di Vittorio Alessandro
Il 28 marzo 1997 una navetta partita dall’Albania (si chiamava Katër i Radës) affondò nel Canale d’Otranto carica di persone, e 108 ne morirono. Si cercò di stabilire quanta responsabilità dell’affondamento fosse del comandante di quella improvvida spedizione e quanta del comandante di Nave Sibilla della Marina Militare che, in quella notte di onde e di vento, cercò di ostacolare la rotta del vecchio scafo stracarico con manovre di avvicinamento ed evoluzioni sempre più stringenti intorno ad esso. Secondo i giudici, fu proprio il combinato della rotta ostinata della nave albanese, delle condizioni del mare e delle onde indotte dal Sibilla a provocare il ribaltamento della nave.
Il premier Romano Prodi (farebbe bene la Sinistra a non dimenticare), preoccupato dal grave flusso di immigrati, aveva appena affermato, come oggi il governo Conte: “La sorveglianza dell’immigrazione clandestina attuata anche in mare rientra nella doverosa tutela della nostra sicurezza e nel rispetto della legalità che il governo ha il dovere di perseguire”. Era partita, dunque, l’operazione “Bandiere bianche”, di fatto un blocco navale.
Se il mare diventa palestra delle posizioni più ideologiche e oltranziste (che siano gridate o sussurrate), prima o poi si piangeranno i cadaveri, ma anche il destino solitario degli uomini dello Stato che hanno creduto di adempiere il mandato nel modo più proficuo.
In mare tutto si moltiplica e nulla avviene come a terra: le navi non hanno il freno; le spinte e le evoluzioni vogliono tempo e, quando glielo hai dato, ne serve altrettanto per annullarne gli effetti.
Ecco perché le manovre ostruttive devono essere ben meditate e, ad esempio per la Sea Watch, non sarà facile stabilire quanto della sua manovra di accosto in banchina sia stato dovuto alla spinta viva dei propulsori e quanto alla forza inerziale.
In questa vicenda, il danno alle nostre certezze, all’immagine del governo, alla serenità delle persone in causa è fatto, ma almeno, fortunatamente, i migranti sono tutti salvi.