di Mauro Seminara
L’operazione con cui ieri è stato intercettato un peschereccio che trainava un barchino, sul quale hanno poi preso posto gli 81 profughi libici sbarcati a Lampedusa, è stata proposta a destra e a manca come il metodo con cui i trafficanti fanno arrivare le persone in Italia. Una lettura decisamente infondata che trova la sua smentita già nella stessa attività svolta con regolarità quotidiana dai velivoli che fanno parte della missione europea Sophia, di EunavForMed. I migranti, profughi delle sevizie subite in Libia, fuggitivi di un teatro di violenti scontri armati, gli ultimi vedono bombardati un deposito della joint venture ENI-NOC e l’aeroporto internazionale di Mitiga, sono stati avvistati e documentati sempre in partenza dalla costa nordafricana senza alcun peschereccio – se si preferisce l’erronea ma più efficace definizione di “Nave Madre” – che li trainava fino in prossimità di territori europei. La barca da pesca libica fermata ieri e condotta nel porto di Licata, dove è già ormeggiata da questa mattina, è una strana eccezione che deve essere intesa ed analizzata come tale.
“Il dispositivo interforze dell’Agenzia Europea Frontex, della Guardia di Finanza, delle Capitanerie di Porto e della missione EUNAVFORMED, impiegando mezzi aerei, anche a pilotaggio remoto e navali è stato protagonista di una complessa operazione nel settore del contrasto all’immigrazione clandestina”. Lo spiega la nota della Guardia di Finanza con cui è stata informata la stampa. Come evidenziato, nell’operazione era arruolato anche un drone. La tecnologia di cui dispone l’Unione europea, e di cui è ben dotata l’Italia, consente, da altitudini invisibili all’occhio umano ed impercettibili al suo udito, di documentare tutto quello che accade sulla costa della Libia senza neanche invaderne lo spazio aereo. Mai però, in tempi recenti e dopo gli accordi italo-libici siglati dal precedente governo italiano, era stato documentato un metodo simile per far raggiungere l’Italia alle barche gremite di profughi. Mai è stato documentato, che l’opinione pubblica ne sia a conoscenza, un gruppo di trafficanti che arma barche della morte e i loro mezzi, le targhe dei loro veicoli, i luoghi in cui le vittime vengono detenute. Eppure, basta guardare il video che è qui pubblicato per comprendere la capacità visiva di un velivolo – il drone – che filmava tutto senza che le persone intente nel trasbordo se ne rendessero conto.
Nel video si vede qualcuno che aiuta i migranti nel trasbordo, senza armi e senza minacce, con atteggiamento cordiale e premuroso che stride con immagini già viste di veri trafficanti
In un momento assurdo, in cui anche le bombe intorno alla capitale della Libia e sugli insediamenti della nazionale ENI in Tripolitania riescono a far cambiare slogan al Governo che impone la Libia quale porto sicuro in cui sbarcare i profughi dallo stesso porto fuggiti, la posizione dell’equipaggio della cosiddetta “nave madre” – che adesso dovrà valutare la Procura di Agrigento – merita almeno una analisi scevra da ogni forma di pregiudizio. “Alle ore 13.20 – di giovedì, spiega la nota stampa delle fiamme gialle – un aereo operante nel progetto MAS dell’Agenzia Frontex, attraverso il National Coordination Centre del Ministero dell’Interno, ha documentato, a circa 60 miglia a sud dell’isola di Lampedusa, il trasbordo di un considerevole numero di migranti da un motopesca su di una imbarcazione più piccola, alla quale era affiancato.” Il trasbordo dal peschereccio al barchino è stato documentato, non viene fatta però alcuna menzione del trasbordo inverso o del “carico” dei profughi sul peschereccio direttamente in porto della Libia. Il peschereccio ha infine trasbordato le 81 persone sul barchino, a 60 miglia da Lampedusa, e mettendo il motore “avanti tutta” si è frettolosamente allontanato.
In tempi non lontani, un peschereccio tunisino, della flotta di Zarzis, era stato fermato e sequestrato con medesima accusa e analoghe prove di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Accuse poi sgretolatesi già nei giorni successivi. Il comandante del peschereccio, noto per vari coraggiosi salvataggi a migranti salpati dalla Libia, aveva soccorso un barchino in avaria ed aveva dovuto affrontare le minacce di autolesionismo – si sarebbero buttati in mare – delle persone che erano disposte a tutto pur di non tornare nell’inferno libico. La principale differenza, tra l’episodio del peschereccio tunisino e di quest’ultimo passato ieri agli onori della cronaca, consiste nella distanza dall’isola di Lampedusa. I tunisini avevano lasciato la barca che avevano precedentemente soccorso molto più vicino all’isola. Il peschereccio libico li ha lasciati a circa 60 miglia a sud di Lampedusa.
Il gommone scomparso
Con notevole sovrapposizione di coincidenze, il barchino con 81 persone giunto a Lampedusa la notte tra giovedì e venerdì – a bordo della Guardia Costiera che per ragioni di sicurezza aveva operato un trasbordo anche se a pochissime miglia dal porto – era stato lasciato alla stessa distanza dall’isola di un gommone che risultava avere circa 80 persone a bordo ed il motore in avaria. Entrambi quindi a circa 60 miglia sud di Lampedusa ed entrambi con circa 80 persone a bordo. La segnalazione del gommone era partita da un peschereccio che aveva lanciato un “pan-pan”, un segnale di emergenza in codice internazionale mediante sistema radiotelefonico. Se i velivoli dell’agenzia europea hanno documentato il trasbordo della “nave madre”, dovrebbero aver documentato anche la presenza del gommone con circa 80 persone. A meno che il “gommone” non fosse proprio il barchino che il peschereccio libico voleva essere sicuro venisse soccorso. Il gommone in questione sarebbe stato segnalato già la mattina precedente all’operazione europea con drone, a circa 30 miglia nord di Zuwarah – il porto da cui gli 81 profughi sbarcati a Lampedusa hanno dichiarato d’essere partiti – con il motore in avaria.
Del gommone con il motore in avaria non si è poi saputo più nulla fino alla presunta ricomparsa nella stessa posizione del documentato trasbordo da peschereccio “nave madre” al barchino. Ipotizzabile, anche facilmente, che dei pescatori sappiano riavviare un motore fuoribordo completamente sconosciuto per dei profughi che non sono certo gente di mare. Del gommone non si è più avuto traccia. Un naufragio fantasma, oppure il gommone era proprio il barchino, aiutato a 30 miglia da Zuwarah dai pescatori – 7 persone di equipaggio, sei di sedicente nazionalità egiziana ed un tunisino su un peschereccio al momento dato per libico – che hanno portato in sicurezza fino a 60 miglia da Lampedusa, stessa distanza dalla Tunisia, le 81 persone per poi diffondere il pan-pan con il quale avere assoluta certezza che le persone precedentemente salvate venissero soccorse.
Le conseguenze dei “decreti sicurezza”
L’inasprimento dei rapporti tra le istituzioni e i comandanti che solcano il Mediterraneo a bordo di mercantili e pescherecci, con particolare attenzione all’Italia ed ai suoi “decreti sicurezza”, rende ormai impossibile ogni forma di collaborazione tra soccorritori d’occasione ed autorità preposte al salvataggio in mare. Quello che in passato avrebbe fatto un comandante di peschereccio, avvisando la Centrale di Coordinamento Soccorso Marittimo più vicina del rischio incombente e della legittima decisione di effettuare un trasbordo prima che sia troppo tardi, appare adesso un rischio impraticabile con probabili conseguenze di sequestro dell’imbarcazione e multe o addirittura arresto. La gravissima conseguenza delle politiche deterrenti che stanno decimando i soccorritori nel Mediterraneo è che adesso risulta quasi impossibile distinguere un angelo salvatore da un demone di trafficante. Perfino le Ong, che non tentano di aggirare gli ostacoli come potrebbe aver fatto il peschereccio blu, pagano con sequestri probatori o sequestri passivi – con l’interdizione del porto come alla Sea Watch 3 – il soccorso in mare obbligato da tutte le leggi internazionali e nazionali.