sbarco ed il rispetto effettivo dei diritti fondamentali della persona.

ULTIMA BOZZA MODIFICATA DEL DECRETO LEGGE SICUREZZA BIS

DECRETO-LEGGE RECANTE DISPOSIZIONI URGENTI IN MATERIA DI ORDINE E SICUREZZA PUBBLICA

IL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA

VISTI gli articoli 77 e 87 della Costituzione;

VISTA la legge 23 agosto 1988, n. 400, recante disciplina dell’attività di governo e ordinamento della Presidenza del Consiglio dei ministri;

RITENUTA la straordinaria necessità e urgenza di prevedere misure volte a contrastare prassi elusive della normativa internazionale e delle disposizioni in materia di ordine e sicurezza pubblica, attribuite dall’ordinamento vigente al Ministro dell’interno quale Autorità nazionale di pubblica sicurezza;

RITENUTE, altresì le particolari e straordinarie necessità ed urgenza di rafforzare il coordinamento investigativo in materia di reati connessi all’immigrazione clandestina, implementando, altresì, gli strumenti di contrasto a tale fenomeno;

CONSIDERATA la straordinaria necessità e urgenza di garantire più efficaci livelli di tutela della sicurezza pubblica, definendo anche interventi per l’eliminazione dell’arretrato relativo all’esecuzione dei provvedimenti di condanna penale divenuti definitivi;

CONSIDERATA, inoltre, la straordinaria necessità ed urgenza di rafforzare le norme a garanzia del regolare e pacifico svolgimento di manifestazioni in luogo pubblico e aperto al pubblico;

RAVVISATA la straordinaria necessità ed urgenza di assicurare i livelli di sicurezza necessari per lo svolgimento delle Universiadi 2019 nonché di integrare la disciplina volta a semplificare gli adempimenti nei casi di soggiorni di breve durata, la cui straordinaria urgenza è connessa all’imminente svolgimento delle Universiadi 2019;

RAVVISATA, altresì, la straordinaria necessità ed urgenza di potenziare l’efficacia delle disposizioni in tema di rimpatri;

CONSIDERATA, infine, la straordinaria necessità ed urgenza di rafforzare gli strumenti di contrasto dei fenomeni di violenza in occasione delle manifestazioni sportive, nel più ampio quadro delle attività di prevenzione dei rischi per l’ordine e l’incolumità pubblica;

VISTA la deliberazione del Consiglio dei ministri, adottata nella riunione del ………………….;

Sulla proposta del Presidente del Consiglio dei ministri e del Ministro dell’interno, di concerto con i Ministri degli affari esteri e della cooperazione internazionale, della giustizia, della difesa, dell’economia e delle finanze e delle infrastrutture e dei trasporti

EMANA

il seguente decreto-legge:

CAPO I DISPOSIZIONI URGENTI IN MATERIA DI CONTRASTO ALL’IMMIGRAZIONE ILLEGALE E DI ORDINE E SICUREZZA PUBBLICA

Art. 1

(Misure a tutela dell’ordine e della sicurezza pubblica e in materia di immigrazione)

1. All’articolo 11 del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, dopo il comma 1-bis è inserito il seguente:

“1-ter. Il Ministro dell’interno, Autorità nazionale di pubblica sicurezza ai sensi dell’articolo 1 della legge 1° aprile 1981, n. 121, può limitare o vietare l’ingresso, il transito o la sosta di navi nel mare territoriale, salvo che si tratti di naviglio militare o di navi in servizio governativo non commerciale, per motivi di ordine e sicurezza pubblica ovvero quando si concretizzano le condizioni di cui all’articolo 19, comma 2, lettera g), limitatamente alle violazioni delle leggi di immigrazione vigenti, della Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del Mare, con allegati e atto finale, fatta a Montego Bay il 10 dicembre 1982, ratificata dalla legge 2 dicembre 1994, n. 689. Dei provvedimenti adottati sono informati il Ministro delle infrastrutture e dei trasporti e il Ministro della difesa”. 

Art. 2

(Inottemperanza a limitazioni o divieti in materia di ordine, sicurezza pubblica e immigrazione)

1. All’articolo 12 del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, dopo il comma 6 è inserito il seguente:

“6-bis. Salvo che si tratti di naviglio militare o di navi in servizio governativo non commerciale, il comandante della nave è tenuto ad osservare la normativa internazionale e i divieti e le limitazioni eventualmente disposti ai sensi dell’articolo 11, comma 1-ter. In caso di violazione del divieto di ingresso, transito o sosta in acque territoriali italiane, notificato al comandante e, ove possibile, all’armatore e al proprietario della nave, si applica a ciascuno di essi la sanzione amministrativa del pagamento di una somma da euro 10,000 a euro 50,000. Si applica altresì la sanzione accessoria della confisca della nave, procedendo immediatamente a sequestro cautelare. All’irrogazione delle sanzioni, accertate dagli organi addetti al controllo, provvede il prefetto territorialmente competente. Si osservano le disposizioni di cui alla legge 24 novembre 1981, n. 689.”.

Art. 3

(Modifica all’articolo 51 del codice di procedura penale)

1. All’articolo 51, comma 3-bis, del codice di procedura penale, dopo le parole: “articolo 12, commi” è inserita la seguente: “ 1,”.

2. La disposizione di cui al comma 1 si applica solo ai procedimenti ivi considerati, iniziatisuccessivamente alla data di entrata in vigore del presente decreto.

Art. 4

(Potenziamento delle operazioni di polizia sotto copertura)

1. Al fine di implementare l’utilizzo dello strumento investigativo delle operazioni sotto copertura di cui all’articolo 9 della legge 16 marzo 2006, n. 146, anche con riferimento alle attività di contrasto del delitto di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, per la copertura degli oneri conseguenti al concorso di operatori di polizia di Stati con i quali siano stati stipulati appositi accordi per il loro impiego sul territorio nazionale, nello stato di previsione del Ministero dell’interno è stanziata la somma di 500.000 euro per l’anno 2019, 1.000.000 di euro per l’anno 2020 e 1.500.000 euro per l’anno 2021, mediante corrispondente utilizzo di quota parte delle entrate di cui all’articolo 18, comma 1, lettera a), della legge 23 febbraio 1999, n. 44, affluite all’entrata del bilancio dello Stato, che restano acquisite all’erario.

Art. 5

(Modifiche al regio decreto 18 giugno 1931, n. 773)

1. Al Testo unico delle leggi di pubblica sicurezza, approvato con regio decreto 18 giugno 1931, n.

773, all’articolo 109, al comma 3, dopo le parole “successive all’arrivo,” sono inserite le seguenti “e con immediatezza nel caso di soggiorni non superiori alle ventiquattr’ore,”.

Art. 6

(Modifiche alla legge 22 maggio 1975, n. 152)

1. Alla legge 22 maggio 1975, n. 152, sono apportate le seguenti modifiche: a) all’articolo 5:

1) al secondo comma, la parola “Il” è sostituita dalle seguenti: “Nei casi di cui al primo periodo del comma precedente, il”;

2) dopo il secondo comma è inserito il seguente: “Qualora il fatto è commesso in occasione delle manifestazioni previste dal primo comma, il contravventore è punito con l’arresto da due a tre anni e con l’ammenda da 2.000 a 6.000 euro.”;

b) dopo l’articolo 5 è aggiunto il seguente:

“Articolo 5-bis. Fuori dai casi di cui agli articoli 336, 337 e 338 del Codice penale, chiunque nel corso di manifestazioni in luogo pubblico o aperto al pubblico, ostacola il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio, mentre compie un atto di ufficio o di servizio, o coloro che richiesti gli prestano assistenza, utilizzando scudi o altri oggetti o materiali, anche imbrattanti o inquinanti, è punito con la reclusione da uno a tre anni.

Salvo che il fatto non costituisca più grave reato e fuori dai casi di cui agli articoli 6bis e 6-ter della legge 13 dicembre 1989, n. 401, chiunque, nel corso delle manifestazioni di cui al comma 1, lancia o utilizza illegittimamente, in modo da creare un concreto pericolo per l’incolumità delle persone o l’integrità delle cose, razzi, bengala, fuochi artificiali, petardi, strumenti per l’emissione di fumo o di gas visibile o in grado di nebulizzare gas contenenti principi attivi urticanti, ovvero bastoni, mazze, oggetti contundenti o, comunque, atti a offendere, è punito con la reclusione da uno a quattro anni.”.

Art. 7

(Modifiche al codice penale)

1. Al regio decreto 19 ottobre 1930, n. 1398 (Codice penale) sono apportate le seguenti modifiche:

a) all’articolo 131-bis dopo il comma 2 è inserito il seguente:

“2-bis. L’offesa non può essere, altresì, ritenuta di particolare tenuità, nei casi di cui agli articoli 336 e 337, quando il reato è commesso nei confronti di un pubblico ufficiale nell’esercizio delle proprie funzioni”;

b) all’articolo 339, al primo comma, dopo le parole “è commessa” sono aggiunte le seguenti:

“nel corso di manifestazioni in luogo pubblico o aperto al pubblico ovvero”;

c) all’articolo 341 bis, al primo comma, dopo le parole “fino a tre anni” sono inserite le seguenti: “e sei mesi”;

d) all’articolo 419, al comma secondo, dopo le parole “è commesso” sono aggiunte le seguenti: “nel corso di manifestazioni in luogo pubblico o aperto al pubblico ovvero”

e) all’articolo 635 sono apportate le seguenti modifiche:

1) al primo comma le parole “di manifestazioni che si svolgono in luogo pubblico o aperto al pubblico o” sono soppresse;

2) dopo il secondo comma è aggiunto il seguente: “Chiunque distrugge, disperde, deteriora o rende, in tutto o in parte, inservibili cose mobili o immobili altrui in occasione di manifestazioni che si svolgono in luogo pubblico o aperto al pubblico è punito con la reclusione da uno a cinque anni.”;

3) al quarto comma le parole “al primo e al secondo comma” sono sostituite dalle seguenti: “, di cui ai commi precedenti”.

CAPO II DISPOSIZIONI URGENTI PER IL POTENZIAMENTO DELL’EFFICACIA

DELL’AZIONE AMMINISTRATIVA A SUPPORTO DELLE POLITICHE DI SICUREZZA

ART. 8

(Misure straordinarie per l’eliminazione dell’arretrato relativo all’esecuzione delle sentenze penali di condanna definitive)

1. Al fine di dare attuazione ad un programma di interventi finalizzati ad eliminare l’arretratorelativo ai procedimenti di esecuzione delle sentenze penali di condanna, nonché di assicurare la piena efficacia dell’attività di prevenzione e repressione dei reati, il Ministero della giustizia è autorizzato ad assumere, per il biennio 2019-2020, con contratto di lavoro a tempo determinato di durata annuale, anche in sovrannumero rispetto all’attuale dotazione organica e alle assunzioni già programmate, in aggiunta alle facoltà assunzionali ordinarie e straordinarie previste a legislazione vigente, un contingente massimo di 800 unità di personale amministrativo non dirigenziale di Area I e II, per le suddette comprovate esigenze di carattere esclusivamente temporaneo o eccezionale. L’assunzione di personale di cui al periodo precedente è autorizzata, anche in deroga all’articolo 30 del decreto legislativo 30 giugno 2001, n. 165 ed ai sensi dell’articolo 36, comma 2, del medesimo decreto legislativo, con le modalità semplificate di cui all’articolo 14, comma 10-ter, del decretolegge 28 gennaio 2019, n. 4, convertito, con modificazioni, dalla legge 28 marzo 2019, n. 26, nonché mediante l’avviamento degli iscritti nelle liste di collocamento secondo le procedure previste dall’articolo 35, comma 1, lettera b), del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, nonché mediante lo scorrimento delle graduatorie vigenti alla data di entrata in vigore del presente decreto. L’amministrazione giudiziaria può indicare l’attribuzione di un punteggio aggiuntivo in favore dei soggetti che hanno maturato i titoli di preferenza di cui all’articolo 50, commi 1-quater e 1quinquies, del decreto-legge 24 giugno 2014, n. 90, convertito, con modificazioni, dalla legge 11 agosto 2014, n. 114.

2. Agli oneri derivanti dall’attuazione del disposizioni del comma 2, quantificati in euro 5.206.059 per l’anno 2019 e in euro 20.474.741 per l’anno 2020, si provvede a valere sulle risorse iscritte, rispettivamente per l’anno 2019 e per l’anno 2020, sul Fondo per il federalismo amministrativo di cui alla legge 15 marzo 1997, n. 59, dello stato di previsione del Ministero dell’interno.

ART. 9

(Proroga di termini in materia di dati personali)

1. All’articolo 49 del decreto legislativo 18 maggio 2018, n. 51, al comma 2, le parole “decorso un anno dalla data di entrata in vigore del presente decreto” sono sostituite dalle seguenti: “a decorrere dal 1 gennaio 2020”.

ART.10 

(Misure urgenti per il presidio del territorio in occasione dell’Universiade Napoli 2019)

1. Al fine di corrispondere alle esigenze di sicurezza connesse allo svolgimento dell’UniversiadeNapoli 2019, il contingente di personale delle Forze armate di cui all’articolo 1, comma 688, della legge 27 dicembre 2017, n. 205, limitatamente ai servizi di vigilanza a siti e obiettivi sensibili, è incrementato, a partire dal 20 giugno 2019 e fino al 14 luglio 2019, di ulteriori 500 unità. Si applicano le disposizioni di cui all’articolo 7-  bis , commi 1, 2 e 3, del decreto-legge 23 maggio 2008, n. 92, convertito, con modificazioni, dalla legge 24 luglio 2008, n. 125. L’impiego del predetto contingente è consentito nei limiti della spesa autorizzata ai sensi del comma 2.

2. Ai fini dell’attuazione del comma 1 è autorizzata la spesa di 1.214.141 euro per il personale di cuial comma 74 dell’articolo 24 del decreto-legge 1° luglio 2009, n. 78, convertito, con modificazioni, dalla legge 3 agosto 2009, n. 102. Ai relativi oneri si provvede a valere sulle risorse iscritte per l’anno 2019 sul Fondo per il federalismo amministrativo di cui alla legge 15 marzo 1997, n. 59, dello stato di previsione del Ministero dell’Interno.

Art. 11

(Disposizioni sui soggiorni di breve durata)

1. All’articolo 1, comma 1, della legge 28 maggio 2007, n. 68, le parole “visite, affari, turismo e studio” sono sostituite dalle seguenti: “missione, gara sportiva, visita, affari, turismo e studio”.

Art. 12

(Fondo di premialità per le politiche di rimpatrio)

1. E’ istituito, nello stato di previsione del Ministero degli affari esteri e della cooperazioneinternazionale, un fondo destinato a finanziare interventi di cooperazione mediante sostegno al bilancio generale o settoriale ovvero intese bilaterali, comunque denominate, con finalità premiali per la particolare collaborazione nel settore della riammissione di soggetti irregolari presenti sul territorio nazionale e provenienti da Stati non appartenenti all’Unione Europea.

2. La dotazione iniziale del fondo di cui al comma 1 è pari a euro 2 milioni per l’anno 2019, cui siprovvede mediante corrispondente riduzione dello stanziamento del Fondo speciale di parte corrente iscritto, ai fini del bilancio triennale 2019 – 2021, nell’ambito del programma “Fondi di riserva e speciali” della missione “Fondi da ripartire” dello stato di previsione del Ministero dell’economia e delle finanze per l’anno 2019, allo scopo parzialmente utilizzando l’accantonamento relativo al Ministero degli affari esteri e della cooperazione internazionale. La dotazione potrà essere incrementata da una quota annua non superiore a euro 50 milioni a valere sulle risorse di cui all’articolo 1, comma 767, secondo periodo, della legge 30 dicembre 2018, n. 145, individuata annualmente con il decreto del Ministro dell’interno, di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze ivi previsto, sentito il Ministro degli affari esteri e della cooperazione internazionale.

CAPO III DISPOSIZIONI URGENTI IN MATERIA DI CONTRASTO ALLA VIOLENZA IN OCCASIONE DI MANIFESTAZIONI SPORTIVE

ART.13

(Misure per il contrasto di fenomeni di violenza connessi a manifestazioni sportive)

1. Alla legge 13 dicembre 1989, n. 401, sono apportate le seguenti modificazioni:

a) all’articolo 6:

1) il comma 1 è sostituito dal seguente:

”1. Il questore può disporre il divieto di accesso ai luoghi in cui si svolgono manifestazioni sportive specificamente indicate, nonché a quelli, specificamente indicati, interessati alla sosta, al transito o al trasporto di coloro che partecipano o assistono alle manifestazioni medesime, nei confronti di:

a) coloro che risultino denunciati per aver preso parte attiva a episodi di violenza su

persone o cose in occasione o a causa di manifestazioni sportive, o che nelle medesime circostanze abbiano incitato, inneggiato o indotto alla violenza;

b) coloro che, sulla base di elementi di fatto, risultino avere tenuto, anche all’estero, sia singolarmente che in gruppo, una condotta evidentemente finalizzata alla partecipazione attiva a episodi di violenza, di minaccia o di intimidazione, tali da porre in pericolo la sicurezza pubblica o da creare turbative per l’ordine pubblico nelle medesime circostanze di cui alla lettera a);

c) coloro che risultino denunciati o condannati, anche con sentenza non definitiva, nel corso dei cinque anni precedenti per alcuno dei reati di cui all’articolo 4, primo e secondo comma, della legge 18 aprile 1975, n. 110, all’articolo 5 della legge 22 maggio 1975, n. 152, all’articolo 2, comma 2, del decreto-legge 26 aprile 1993, n. 122, convertito, con modificazioni, dalla legge 25 giugno 1993, n. 205, agli articoli 6-bis, commi 1 e 2, e 6-ter della presente legge, per il reato di cui all’articolo 2bis del decreto-legge 8 febbraio 2007, n. 8, convertito, con modificazioni, dalla legge 4 aprile 2007, n. 41, o per alcuno dei delitti contro l’ordine pubblico o dei delitti di comune pericolo mediante violenza, di cui al libro secondo, titoli V e VI, capo I, del codice penale o per il delitto di cui all’articolo 588 dello stesso codice, ovvero per alcuno dei delitti di cui all’articolo 380, comma 2, lettere f) e h), del codice di procedura penale, anche se il fatto non è stato commesso in occasione o a causa di manifestazioni sportive;

d) ai soggetti di cui all’articolo 4, comma 1, lettera d), del codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione, di cui al decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159, anche se la condotta non è stata posta in essere in occasione o a causa di manifestazioni sportive.”;

2) dopo il comma 1-bis è inserito il seguente:

”1-ter. Il divieto di cui al comma 1 può essere disposto anche per le manifestazioni sportive che si svolgono all’estero, specificamente indicate. Il divieto di accesso alle manifestazioni sportive che si svolgono in Italia può essere disposto anche dalle competenti autorità degli altri Stati membri dell’Unione europea, con i provvedimenti previsti dai rispettivi ordinamenti. Per fatti commessi all’estero, accertati dall’autorità straniera competente o dagli organi delle Forze di polizia italiane che assicurano, sulla base di rapporti di cooperazione, il supporto alle predette autorità nel luogo di svolgimento della manifestazione, il divieto è disposto dal questore della provincia del luogo di residenza ovvero del luogo di dimora abituale del destinatario della misura.”;

3) al comma 5, terzo periodo, le parole: “inferiore a cinque anni e superiore a otto anni” sono sostituite dalle seguenti: “inferiore a sei anni e superiore a dieci anni” e, al quinto periodo, le parole: “otto anni” sono sostituite dalle seguenti: “dieci anni”;

4) al comma 7, le parole “da due a otto anni” sono sostituite dalle seguenti: “da due a dieci anni”;

5) al comma 8-bis dopo le parole “se il soggetto” e prima delle parole “ha dato prova” sono aggiunte le seguenti: “ha adottato condotte di ravvedimento operoso, quali la riparazione integrale del danno eventualmente prodotto, mediante il risarcimento anche in forma specifica, qualora sia in tutto o in parte possibile, nonché la concreta collaborazione con l’autorità di polizia o con l’autorità giudiziaria per l’individuazione degli altri autori o

partecipanti ai fatti per i quali è stato adottato il divieto di cui al comma 1 e”; 6) dopo il comma 8-bis è aggiunto il seguente:

”8-ter. Con il divieto di cui al comma 1 il questore può imporre ai soggetti che risultano definitivamente condannati per delitti non colposi anche i divieti di cui all’articolo 3, comma 4, del codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione, di cui al decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159, avverso i quali può essere proposta opposizione ai sensi del comma 6 del medesimo articolo 3. Nel caso di violazione dei divieti di cui al periodo precedente, si applicano le disposizioni dell’articolo 76, comma 2, del citato codice di cui al decreto legislativo n. 159 del 2011.”;

b) all’articolo 6-quater è aggiunto, in fine, il seguente comma:

   ”1-ter. Le disposizioni del comma 1, primo e secondo periodo, si applicano altresì a chiunque commette uno dei fatti previsti dagli articoli 336 e 337 del codice penale nei confronti degli arbitri e degli altri soggetti che assicurano la regolarità tecnica delle manifestazioni sportive.”;

c) all’articolo 6-quinquies è aggiunto, in fine, il seguente comma:

   ”1-bis. Le disposizioni del comma 1 si applicano altresì a chiunque commette uno dei fatti previsti dall’articolo 583-quater del codice penale nei confronti degli arbitri e degli altri soggetti che assicurano la regolarità tecnica delle manifestazioni sportive.”.

2. All’articolo 8 del decreto-legge 8 febbraio 2007, n. 8, convertito, con modificazioni, dalla legge 4 aprile 2007, n. 41, sono apportate le seguenti modificazioni:

  a) il comma 1 è sostituito dal seguente:

”1. È vietato alle società sportive corrispondere, in qualsiasi forma, diretta o indiretta, sovvenzioni, contributi e facilitazioni di qualsiasi natura, compresa l’erogazione di biglietti e abbonamenti o di titoli di viaggio a prezzo agevolato o gratuito:

a) ai destinatari dei provvedimenti previsti dall’articolo 6 della legge 13 dicembre 1989, n. 401, per la durata del provvedimento e fino a che non sia intervenuta la riabilitazione ai sensi dell’articolo 6, comma 8-bis, della medesima legge n. 401 del 1989;

b) ai destinatari dei provvedimenti previsti dall’articolo 6 del codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione, di cui al decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159, per la durata del provvedimento e fino a che non sia intervenuta la riabilitazione ai sensi dell’articolo 70 del medesimo codice di cui al decreto legislativo n. 159 del 2011;

c) ai soggetti che siano stati condannati, anche con sentenza non definitiva, per reati commessi in occasione o a causa di manifestazioni sportive ovvero per reati in materia di contraffazione di prodotti o di vendita abusiva degli stessi.”;

b) dopo il comma 1 è inserito il seguente:

“1-bis. Alle società sportive è vietato altresì stipulare con soggetti destinatari dei provvedimenti di cui all’articolo 6 della legge 13 dicembre 1989, n. 401, per la durata del provvedimento e fino a che non sia intervenuta la riabilitazione, contratti aventi ad oggetto la concessione dei diritti previsti dall’articolo 20, commi 1 e 2, del codice della proprietà industriale, di cui al decreto legislativo 10 febbraio 2005, n. 30. È parimenti vietato alle società sportive corrispondere contributi, sovvenzioni e facilitazioni di qualsiasi genere ad associazioni di sostenitori, comunque denominate, salvo quanto previsto dal comma 4.”;

c) al comma 3, le parole: “di cui al comma 1” sono sostituite dalle seguenti: “di cui ai commi 1 e 1-bis”.

Art. 14.

(Ampliamento delle ipotesi di fermo di indiziato di delitto)

1. All’articolo 77, comma 1, del codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione, di cui al decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159, dopo le parole: “di cui all’articolo 4” sono inserite le seguenti: “e di coloro che risultino gravemente indiziati di un delitto commesso in occasione o a causa di manifestazioni sportive”.

Art. 15.

(Disposizioni in materia di arresto in flagranza differita)

1. All’articolo 10 del decreto-legge 20 febbraio 2017, n. 14, convertito, con modificazioni, dalla legge 18 aprile 2017, n. 48, sono apportate le seguenti modificazioni:

  a) al comma 6-ter, le parole: “fino al 30 giugno 2020” sono soppresse;   b) al comma 6-quater, il secondo periodo è soppresso.

Art. 16.

(Modifiche al codice penale)

1. Al codice penale sono apportate le seguenti modificazioni:

a) all’articolo 61, dopo il numero 11-sexies) è aggiunto il seguente:

”11-septies) l’avere commesso il fatto in occasione o a causa di manifestazioni sportive o durante i trasferimenti da o verso i luoghi in cui si svolgono dette manifestazioni.”;

b) all’articolo 131-bis, secondo comma, è aggiunto, in fine, il seguente periodo: “L’offesa non può altresì essere ritenuta di particolare tenuità quando si procede per delitti, puniti con una pena superiore nel massimo a due anni e sei mesi di reclusione, commessi in occasione o a causa di manifestazioni sportive.”.

Art. 17

(Modifiche all’articolo 1-sexies del decreto-legge 24 febbraio 2003, n. 28, convertito, con modificazioni, dalla legge 24 aprile 2003, n. 88)

1. All’articolo 1-sexies del decreto-legge 24 febbraio 2003, n. 28, convertito, con modificazioni, dalla legge 24 aprile 2003, n. 88, sono apportate le seguenti modificazioni:

a) al comma 1, le parole: “nei luoghi in cui si svolge la manifestazione sportiva o in quelli interessati alla sosta, al transito o al trasporto di coloro che partecipano o assistono alla manifestazione medesima,” sono sostituite dalle seguenti: “alle manifestazioni sportive”;

b) dopo il comma 1 è inserito il seguente:

   ”1-bis. Le disposizioni del comma 1, primo e secondo periodo, si applicano anche ai soggetti di cui all’articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 8 giugno 2001, n. 231.”.

ART. 18

(Entrata in vigore)

1. Il presente decreto entra in vigore il giorno successivo a quello della sua pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana e sarà presentato alle Camere per la conversione in legge.

Il presente decreto, munito del sigillo dello Stato, sarà inserito nella Raccolta ufficiale degli atti normativi della Repubblica italiana. E’ fatto obbligo a chiunque spetti di osservarlo e di farlo osservare.

Articolo redatto dal professor Fulvio Vassallo Paleologo per ADIF, Associazione Diritti e Frontiere

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