di Fulvio Vassallo Paleologo
Nel mese di settembre del 2016 la Grande Camera della Corte Europea dei diritti dell’Uomo confermava in via definitiva la condanna dell’Italia per trattenimento arbitrario nel centro di primo soccorso ed accoglienza di Lampedusa e sulle navi prigione ormeggiate nel porto di Palermo. Si trattava del caso Khlaifia, avente ad oggetto il trattenimento e l’espulsione di stranieri irregolari a Lampedusa verificatesi nel settembre del 2011. Dopo quegli abusi durante una forte azione di protesta dei migranti, trattenuti da giorni in condizioni di sovraffollamento, scoppiava un incendio che rendeva il centro parzialmente inagibile. Una situazione di parziale inagibilità che perdura ancora oggi e non permette la presenza di più di cento persone all’interno del centro. Ben al di là dei rari sbarchi dalle ONG, gli arrivi quotidiani di migranti, soccorsi dalla Guardia costiera o dalla Guardia di finanza, hanno ingolfato la struttura di Contrada Imbriacola, da mesi al limite della sua effettiva capacità recettiva. Si tratta dei cd. sbarchi “fantasma”, che non sono affatto “fantasma”, tanto che sono ben visibili ed avvengono nella maggior parte dei casi da navi militari italiane, dopo soccorsi operati al limite delle acque territoriali italiane.
La sentenza della Corte di Strasburgo sul caso Khlaifia arrivava cinque anni dopo l’archiviazione di un esposto presentato alla procura di Palermo, esposto che denunciava proprio quanto poi accertato dalla Corte. La Grande Camera, votando all’unanimità, ha riconosciuto la fondatezza della violazione dell’art. 5 CEDU da parte dell’Italia, perché coloro che hanno fatto ricorso risultano essere stati illegalmente privati della libertà personale, prima nel CPSA di Lampedusa e poi sulle navi attraccate a Palermo che, in maniera del tutto arbitraria, sono state adibite alle stesse funzioni dei centri di detenzione. Ma risultava violato anche l’art. 3 CEDU, in relazione all’art. 13 della stessa convenzione, in quanto ai ricorrenti non era stato garantito l’accesso ad una effettiva procedura di ricorso per poter contestare eventuali (anche se non accertate) violazioni appunto dell’art. 3.
Con la sentenza Richmond Yaw e altri c. Italia, pubblicata il 6 ottobre 2016, la Corte europea dei diritti dell’uomo ha condannato l’Italia per violazione dell’art. 5 par. 1, lett. f e par. 5 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, per il prolungamento arbitrario del trattenimento amministrativo all’interno del Centro di identificazione ed espulsione di Ponte Galeria (Roma), e per il mancato riconoscimento del diritto alla riparazione del danno derivante dalla ingiustificata privazione della libertà personale. Malgrado queste condanne a carico dell’Italia per violazioni di principi ben precisi affermati nelle Convenzioni internazionali basate sul rispetto assoluto del principio di legalità, nella disciplina dei casi di detenzione amministrativa, il ministero dell’interno non ha fatto ricorso ad una effettiva base legale per regolamentare il trattenimento amministrativo degli stranieri irregolari, al di là delle scarne previsioni degli articoli 10 ter e 14 del Testo unico in materia di immigrazione n.286 del 1998. Una disciplina parziale del trattenimento amministrativo che si potrebbe applicare anche all’interno dei centri Hotspot ed in altre “strutture a disposizione dell’autorità di polizia”, è stata introdotta dall’art. 4 del Decreto legge sicurezza 113/2018, poi convertito nella legge 132/2018.
I centri Hotspot erano stati previsti dall’Unione Europea con le Decisoni del Consiglio n. 1523 del 14 settembre 2015 e n.1601 del 22 settembre 2015 al fine prevalente di identificare con il prelievo delle impronte digitali, per distinguere tra migranti economici e richiedenti protezione, per accertare casi di vulnerabilità dopo lo sbarco, o la presenza dei minori non accompagnati, e per favorire le operazioni di redistribuzione tra i diversi paesi membri. Successivamente, nel 2016, il Ministero dell’interno aveva adottato il cd. Hotspot Approach, già concordato con la Commissione europea, e sulla base di mere istruzioni amministrative aveva organizzato la gestione di queste strutture.
In diverse occasioni i cd. centri Hotspot sono stati utilizzati oltre che per la identificazione delle persone subito dopo i soccorsi e lo sbarco, al fine di limitarne la libertà personale in attesa di eseguire il loro allontanamento forzato. Una prassi illegittima, disposta dal Ministero dell’interno ed attuata da prefetti e questori, che nel tempo si è diretta anche contro potenziali richiedenti asilo, come i sudanesi rimpatriati dall’Hotspot di Taranto nel 2016, e più recentemente riguarda numerosi migranti maghrebini, soprattutto tunisini, che raggiungono le nostre coste con i cd. sbarchi fantasma, e che, in virtù degli accordi di riammissione esistenti, il governo cerca di respingere in tempi brevi con le misure di accompagnamento forzato in frontiera. Sono stati riportati a Lampedusa persino tunisini che erano stati sorpresi nei pressi della spiaggia di Licata. Come potrebbe succedere a quelli che oggi sono stati soccorsi al largo di Sciacca, ma il centro di Contrada Imbriacola è già stracolmo e questa eventualità appare assai improbabile.
Su queste prassi, nella passata legislatura, la Commissione di inchiesta della Camera dei deputati sui centri per stranieri, proprio sugli Hotspot, non riuscì ad adottare una relazione conclusiva all’unanimità, per le resistenze provenienti dal Viminale. Alla fine fu elaborata anche una Relazione di minoranza che denunciava le prassi illegittime già verificate in quegli anni, con particolare riferimento ai centri Hotspot di Lampedusa e di Taranto. Un rapporto di Amnesty International Hotspot Italia: come le politiche dell’Unione europea portano a violazioni dei diritti di rifugiati e migranti denunciava una situazione che oggi a Lampedusa, a tre anni di distanza, non appare sostanzialmente mutata.
Già nel corso della passata legislatura si era visto come le garanzie dettate dagli articoli 10,13 e 24 della Costituzione non valessero più per coloro che sbarcavano nel nostro paese. Sul territorio italiano infatti la sorte di coloro che, malgrado le politiche di blocco, arrivano dalle coste nord-africane è stata sempre più affidata alla discrezionalità delle forze di polizia e sottratta al principio di legalità ed al controllo giurisdizionale.
Dopo lo sbarco a Lampedusa dei naufraghi soccorsi dalla nave spagnola Open Arms, già indebitamente trattenuti a bordo della stessa per oltre 18 giorni, prima che il ministro dell’interno desse l’autorizzazione per l’ingresso in porto, nel centro Hotspot di Contrada Imbriacola si sta ripetendo una situazione di grave sovraffollamento e di totale elusione delle norme dettate in materia di Approccio Hotspot, e soprattutto dell’art. 13 della Costituzione. I migranti appena sbarcati vengono trattenuti nel centro ben oltre le esigenze della prima identificazione, anche se sono richiedenti asilo, ed oltre il termine massimo delle 96 ore fissato dalla Costituzione per la convalida del loro trattenimento. Una limitazione arbitraria della libertà personale che risulta in contrasto con gli articoli 5 e 13 della Convenzione europea a salvaguardia dei diritti dell’uomo, la stessa violazione che ha portato alle condanne dell’Italia sui casi Khalifia e Richmond Yaw. Tale violazione risulta ancora più grave se ricorre nei confronti di minori non accompagnati o di soggetti vulnerabili come le vittime di tortura o di violenza sessuale.
Si assiste così all’ennesimo paradosso: prima il governo non voleva che i naufraghi sbarcassero a Lampedusa ed adesso non li fa andare via
“Mancano le autorizzazioni” spiega il sindaco Totò Martello: “Chi prima voleva impedirne lo sbarco, ora non autorizza il loro trasferimento”. “Quello che sta accadendo a Lampedusa è paradossale. Prima hanno tenuto i migranti a bordo della Open Arms per quasi venti giorni davanti la nostra costa, e c’era chi non avrebbe mai voluto farli sbarcare. Ora quei migranti sono tutti sull’isola, con il Centro di accoglienza sovraccarico”.
Il Centro di Contrada Imbriacola può ospitare 96 persone, come conferma il sindaco di Lampedusa, “Tutte le persone che erano a bordo della Open Arms sono ancora qui, insieme con loro ci sono altri migranti arrivati in questi giorni. Gli ospiti del Centro sono al momento circa 200”. Intanto la nave militare spagnola Audaz è sempre ancorata, da ieri, all’imboccatura del porto di Lampedusa. Sull’Audaz dovrebbero salire 15 migranti, che erano sulla Open Arms, per essere portati in Spagna. Il pattugliatore spagnolo ha impiegato poco meno di tre giorni per raggiungere Lampedusa dal Sud della penisola Iberica. Una spesa ingiustificata, un esempio negativo di una solidarietà europea che si è manifestata troppo tardi e soltanto per colpire ancora le Organizzazioni non governative. I migranti che la nave spagnola dovrebbe imbarcare rimangono al momento trattenuti all’interno del Centro Hotspot di contrada Imbriacola nel cuore di Lampedusa.
Non si comprende peraltro con quale base legale persone che hanno già manifestato la volontà di chiedere asilo in Italia siano ancora trattenute oltre i termini di legge nel centro Hotspot di Lampedusa, e come alcuni di loro potranno essere imbarcate (a forza?), o comunque senza il loro consenso, su una nave che li trasferirà in un paese diverso da quello nel quale hanno manifestato la volontà di chiedere protezione e nel quale sono sbarcati. Occorre verificare in questo caso il pieno rispetto del vigente Regolamento Dublino 3 n. 604/2013 dell’Unione Europea, che disciplina anche questi casi di ritrasferimento dal primo paese d’ingresso. In ogni caso, in base allo stesso Regolamento Dublino 3, i minori non accompagnati ed altri soggetti vulnerabili come le vittime di tortura o persone con gravi problemi di salute hanno diritto a restare nel primo paese di ingresso.
Come era ampiamente prevedibile, il prolungamento dei tempi di trattenimento nelle strutture detentive (Centri per i rimpatri) attualmente disponibili per i migranti da respingere o da espellere, ha prodotto un abbassamento del numero di immigrati irregolari che sono stati effettivamente espulsi dopo essere stati rinchiusi in un CPR. Sono aumentati i casi di trattenimento arbitrario nei centri di prima accoglienza e negli Hotspot, malgrado la magistratura continui ad indagare sui casi più eclatanti di abuso, proprio con riferimento al centro Hotspot di Lampedusa. L’ingolfamento dei CPR ha prodotto con un effetto a catena l’ingolfamento degli Hotspot, che sempre più spesso vengono utilizzati per una mera finalità detentiva.
I dati sui rimpatri, anche quelli ufficiali forniti dal ministero dell’Interno, sempre più rari, parlano chiaro, e confermano il fallimento dell’azione degli ultimi governi e l’inasprimento delle prassi amministrative, alle quali è corrisposto un incremento del contenzioso ed un ingolfamento dei tribunali. Incalcolabile il costo umano delle politiche di deterrenza attuate attraverso il continuo inasprimento delle misure di allontanamento forzato e di trattenimento amministrativo. Nulli gli effetti sulla “sicurezza” dei cittadini o sulla “difesa” dei confini.
Una cappa di silenzio è calata sui centri di detenzione amministrativa oggi definiti Centri per i rimpatri (CPR), da Trapani (Milo) a Torino, sui centri Hotspot, come quello di Lampedusa e sulle misure di accompagnamento forzato in frontiera effettivamente eseguite. Persino l’attività del Garante nazionale per i diritti delle persone private della libertà personale è stata osteggiata o relegata ai margini.
Gli Hotspot ed i CPR sono diventati luoghi sempre più impenetrabili, e in molti casi, soprattutto negli Hotspot, le misure limitative della libertà personale sono state sottratte ad un effettivo controllo giurisdizionale, in violazione dell’art. 13 della Costituzione. Il più recente decreto sicurezza, approvato con la legge n.132 del 2018 ha poi consentito il trattenimento amministrativo in vista dell’espulsione in strutture diverse dai CPR, in locali “a disposizione delle autorità di pubblica sicurezza”. Non si comprende quali forme di convalida giurisdizionale siano previste per questi casi di limitazione della libertà personale in vista dell’accompagnamento in frontiera, che comunque ricadono sotto la previsione dell’art. 13 della Costituzione italiana. Come ribadisce la consolidata giurisprudenza della Corte Costituzionale, a partire dalla sentenza n.105 del 2001.
In materia di libertà personale, ministri e prefetti sono tenuti a rispettare le leggi e le Convenzioni internazionali vigenti, quale che sia la maggioranza elettorale o l’andamento dei sondaggi. Tanto nei centri per i rimpatri che negli Hotspot, come quelli di Lampedusa e Pozzallo, e nei centri di prima accoglienza, come la caserma Gasbarro a Messina, vigono i principi e le garanzie dello stato di diritto, della Carta Costituzionale, delle norme europee, delle Convenzioni internazionali.
Se si modificano le leggi non si possono violare la Costituzione e le norme imperative derivanti da Convenzioni internazionali sottoscritte anche dall’Italia. I diritti fondamentali delle persone contano più della difesa dei confini. Lo conferma la Convenzione europea a salvaguardia dei diritti dell’Uomo, che vieta trattamenti disumani o degradanti (art. 3) e impone che le misure di trattenimento amministrativo in vista di un allontanamento forzato siano conformi a legge (art. 5). Il rispetto del principio di legalità, con riferimento alla «qualità del diritto nazionale» è un requisito necessario per la legittimità della detenzione amministrativa finalizzata all’espulsione con accompagnamento forzato, ai sensi dell’art. 5 § 1, lett. f) CEDU, secondo costante giurisprudenza della Corte di Strasburgo. Cfr. in tal senso, le sentenze rese nei casi Chalal c. Regno Unito, 25 ottobre 1996, ric. 22414/93, §112; Amuur c. Francia, 20 maggio 2006, ric. 19776/92, §50; Rashed c. Repubblica Ceca, del 27 novembre 2008, ric. 298/07, § 73.
L’articolo 7 della Direttiva europea 2013/33, con riferimento al luogo di residenza e alla libertà di circolazione dei richiedenti asilo dispone che questi possono circolare liberamente nel territorio dello Stato membro ospitante o nell’area loro assegnata. L’area assegnata non pregiudica la sfera inalienabile della vita privata e permette un campo d’azione sufficiente a garantire l’accesso a tutti i benefici della Direttiva.
L’art. 17 della Direttiva prevede che i richiedenti abbiano accesso alle condizioni materiali d’accoglienza nel momento in cui manifestano la volontà di chiedere la protezione internazionale e che le condizioni materiali di accoglienza assicurino un’adeguata qualità di vita, anche con specifico riguardo a persone vulnerabili o in stato di trattenimento.
Al Considerando 20 la Direttiva 2013/33/UE prevede che “Al fine di meglio garantire l’integrità fisica e psicologica dei richiedenti, è opportuno che il ricorso al trattenimento sia l’ultima risorsa e possa essere applicato solo dopo che tutte le misure non detentive alternative al trattenimento sono state debitamente prese in considerazione. Ogni eventuale misura alternativa al trattenimento deve rispettare i diritti umani fondamentali dei richiedenti”.
La Direttiva europea 2008/115 sui rimpatri vieta che un cittadino di un Paese non Ue che non sia stato ancora soggetto a procedura di rimpatrio sia detenuto a tempo indeterminato solamente perché è entrato sul territorio di uno Stato membro in modo illegale. Garanzie particolari sono previste per coloro che manifestano la volontà di chiedere protezione, per i minori non accompagnati che essendo inespellibili non possono essere vittima di trattenimento amministrativo al pari delle donne in stato di gravidanza e degli altri soggetti in condizioni di particolare vulnerabilità. Eppure nel centro di Contrada Imbriacola sono state decine i minori trattenuti per settimane in violazione anche della legge n.47 del 2017 (legge Zampa).
L’art. 7 bis del decreto sicurezza 113/2018, poi convertito nella legge 132 del 2018 inserisce nel d. lvo n. 25 2008 l’art. 28 ter (domanda manifestamente infondata), ampliando notevolmente le ipotesi in cui la domanda del richiedente asilo può essere dichiarata manifestamente infondata, con le gravi conseguenze, sul piano delle garanzie difensive, che tale pronuncia comporta (procedura accelerata ed esclusione dell’effetto sospensivo automatico con la proposizione del ricorso giurisdizionale avverso la domanda di rigetto). Negli Hotspot si può verificare che persone che abbiano manifestato l’intenzione di chiedere protezione internazionale siano qualificate come “migranti economici” e sottoposti a procedure di rimpatrio con accompagnamento immediato.
La Corte di Giustizia dell’Unione Europea (Grande Chambre, C-181/16, sentenza del 19 giugno 2018) ha esplicitamente affermato che “La direttiva 2008/115/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 16 dicembre 2008, recante norme e procedure comuni applicabili negli Stati membri al rimpatrio di cittadini di paesi terzi il cui soggiorno è irregolare, nel combinato disposto con la direttiva 2005/85/CE del Consiglio, del 1° dicembre 2005, recante norme minime per le procedure applicate negli Stati membri ai fini del riconoscimento e della revoca dello status di rifugiato, nonché alla luce del principio di non-refoulement e del diritto ad un ricorso effettivo, sanciti dall’articolo 18, dall’articolo 19, paragrafo 2, e dall’articolo 47 della Carta, dev’essere interpretata nel senso che non osta all’adozione di una decisione di rimpatrio ai sensi dell’articolo 6, paragrafo 1, della direttiva stessa, nei confronti di un cittadino di un paese terzo che abbia proposto domanda di protezione internazionale, direttamente a seguito del rigetto di tale domanda da parte dell’autorità competente ovvero cumulativamente con il rigetto stesso in un unico atto amministrativo e, pertanto, anteriormente alla decisione del ricorso giurisdizionale proposto avverso il rigetto medesimo”, ma purché “lo Stato membro interessato garantisca la sospensione di tutti gli effetti giuridici della decisione di rimpatrio nelle more dell’esito del ricorso”. Tale principio è stato ribadito in numerose altre pronunce: si veda anche Corte di giustizia dell’Unione Europea, sentenza 30 maggio 2013, C-534/11, Arslan, secondo cui: a) l’articolo 2, paragrafo 1, della direttiva 2008/115/CE (cd. direttiva rimpatri) del Parlamento europeo e del Consiglio, del 16 dicembre 2008, recante norme e procedure comuni applicabili negli Stati membri al rimpatrio di cittadini di paesi terzi il cui soggiorno è irregolare, in combinato disposto con il considerando 9 di quest’ultima, deve essere interpretato nel senso che tale direttiva non è applicabile al cittadino di un paese terzo che ha presentato una domanda di protezione internazionale ai sensi della direttiva 2005/85/CE del Consiglio, del 1° dicembre 2005, recante norme minime per le procedure applicate negli Stati membri ai fini del riconoscimento e della revoca dello status di rifugiato, e ciò durante il periodo che intercorre tra la presentazione di tale domanda e l’adozione della decisione dell’autorità 14di primo grado che si pronuncia su tale domanda o fino all’esito del ricorso che sia stato proposto avverso tale decisione (nello stesso senso, tra le altre, Cass civ. 19819/2018 e Cass. Pen. 49242/2017 in materia di espulsione quale misura di sicurezza). Viola, altresì, il divieto di respingimento per il caso in cui il richiedente rischi di essere sottoposto a persecuzione, pena di morte o trattamenti inumani e degradanti. Tale divieto è, infatti, assoluto e non comprimibile al pari del divieto di tortura (art 33 della convenzione di Ginevra, art 3 della CEDU, art 19 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea, art. 6 del Patto internazionale sui diritti civili e politici). Nella Convenzione contro la Tortura viene espresso il carattere assoluto di tale obbligo, senza eccezioni o clausole di esclusione rispetto ad esso e la Corte EDU ha più volte ribadito il carattere assoluto del principio di non-refoulement, non bilanciabile nemmeno con l’interesse alla sicurezza dello stato (v. ad es. Chahal c. France, 15 novembre 1996, Saadi c. Italia, sentenza del 28 febbraio 2008). “Pertanto, gli Stati hanno l’obbligo di procedere a esami individuali e di assicurare ai richiedenti le garanzie proprie di un procedimento equo, prevedendo il diritto di appello avverso le decisioni negative” (così Comitato Onu contro la tortura, 9 febbraio 2018, General Comment n. 4 sull’attuazione dell’articolo 3 della Convenzione contro la tortura e altri trattamenti o punizioni crudeli, inumani o degradanti del 1984 nel contesto dell’articolo”.
Secondo una recentissima sentenza dei giudici della Corte di Giustizia dell’Unione Europea, “la decisione di revocare o rifiutare lo status di rifugiato non permette di (negare) tale status – né i diritti che derivano dalla Convenzione di Ginevra – o di rimpatriare l’extracomunitario se ci sono “fondati timori” che sia perseguitato nel suo paese di origine. Prevalgono, quindi, i fondamenti della Carta dei diritti fondamentali dell’Ue che vieta il respingimento in un Paese dove la sua vita o la sua libertà possano essere minacciate e dove siano in vigore la tortura, pene e trattamenti inumani o degradanti. La Corte Ue in sostanza ha stabilito che il diritto dell’Unione riconosce ai rifugiati interessati una protezione internazionale più ampia di quella assicurata dalla Convenzione di Ginevra”. Purtroppo l’Unione Europea si è divisa sull’applicazione dei principi di solidarietà ed ha trovato intese solo sul rafforzamento delle misure repressive. A Lampedusa si è fatta una sperimentazione delle misure di respingimento collettivo dei naufraghi soccorsi dalle ONG ed adesso nei confronti delle stesse persone si stanno applicando misure limitative della libertà personale in aperto contrasto con le normative europee e con il diritto interno.
L’ Art. 10-ter (Disposizioni per l’identificazione dei cittadini stranieri rintracciati in posizione di irregolarità sul territorio nazionale o soccorsi nel corso di operazioni di salvataggio in mare) del Testo Unico 286 del 1998, come modificato dalla legge n. 46 del 2017, prevede che:
1. Lo straniero rintracciato in occasione dell’attraversamento irregolare della frontiera interna o esterna ovvero giunto nel territorio nazionale a seguito di operazioni di salvataggio in mare è condotto per le esigenze di soccorso e di prima assistenza presso appositi punti di crisi allestiti nell’ambito delle strutture di cui al decreto-legge 30 ottobre 1995, n. 451, convertito, con modificazioni, dalla legge 29 dicembre 1995, n. 563, e delle strutture di cui all’art. 9 del decreto legislativo 18 agosto 2015, n. 142. Presso i medesimi punti di crisi sono altresì effettuate le operazioni di rilevamento fotodattiloscopico e segnaletico, anche ai fini di cui agli articoli 9 e 14 del regolamento UE n. 603/2013 del Parlamento europeo e del Consiglio del 26 giugno 2013 ed è assicurata l’informazione sulla procedura di protezione internazionale, sul programma di ricollocazione in altri Stati membri dell’Unione europea e sulla possibilità di ricorso al rimpatrio volontario assistito.
In base all’art. 4 del decreto legge sicurezza convertito nella legge 132/2018, all’articolo 13, comma 5-bis , del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, dopo le parole «centri disponibili» sono inseriti i seguenti periodi: «, ovvero salvo nel caso in cui non vi sia disponibilità di posti nei Centri di cui all’articolo 14 ubicati nel circondario del Tribunale competente.
In tale ultima ipotesi il giudice di pace, su richiesta del questore, con il decreto di fissazione dell’udienza di convalida, può autorizzare la temporanea permanenza dello straniero, sino alla definizione del procedimento di convalida in strutture diverse e idonee nella disponibilità di pubblica sicurezza. Qualora le condizioni di cui al periodo precedente permangono anche dopo l’udienza di convalida, il giudice può autorizzare la permanenza, in locali idonei presso l’ufficio di frontiera interessato, sino all’esecuzione dell’effettivo allontanamento e comunque non oltre le quarantotto ore successive all’udienza di convalida. Le strutture ed i locali di cui ai periodi precedenti garantiscono condizioni di trattenimento che assicurino il rispetto della dignità della persona.».
Nel nostro ordinamento non ricorrono altre disposizioni di legge che riguardano i respingimenti immediati ed i cd. “Punti di crisi” altrimenti definiti come Hotspot. I centri Hotspot, rimangono totalmente rimessi alla discrezionalità delle forze di polizia, al di là delle scarne previsioni legislative contenute nell’art. 10 ter del testo unico n.286/98. In queste strutture possono essere trattenute le persone migranti fino a 30 giorni, e rimangono nel vago le possibilità di convalida del trattenimento, perchè di questo si tratta, da parte dell’autorità giudiziaria. Perplessità al riguardo erano state espresse anche dall’UNHCR, e dall’Associazione nazionale Magistrati (vedi in nota) nella fase di conversione del decreto 113 del 2018, ma non erano state prese in considerazione, e sono trascurate anche dalla circolare applicativa diffusa dal ministero. Sembra che si diano per scontati rimpatri di massa che i paesi di origine stanno continuando a rifiutare, anche quelli che hanno concluso con l’Italia accordi di riammissione.
L’utilizzo della circolare amministrativa rimane lo strumento principale di conformazione della condizione giuridica dei migranti i Italia, in patente violazione della riserva di legge prevista dall’art. 10 della Costituzione. Nella Circolare del 18 dicembre 2018 ( con un correlato Dossier informativo pieno di errori) diramata dal ministero dell’interno ai prefetti ed ai questori per le prime fasi di applicazione della legge 132/2018 si scrive che “..la nuova linea operativa di governo” sull’immigrazione sarebbe quella di “..riportare, nel medio periodo, l’intero sistema nazionale a una gestione ordinata e sostenibile basata su canali legali d’ingresso e sul rimpatrio degli immigrati in condizioni di soggiorno irregolare, esposti al rischio di marginalità sociale e di coinvolgimento in attività illegali” .
In realtà la mancanza di canali legali di ingresso e la assimilazione dei naufraghi ai cd. “clandestini” ha comportato una maggiore difficoltà nell’accesso alla procedura di protezione internazionale, soprattutto dopo l’abolizione della cd. protezione umanitaria, ed una forte attenuazione del regime delle garanzie per coloro che comunque riuscivano a manifestare la volontà di chiedere protezione in Italia.
La diffusione della criminalizzazione dei migranti irregolari, ottenuta attraverso l’attacco alle attività di ricerca e salvataggio operate dalle ONG, e quindi con la diffusione dell’odio verso gli stranieri tutti, ha innescato uno scontro sociale che pregiudica la possibile convivenza, per fare fronte alle ricorrenti crisi economiche, senza che si scateni la cd. “guerra tra poveri”. Si assiste così ad una riduzione sostanziale delle garanzie dello stato di diritto, con una violazione istituzionalizzata del principio dell’habeas corpus che si nota già a partire dall’Approccio Hotspot.
Nonostante le ripetute segnalazioni critiche da parte del Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale, da anni si continua a consentire alle forze di polizia il trattenimento amministrativo negli Hotspot oltre i termini previsti dalla legge, anche nel caso di minori, come si è verificato negli Hotspot di Lampedusa e Taranto
Occorre una modifica radicale della disciplina attuale della normativa contenuta negli articoli 10 e seguenti del Testo unico sull’immigrazione 286/98, già modificata dalla legge Bossi-Fini del 2002 e dai successivi pacchetti sicurezza, da quelli di Maroni nel 2009, a quelli di Minniti e Salvini negli ultimi anni. La Corte Costituzionale e la Corte di Cassazione hanno già fornito indirizzi assai chiari, che adesso non dovrebbero essere rimessi in discussione per effetto dei mutati rapporti di forza tra politica e magistratura. La permanenza nei centri Hotspot non può superare le 96 ore, salvo una convalida giurisdizionale del trattenimento amministrativo, che comunque dovrà proseguire non più nell’Hotspot ma in un CPR ( centro per i rimpatri).
Qualsiasi limitazione della libertà personale, anche quella all’interno degli Hotspot o di altre strutture di trattenimento amministrativo individuate dalle questure, come le zone di transito portuale, rimane soggetta alle garanzie ed ai limiti dettati dall’art. 13 della Costituzione italiana. Si deve intensificare il monitoraggio dei centri Hotspot, per ora sottratti a qualsiasi controllo esterno, e dei voli di rimpatrio. Occorre ricondurre al principio di legalità i centri Hotspot e sospendere tutti i rimpatri verso stati che non rispettano i diritti umani, come l’Egitto, paese verso il quale sono riprese le procedure di allontanamento con accompagnamento forzato, già sospese in precedenza.
Riportiamo qui le osservazioni dell’Associazione nazionale magistrati (ANM) in ordine alla nuova disciplina del trattenimento amministrativo all’interno dei centri Hotspot ed in altre strutture a disposizione dell’autorità di polizia, introdotta dal Decreto legge sicurezza 113/2018, poi convertito nella legge 132/2018.
Trattenimento del richiedente asilo – Il D.L. introduce una nuova ipotesi di trattenimento del richiedente asilo (art 3 comma 1 DL 113/2018 lettera a), attraverso l’inserimento del comma 3 bis all’art 6 del D.lvo n. 142/2015 (che costituisce il recepimento della cd. direttiva accoglienza 2013/33/UE), che può essere disposta al solo fine di verificarne l’identità o la cittadinanza. E’ previsto un trattenimento per un periodo massimo di 30 giorni nei cc.dd. Hot spot (strutture di cui all’art 10 ter comma 1 del TUI) e, ove in tale periodo non sia stata possibile tale verifica, è previsto un ulteriore periodo massimo di 180 giorni di trattenimento nei centri di permanenza per il rimpatrio (CPR). La norma contiene erroneamente il riferimento al solo comma 5 dell’art 14 del TUI, ma deve ritenersi che valga il riferimento a tutta la norma di cui all’art 14 che disciplina il procedimento di convalida del trattenimento secondo le scansioni previste dall’art. 13 della costituzione. La norma non sembra prevedere il procedimento di convalida per il trattenimento negli Hotspot, ma esso deve ritenersi applicabile anche a tale fase del trattenimento, pena la manifesta illegittimità costituzionale per violazione dell’art 13 della Costituzione. Desta perplessità la previsione di un trattenimento che può arrivare anche fino a 7 mesi per i soli fini identificativi. Se è vero che l’art 8 della direttiva UE 2013/33 (c.d. “direttiva accoglienza”) stabilisce che tale forma di trattenimento può essere adottata nei confronti dei richiedenti asilo”, la stessa norma dispone, però, che “gli Stati membri non trattengono una persona per il solo fatto di essere un richiedente” e stabilisce, altresì, che il trattenimento deve essere disposto caso per caso in circostanze eccezionali e solo ove non sia possibile applicare misure meno afflittive. 10La norma introdotta troverà, invece, applicazione per la quasi totalità dei richiedenti asilo i quali, proprio perché fuggiti dal proprio paese per conflitti o persecuzioni ed arrivati in Italia dopo un difficile percorso migratorio (si pensi al passaggio nei centri di detenzione libici), saranno di regola sforniti di documenti di viaggio. La previsione in commento non trova giustificazione nella finalità dichiarata. L’art. 2 comma 7, ultimo periodo, del TU immigrazione (D.lvo n. 286/1998), in ossequio alle convenzioni internazionali in materia cui l’Italia ha aderito ed al diritto eurounitario, vieta a qualsiasi autorità o pubblico servizio di contattare le autorità diplomatiche o consolari dello straniero: a) che intenda presentare domanda di asilo o la cui domanda sia pendente in sede amministrativa; b) la cui domanda sia stata rigettata ma lo straniero si trovi nei termini previsti dalla legge per esercitare il diritto a presentare ricorso in sede giurisdizionale, ovvero il ricorso sia pendente innanzi all’autorità giudiziaria; c) cui sia stata riconosciuta la protezione internazionale. L’identificazione del richiedente asilo – da effettuarsi in base al regolamento UE EURODAC (613/2013 del 26 giugno 2013) ed al regolamento UE EUROPOL (794/2016 del 11 maggio 2016), introdotti ai fini dell’applicazione del Regolamento di Dublino e del contrasto alla criminalità organizzata ed al terrorismo – prevede procedure veloci che consistono nel rilievo delle impronte digitali e nel fotosegnalamento, con inserimento dei relativi esiti nella banca dati europei. Nel sistema precedente solo il rifiuto reiterato di sottoporsi alla procedura di identificazione (art 10 ter TU immigrazione) veniva considerato rischio di fuga giustificante il trattenimento. Non si giustifica, pertanto, un trattenimento che può arrivare anche a 7 mesi complessivi per una procedura di identificazione, prevista dai regolamenti indicati e già applicata nei cc.dd. hot spot, che può essere conclusa in poche ore.La previsione, poi, della possibilità che il trattenimento possa avvenire in “strutture idonee nella disponibilità dell’Autorità di Pubblica Sicurezza”, sembra costituire violazione dell’art. 10 della direttiva accoglienza (2013/33/UE) che prevede che il trattenimento possa di regola avvenire in appositi centri di trattenimento, ove, sempre in forza del medesimo art. 10, possano accedere, senza limitazioni, rappresentanti dell’UNHCR, familiari del richiedente, avvocati, consulenti e rappresentati delle ONG, accessi questi ultimi che paiono non compatibili con le attività che ordinariamente si svolgono nei locali nella disponibilità dell’autorità di pubblica sicurezza. Le esigenze sopra descritte, derivanti da obblighi di legge, non vengono soddisfatte dall’aggiunta – contenuta nella parte finale del comma 1 dell’art 4, nel testo licenziato al Senato della legge di conversione – del periodo “Le strutture ed i locali di cui ai periodi precedenti, garantiscono condizioni di trattenimento che assicurino il rispetto della dignità della persona”, integrando queste ultime la pre-condizione minima di qualsiasi restrizione della libertà personale che, però, non garantisce il rispetto degli ulteriori diritti fondamentali, come sopra richiamati.
(Articolo redatto dal professor Fulvio Vassallo Paleologo il 24 agosto 2019 per Adif, Associazione Diritti e Frontiere)