di Mauro Seminara
Warlord, il “signore della guerra”, come nella stessa Libia viene comunemente chiamato il generale Khalifa Haftar, ha ordinato un raid aereo con cui ieri sono stati colpiti interessi italiani a breve distanza dalla capitale Tripoli. Un bombardamento aereo ha distrutto un deposito della controllata Mellitah Oil & Gas Company, a Tajoura, nella periferia della Capitale. La Mellitah Oil & Gas Company è una società che opera in accordo “joint venture” tra la statale NOC – National Oil Company – e l’italiana ENI. Nel raid aereo sono rimasti feriti, ma miracolosamente vivi, tre operai addetti alla gestione del deposito e delle costose attrezzature che secondo il NOC vi erano contenute e che sono state completamente distrutte. Il bombardamento ad opera dei cacciabombardieri del LNA, l’Esercito Nazionale Libico del generale Haftar, e la conseguente potente esplosione hanno anche distrutto una vicina conceria che non sembra fosse un obiettivo del signore della guerra.
Mustafa Sanalla, presidente della National Oil Company, ha definito l’attacco “un’altra tragica perdita causata da questo conflitto non necessario”. Rispondendo alla stampa locale libica, come riportato anche dal Libya Observer, Sanalla ha anche aggiunto che “l’infrastruttura del NOC viene distrutta sotto i nostri occhi”. Una frase che si presta a varie interpretazioni e che può sembrare un messaggio per gli altri occhi della joint venture, quelli dell’impotente Italia, oltre che quelli del governo sostenuto dalle Nazioni Unite e presieduto da Fayez al-Serraj. Un’affermazione che lascia comunque intendere la pretesa di poter tutelare gli insediamenti e gli interessi economici internazionali malgrado tutto intorno ci sia una intera popolazione priva di ogni tutela. Da un recente bollettino sullo stato sociale della Libia redatto dall’OIM, l’organizzazione mondiale per le migrazioni delle Nazioni Unite, risulta che gli sfollati interni al Paese sono già poco meno di centomila.
A fronte degli oltre 93mila libici sfollati da inizio conflitto, ufficialmente ratificato il 4 aprile del 2019, ci sono oltre 5.500 migranti ancora in detenzione presso strutture-lager. Questo afferma l’OIM l’11 giugno, poco più di una settimana addietro. La situazione della Libia pare essere completamente sfuggita di mano anche alle Nazioni Unite che vedono, suo malgrado, attori europei che remano contro la unificazione e stabilizzazione del Paese. Tra questi ci sono la Francia, l’Italia ed anche le due superpotenze rivali USA e Russia che si fronteggiano su vari teatri di conflitto come il Venezuela – che da tempo Washington tenta di rovesciare con un golpe apertamente sostenuto dall’Unione europea – e la Siria che sembra essere tornata teatro di attenzioni dei servizi a stelle e strisce. Malgrado una vistosa instabilità e i continui raid aerei che scandiscono i giorni di scontri a terra tra le forze fedeli al generale Haftar e quelle leali al governo presieduto da Serraj, e malgrado la fotografia istantanea fornita dalle organizzazioni delle Nazioni Unite, l’Italia continua ad affermare che la Libia è un porto sicuro in cui respingere i migranti.
Affermazioni, quelle del Governo italiano con non ultimo il presidente del Consiglio Giuseppe Conte, sulla stabilità di una limitata area della Libia – già smentita dal raid aereo sugli interessi italiani in Tripolitania – che stanno alla base del sequestro dei restanti 43 profughi ancora a bordo della nave Sea Watch 3 che li aveva soccorsi il 12 giugno in acque internazionali. Soccorso avvenuto il giorno successivo al quadro di sfollati e detenuti sotto scontri e bombardamenti diffuso dall’OIM. La pretesa criminale, anche in questo caso con la complicità dell’Unione europea, era di un “riaffidamento” dei 53 profughi – salvati da un gommone che presto li avrebbe uccisi – alla cosiddetta guardia costiera libica perché tornassero rinchiusi in un lager tra colpi di artiglieria e bombe. La Sea Watch 3 si trova dal 13 giugno a largo di Lampedusa, l’isola italiana più a sud e il Place of Safety europeo in assoluto più vicino alla Libia. Ma l’Italia, ancora una volta con la complicità dell’Unione europea, non intende concedere l’ingresso in acque territoriali e ha già notificato a bordo della nave Ong l’entrata in vigore del “decreto sicurezza bis”.