Armi-biciclette e tanto onore per il clan Romeo-Santapaola di Messina

Fatti e aneddoti in buona parte inediti sulla “famiglia-ponte” della criminalità della città di Messina sono stati riferiti dal maresciallo dei Carabinieri Vincenzo Musolino nel corso dell’ultima udienza del processo antimafia Beta che vede imputati i Romeo-Santapaola e alcuni noti professionisti della borghesia locale

di Antonio Mazzeo

Un balordo ti ha rubato l’auto sotto casa? Chiama loro e te la riportano in meno di un’ora con tanto di scuse. L’imprenditore amico ha qualche problema con il boss o i gregari delle ‘ndrine calabresi più temute? Tranquillo, ci pensa uno di loro a fare da paciere e smussare i contrasti. Hai bisogno di una bicicletta calibro 21 o 38 special? Chiama loro per una pronta consegna a domicilio con tanto di colpo in canna. Loro sono i componenti del gruppo familiare-criminale dei Romeo-Santapaola, la “costola” peloritana del potente mandamento di Cosa nostra catanese, quello retto da tempi remoti da don Benedetto Nitto Santapaola. Fatti e aneddoti in buona parte inediti sulla “famiglia-ponte” della criminalità della città di Messina sono stati riferiti dal maresciallo dei Carabinieri Vincenzo Musolino nel corso dell’ultima udienza del processo antimafia Beta che vede imputati i Romeo-Santapaola e alcuni noti professionisti della borghesia locale, avvocati, costruttori e finanche qualche ex dirigente dell’amministrazione pubblica.

Niente sbirri. A ritrovare gli automezzi meglio i Romeo… 

“Per comprendere la forza e la rilevanza dell’organizzazione dei Romeo-Santapaola e i suoi rapporti con i soggetti criminali che operano su Messina è utile riportare piccoli episodi che presi singolarmente hanno poco valore ma che insieme lasciano comprendere come essa fosse una struttura superiore rispetto alla polverizzazione e frammentazione dei clan messinesi”, ha esordito l’inquirente. “Un primo episodio riguarda il furto di un motorino avvenuto nei confronti di Benedetto Romeo e del quale lo stesso non si era nemmeno accorto. Il 15 aprile 2014, durante un’intercettazione tra il costruttore Biagio Grasso e l’odierno imputato Vincenzo Romeo, quest’ultimo spiegava che era avvenuto il furto del mezzo del fratello e che una volta che gli autori si erano resi conto di chi era proprietà il mezzo, si erano spaventati e avevano riportato immediatamente il motorino al legittimo proprietario. Tra i soggetti a cui si faceva riferimento per il furto c’era Antonino Tortorella con precedenti per stupefacenti. Questi era il fratello di Fabio Tortorella e i due sono figli di Giovanni Tortorella, con precedenti per armi, stupefacenti, estorsione, associazione mafiosa, pure coinvolto nell’operazione Case basse di Messina. Giovanni Tortorella è inoltre fratello di Fabio Tortorella, con precedenti per omicidio, stupefacenti, estorsioni, associazione mafiosa. Il nome di Fabio Tortorella è pure uscito nell’indagine denominata Mattanza, in riferimento ai rapporti con altre persone in relazione all’omicidio di Francesco La Boccetta, Sergio Micalizzi e Roberto Idotta (al processo Mattanza, l’imputato Fabio Tortorella è stato tuttavia assolto nonostante il Pm avesse chiesto la condanna all’ergastolo, Nda). Questo per comprendere che si tratta di soggetti che non erano estranei al tessuto criminale e che avevano comunque in famiglia qualcuno che aveva un rapporto con la criminalità organizzata…”.

“Un altro fatto riguarda il furto della microcar che veniva utilizzata dalla figlia di Marco Daidone, il soggetto che all’interno dell’organizzazione criminale dei Romeo gestiva inizialmente il Ritrovo Montecarlo, aperto unitamente a Benedetto Romeo e dove c’era una sorta di sala scommesse gestita da quest’ultimo”, ha aggiunto Musolino. “Abbiamo accertato che Marco Daidone aveva rapporti anche con Vincenzo Romeo e che si era pure recato con lui a Malta quando c’è stato un problema di liquidità; quindi era una persona proprio di famiglia… Riscontriamo ciò anche quando Biagio Grasso e il Romeo si recano presso l’abitazione di Daidone per recuperare dei soldi contanti. Tornando al furto della microcar, il 9 novembre 2014 Marta Giannetto che era la madre di Daidone, contatta il figlio e dice che all’esterno della propria abitazione dov’era parcata, l’auto non c’era più. Daidone, piuttosto che contattare carabinieri o polizia, fa subito una telefonata a Vincenzo Romeo. Nel corso della conversazione Daidone non fa riferimento al furto perché teme di poter essere intercettato e quindi cerca di spiegare che la madre era rimasta a piedi… Una volta che Vincenzo Romeo comprende quanto accaduto, i due decidono di incontrarsi nella zona di Minissale. Successivamente a questa conversazione Marco Daidone tenta di contattare anche il fratello di Vincenzo Romeo, Daniele Romeo, proprietario di un’officina a Minissale, cercando un aiuto diretto anche da lui. Ebbene, se noi pensiamo che la prima registrazione tra Marta Giannetto e Daidone avviene alle ore 22.47 e che l’incontro tra Vincenzo Romeo e Daidone è di appena quarantacinque minuti dopo, in poco meno di un’ora Daidone si preoccupa di contattare la figlia facendole sentire il rumore della macchina che aveva appena ritrovato. Il giorno successivo Daniele Romeo si rende conto della chiamata ricevuta e sempre con le medesime modalità criptiche spiega che oltre a lui poteva rivolgersi anche al fratello Gianluca”.

Nel corso della sua deposizione il maresciallo Vincenzo Musolino si è soffermato pure su un misterioso furto di materiale edile all’interno di un cantiere aperto nel rione Fondo Fucile per la realizzazione di alcune palazzine. “Il 29 settembre del 2014 Biagio Grasso riceveva una telefonata da parte del fratello Massimo perché avevano asportato all’interno del proprio cantiere un cavo elettrico di circa settanta metri e ciò non consentiva il prosieguo dell’attività”, ha spiegato il teste. “La conversazione tra i due non avviene in maniera criptica anche perché i due non pensano di essere intercettati. Pochi minuti dopo il Grasso cercava di recuperare il cavo contattando più ditte e durante una conversazione il costruttore dice che adesso qualcuno si farà male per quanto accaduto. Altrettanto importante è la successiva conversazione tra Biagio Grasso e Orazio Johnny Faralla, soggetto che era inserito anteriormente nel settore del gioco d’azzardo dei Romeo e con precedenti per associazione a delinquere di stampo mafioso, traffico e spaccio di sostanze stupefacenti. Faralla era stato pure arrestato nell’operazione Gramigna e all’epoca aveva anche un fine pena definitivo. Vincenzo Romeo aveva battezzato il figlio di Orazio Johnny Faralla e quindi c’era anche questo rapporto di comparato. Durante la conversazione con Biagio Grasso, il Faralla che invece è consapevole della possibilità di essere intercettato, riferisce di aver detto al fratello, quindi a Massimo Grasso, di non parlare per telefono, che quando si trattava di incontrarsi con Vincenzo Romeo lui spegneva il telefono… Biagio Grasso non comprendeva com’era possibile che si fosse verificato questo furto in quanto tutti erano a conoscenza che all’interno del cantiere di Fondo Fucile vi fosse la presenza del comune amico Enzo Romeo. Successivamente Vincenzo Romeo e Biagio Grasso cercano di comprendere chi avesse compiuto il furto. In un colloquio Romeo riferiva che tutti questi rognosi li conosceva. Altre conversazioni ci fanno comprendere invece il ruolo svolto da Vincenzo Romeo, come quelle che avvengono tra Stefano Barbera e la compagna Donatella Raffaele. In quella del 23 settembre 2014, il Barbera dice che il Romeo, quotidianamente, ha bisogno di diverso contante per aiutare i familiari delle persone che si trovano in carcere, gli porta soldi alle persone che si trovano agli arresti domiciliari, cinquanta-cento euro e che ha un quaderno dove segnava tutto questo. In un’altra conversazione lo stesso Romeo riferisce di avere troppa gente sulle spalle. Così noi riusciamo a comprendere che il Romeo era ben inserito all’interno del contesto messinese anche perché lui conosceva tutti…”.

E a calmare catanesi e calabresi ci pensa mister Tempesta

Il maresciallo Musolino ha riferito pure di un “interessamento” dei Romeo-Santapaola in un contenzioso tra un imprenditore catanese e alcuni creditori. “Per questo riguarda la relazione della famiglia messinese con gli esponenti della zona di Catania, un episodio rilevante è quanto accaduto a Michele Spina, un imprenditore nipote di Sebastiano Scuto, soggetto con precedenti per associazione a delinquere di stampo mafioso ed altro, indagato per l’impiego e il riciclaggio di capitali illeciti del clan Laudani, federato al gruppo dei Santapaola”, ha raccontato l’inquirente. “Il 29 aprile del 2014 viene registrata una conversazione a bordo dell’autovettura Audi A6 tra Biagio Grasso e Michele Spina, durante la quale quest’ultimo lamentava che una persona era arrivata da lui richiedendo dei soldi. Qual era il motivo? Michele Spina era stato in passato in rapporto con Vincenzo Romeo per quanto riguardava l’ambito dei giochi e in particolare le concessioni per diversi milioni di euro che era riuscita ad ottenere la Primal S.r.l. gestita da Spina. Lo stesso Vincenzo Romeo racconta di essersi recato presso lo studio dell’avvocato Sbordoni a Roma unitamente a soggetti di altre organizzazioni criminali che avevano ottenuto le concessioni per i giochi, i quali conoscevano come soggetto referente Michele Spina e non lui. In quel caso Michele Spina chiederà a Vincenzo Romeo di accompagnarlo presso l’avvocato perché era avvenuto il blocco delle concessioni anche perché si faceva riferimento ad un mancato pagamento di diversi milioni di euro. Allora Michele Spina disse che il suo socio di riferimento era il Romeo. Come raccontato da Spina a Biagio Grasso, una persona si era recata da lui per richiedere la restituzione di ventimila euro relativi all’apertura di un centro scommesse, quindi per una concessione che poi non si era più realizzata. Grasso allora gli domanda perché non si faceva riferimento a Tempesta. Noi riusciamo ad identificare Tempesta in Vincenzo Romeo anche con l’aiuto di Stefano Barbera. Sempre in quel contesto Michele Spina dice che si tratta di un clan avverso, infatti non si trattava del clan Laudani o Santapaola bensì del clan Pillera. Il 29 aprile 2014 Spina e Grasso continuano a parlare di quanto accaduto e fanno riferimento al soggetto chiamandolo per nome e cognome, ovvero Francesco Grasso, persona originaria di Catania e nipote di Salvatore Pillera, alias Turicachidi, ritenuto a capo dell’omonima famiglia mafiosa etnea. Un altro episodio ha riguardato invece l’incendio verificatosi il 19 luglio 2014 ad un negozio di scarpe che si trova nella zona di Pistunina, di proprietà dell’impresa Salice Angelo e figli e il cui amministratore unico è Angelo Salice. Alcuni giorni dopo, all’interno dell’ufficio della XP Immobiliare, nel commentare con Grasso l’incendio, Romeo riferiva che erano andati dal medico successivamente, cioè si erano rivolti al padre dopo che la cosa era accaduta. Evidentemente c’era stato un problema, probabilmente una richiesta estorsiva e piuttosto di rivolgersi prima alla famiglia Romeo, si erano recati solo dopo l’incendio”.

“Abbiamo registrato anche delle relazioni d’affari con gruppi criminali che operano in Calabria, intanto una serie di rapporti tra Vincenzo Romeo e l’imprenditore Carlo Borrella”, ha aggiunto il maresciallo Musolino nel corso della sua deposizione al processo Beta. “In particolare, in diverse conversazioni intercettate sempre presso la XP Immobiliare e all’interno dello studio dell’avvocato Andrea Lo Castro, si evidenziava l’investimento di soldi da parte di Romeo all’interno dei cantieri della società Demoter di Borrella. I cantieri erano quelli relativi alla strada provinciale che si stava costruendo in Calabria tra Bovalino e Bagnara, che collegava cioè i comuni che storicamente sono legati ad alcune famiglie mafiose tra i quali i Barbaro di Platì. L’appalto della Bovalino-Platì se l’era aggiudicato all’inizio la Demoter poi trasformata in Cubo S.p.A.. Nel corso delle indagini registriamo tale Saverio Barbaro che contattava Biagio Grasso al fine di avere il pagamento di alcune spettanze stipendiali. Saverio Barbaro era dipendente della Demoter e dall’aprile del 2012 lo diventa della Cubo; quindi era un dipendente diretto di Carlo Borrella e delle sua aziende. Per comprendere chi fosse Saverio Barbaro, noto tra i personaggi messinesi come il Geometra, possiamo riferire che è gravato da pregiudizi per favoreggiamento personale, falsità materiale ed altro. In particolare egli è appartenente, grazie agli stretti legami di sangue, alla ‘ndrina Barbaro-Pillaro in quanto il nonno paterno, Giuseppe, alias Peppe Pillaru, è ritenuto il capo dell’omonima cosca dei Barbaro. Saverio Barbaro era legato con rapporti di parentela anche con i Perre Maistru e in particolare con la ‘ndrina Trimboli. Sono state segnalate frequentazioni tra Saverio Barbaro, Francesco Barbaro, Francesco Perre, Pasqualino Barbaro e Francesco Barbaro”.

“Abbiamo avuto modo di registrare dei contatti tra Saverio Barbaro direttamente con appartenenti alla famiglia Romeo; in particolare nel corso di un colloquio con Biagio Grasso lo stesso Vincenzo Romeo fa esplicito riferimento alla famiglia Barbaro e poi chiede all’interlocutore di spegnere l’apparecchio cellulare”, aggiunge il teste. “In questo caso il riferimento è a tutte quelle aziende che ruotavano attorno all’appalto della Cubo S.p.A., quindi ad Antonio Barbaro con la Planet Costruzioni. Antonio Barbaro era legato da vincoli familiari a Saverio Barbaro ma era anche il figlio di Giuseppe Barbaro e nipote di Pasquale Barbaro ‘u Nigru che era a capo della cosca. Abbiamo verificato l’esistenza di rapporti tra quest’ultimo e Vincenzo Romeo. Ad esempio il 12 settembre 2004, durante un incontro registrato all’interno dell’ufficio della XP Immobiliare, Romeo e Grasso chiedevano a Borrella con chi è che aveva parlato, se aveva parlato con quello che era latitante che all’epoca era appunto Pasquale Barbaro… In questo caso era lo stesso Romeo a chiedere: Barbaro, Barbaro chi? Perché lui voleva capire con chi è che doveva parlare per cercare di sistemare la situazione. Nel corso di questa conversazione si fa riferimento anche ai soldi dati da Vincenzo Romeo per far ripartire quello che era il cantiere di Platì ma soprattutto per cercare di fermare le richieste da parte del gruppo della ‘Ndrangheta calabrese che aveva investito diverse somme di denaro e che aspettava il pagamento, per esempio, di alcune spettanze da Borrella. Un’altra conversazione di interesse era quella dove Vincenzo Romeo spiegava che doveva andare in Calabria a cercare di sistemare il bordello che si era creato…. La relazione della Prefettura di Reggio Calabria del 25 marzo 2011 effettuata dopo l’accesso del Gruppo interforze presso il cantiere sulla Bagnara-Bovalino aveva accertato l’esistenza di una serie di aziende che attraverso il nolo a caldo o il nolo a freddo avevano fornito il materiale o comunque mezzi in riferimento all’appalto della strada provinciale, pertanto il loro interesse era quello di recuperare e riprendere l’appalto con la Provincia di Reggio Calabria (…) Nel corso di diverse conversazioni all’interno dello studio dell’avvocato Andrea Lo Castro, noi registriamo l’interesse da parte di Carlo Borrella, Vincenzo Romeo e Biagio Grasso fondamentalmente per almeno tre ipotesi: 1) recuperare il denaro che Vincenzo Romeo aveva investito nell’affare; 2) evitare che il nome di Vincenzo Romeo, che era stato speso nei confronti della famiglia Barbaro, potesse ricavare una cattiva figura perché il Romeo si era comunque presentato nei confronti della famiglia Barbaro facendo riferimento alla propria appartenenza ai Santapaola; 3) la necessità da parte del gruppo di recuperare alcuni mezzi che la Cubo e Demoter avevano disseminato nel territorio nazionale ed estero. Le indagini della Procura di Milano erano del 2011-2012 e riguardavano il fallimento della Else poi trasformata in Fondazione Else, dove era stato indagato lo stesso Biagio Grasso e tutta una serie di soggetti, come ad esempio Susanna Allievi che era una delle collaboratrici di Grasso, un’imprenditrice che si muoveva tra Milano e Messina. Anche in questa vicenda c’era un collegamento con i calabresi per rintracciare quali erano questi mezzi per poi rivenderli. I mezzi erano infatti quelli della Fondazione Else e di Else: caterpillar, macchine motrici o altro…”.

Alla ricerca di attrezzature edili e teste di legno

“L’individuazione e il recupero dei mezzi avveniva grazie anche alla compiacenza di due soggetti stranieri, uno dei quali, Atta El Sayed, lavorava nella zona di Milano e comunque aveva avuto dei precedenti penali per furto e altro; il secondo soggetto era Abdullah Nagha, un cittadino egiziano non meglio identificato”, ha spiegato l’inquirente. “Biagio Grasso, Carlo Borrella e Vincenzo Romeo si incontrano spesso per tentare di recuperare i mezzi che erano stati sequestrati per poterli poi rivendere e recuperare il denaro. Noi veniamo a sapere di un appuntamento che si doveva verificare presso lo studio dell’avvocato Lo Castro. La mattina del 21 febbraio 2014 il servizio di osservazione esterno riesce a intercettare Carlo Borrella e il veicolo in uso a Vincenzo Romeo. Successivamente arrivano presso lo studio di Lo Castro, sia Biagio Grasso che Romeo. Ciò rappresenta per noi l’inizio per comprendere chi fosse Grasso e quale rapporto lo legasse a Romeo e a Borrella… Condizione necessaria per il recupero delle riserve della società era quella del cambio dell’amministratore della stessa Cubo, come sarà detto testualmente il 3 marzo 2014 all’interno dello studio Lo Castro nel corso di un incontro tra l’avvocato, Biagio Grasso e Vincenzo Romeo. In queste riunioni certe volte non c’è la presenza di Borrella perché al tempo egli non lavorava a Messina ma aveva dei cantieri in Costa d’Avorio. Vi era qualche difficoltà nella comunicazione tra questi personaggi, ma c’erano telefonate in transito da alcune utenze in uso a numeri della Costa d’Avorio. Un altro sistema utilizzato da Grasso e Borrella per comunicare era quello della e-mail condivise; durante alcune delle conversazioni registrate i due facevano riferimento ad un server e ad una password. Te la ricordi la password? Così uno dei due entrava all’interno della e-mail stessa e del file salvato al suo interno e dialogavano in questa maniera. Formalmente Biagio Grasso non ricopriva al tempo alcuna carica all’interno della Cubo S.p.A. o della Demoter. L’amministratore della Cubo era Filippo Spadaro. Il 9 settembre 2014, sempre all’interno della XP Immobiliare, noi registriamo una conversazione tra Grasso e Spadaro in cui il primo parla anche della sua testa di legno, perché uno dei sistemi nelle diverse ditte riferibili al gruppo Santapaola-Romeo era quello della presenza di teste di legno, ovvero di soggetti che non avevano precedenti penali ma che comunque erano legati da un rapporto fiduciario a Vincenzo Romeo e alla famiglia Romeo o che prestavano il proprio nome per far parte delle cariche sociali. Uno di questi era Franco Lo Presti”.

L’esigenza di individuare dei prestanomi di comodo nasceva dall’esigenza di bypassare i provvedimenti amministrativi e giudiziari in corso. “La Demoter era già stata oggetto di interdittiva antimafia; la prima era quella n. 20712 del 2011 relativa all’esecuzione delle opere per l’Expo di Milano a cui è seguita quella dell’1 giugno 2012”, ha raccontato il maresciallo Musolino. “Proprio quest’ultima informativa la vedremo più volte citata dallo stesso Biagio Grasso nel corso di alcuni colloqui con il padre perché erroneamente il costruttore non aveva letto che nel provvedimento fatto dal Comando provinciale di Messina, in alto a destra, il 12 era scritto male e pertanto lui pensava trattarsi di una nuova informativa antimafia connessa ai suoi rapporti con l’imprenditore Salvatore Puglisi e con i barcellonesi Carmelo D’Amico e Antonino Merlino. Biagio Grasso aveva paura che tale nuovo atto potesse colpirlo ancora una volta inficiando quello che doveva essere l’aggiudicazione dell’appalto per gli alloggi popolari con il Comune di Messina”.

Una, due, tre, quattro, cinque biciclette con colpo in canna

Su specifica domanda del Pubblico ministero Liliana Todaro, il teste ha spiegato le modalità con cui il gruppo Romeo-Santapaola entrava in possesso di armi e munizioni. “Armi non ne sono state ritrovate nel corso delle diverse fasi d’indagine e noi non abbiamo effettuato delle perquisizioni, nonostante nel periodo delle intercettazioni c’erano specifici riferimenti ad esse”, ha dichiarato Musolino. “In particolare c’erano state delle conversazioni tra gli indagati che riguardavano proprio la detenzione di armi da parte del gruppo. Il gruppo faceva molta attenzione a parlare, non ha mai utilizzato proprio la parola armi ma bensì si parlava di biciclette, oppure si faceva riferimento al calibro… Voglio raccontare in proposito un episodio accaduto il 4 luglio 2014 e che ha riguardato l’abbattimento di un cane che aveva morso un bambino e che ha avuto come protagonista Antonio Lipari. Questi è noto come cugino di Vincenzo Romeo ma in realtà il Lipari è figlio di Carmela Pasqualina Romeo che era nipote di Francesco Romeo, padre di Vincenzo e che gestiva il bar Hospital che si trova all’ospedale Piemonte. Antonio Lipari e il fratello Salvatore Lipari erano molto vicini al gruppo criminale, erano proprio intranei ai Romeo-Santapaola. In particolare Francesco Romeo faceva spesso riferimento ai nipoti per svolgere qualsiasi tipo di attività. Essi si occupavano di settori diversi, come è stato il caso della distribuzione dei farmaci in Calabria e in Sicilia con una ditta di riferimento. Ebbene, per l’episodio del 4 luglio 2014, Antonio Lipari contattava Vincenzo Romeo facendo riferimento ad iron ovvero ferro, come comunemente e generalmente viene indicata la pistola all’interno del gruppo e chiede al cugino di andare da lui. Nella conversazione registrata qualche minuto dopo, noi comprendiamo che assieme ad Antonio Lipari vi era anche il fratello Salvatore. Nel preciso istante in cui arrivano queste due conversazioni telefoniche, Biagio Grasso si trovava all’interno di un’autovettura con Vincenzo Romeo. Il motivo per cui era stato contattato Romeo era che Antonio e Salvatore Lipari non volevano abbattere il cane perché probabilmente si spaventavano e quindi chiesero l’aiuto di Vincenzo Romeo. Di sera, sempre all’interno dell’autovettura, i due commentano la modalità con cui è stato ammazzato questo cane (…) Il termine convenzionale dell’uso di biciclette noi lo riscontriamo ad esempio in una conversazione tra Francesco Romeo e Vincenzo Romeo a cui era presente anche Concettina Santapaola, madre di Vincenzo Romeo e moglie di Francesco. In questo colloquio si fa riferimento a due biciclette 7 e 21 nuove-nuove e quindi al fatto che i fratelli Lipari avevano provato ad utilizzare queste armi vicino la casa del fratello Benedetto Romeo. Anche il Romeo in un’occasione fa esplicito riferimento a cinque biciclette in suo possesso. Se avesse avuto la necessità, riferiva al suo interlocutore, doveva recuperare cinque biciclette e fargliela pagare. Altra conversazione di interesse è quella del 4 settembre 2014 quando Stefano Barbera propone di prelevare la pistola e il fucile che aveva a casa il padre, Giuseppe Barbera, per poi effettuare la punzonatura sulle armi stesse e quindi rivenderle. Romeo si mostra particolarmente interessato ad avere queste armi. Abbiamo poi accertato presso la stazione Carabinieri di Spadafora che Giuseppe Barbera deteneva effettivamente un Revolver calibro 38 special marca Taurus, cinquanta cartucce e ancora un fucile marca Benetti Andrea, calibro 16. Il 14 luglio del 2015 registriamo invece Vincenzo Romeo che si sfoga e arriva a dire che se avesse ritenuto Biagio Grasso un infame gli avrebbe sparato in testa con una 44 o una 45”.

“In una conversazione registrata il 22 novembre 2014 tra Francesco Romeo e Pasquale Romeo, si faceva riferimento invece ad uno scantinato dal quale bisognava togliere qualcosa; noi comprendiamo che si tratta di una pistola anche perché loro avevano paura di una possibile perquisizione”, ha concluso Musolino. “Altre conversazioni più esplicite sono quelle che avvengono all’interno dell’ufficio della XP Immobiliare perché quello era il luogo in cui Romeo e Grasso si sentivano liberi di poter dialogare. Il 26 novembre 2014 si comprende dal tenore del colloquio come i due fossero in possesso di un’arma. C’è infine una vicenda relativa ad un problema sorto con i soci catanesi o meglio Carmelo Laudani e Salvatore Galvagno, due imprenditori che erano stati inseriti all’interno della XP Immobiliare al fine di portare liquidità (avevano versato cinquantamila euro a Biagio Grasso) e terminare prima dei tempi stabiliti l’appalto per la costruzione delle palazzine da vendere al Comune di Messina. Quando le abitazioni non vengono più vendute, Carmelo Laudani e Galvagno richiedono la restituzione del denaro. Questo fa nascere diversi problemi anche perché in quel momento Grasso e Romeo dovevano versare mensilmente una quota di affitto al precedente socio che era la RD Immobiliare di Rosario Di Stefano. Quando loro si rendono conto che uno dei due imprenditori aveva delle armi addosso, Grasso e Romeo dicono che avevano preso la cautela di avere con sé alcune pistole. Nel corso della conversazione registrata la sera dell’8 gennaio 2015 Biagio Grasso rimproverava il fatto che avesse messo il colpo in canna…”.

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