Tenere il timone, magari temporaneamente, oppure adoperarsi per quietare risse o agitazione a bordo di una barca di migranti non è prova d’essere scafisti. Da anni, in ambienti investigativi specifici, era chiaro che di scafisti in Italia quasi non se ne vedevano più. Le motivazioni della sentenza emessa dalla Corte d’Assise di Palermo che ha assolto sette presunti scafisti mettono in discussione tutto il metodo con cui negli ultimi anni sono stati individuati i favoreggiatori dell’immigrazione clandestina. Nel più dei casi bastavano delle foto scattate da bordo motovedetta che intercettava l’imbarcazione oppure dal velivolo che lo avvistava durante una ricognizione per rinviare a giudizio delle persone per le ipotesi d’accusa di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e, nel caso dei sette assolti, di omicidio plurimo. L’episodio è quello dell’agosto del 2015, quando un barcone gremito con 494 persone venne salvato dalla nave Poseidon della Guardia Costiera svedese che sbarcò tutti a Palermo il 27 agosto del 2015. Nella stiva del barcone c’erano 53 persone morte di asfissia. Costrette in assenza d’aria per il sovraffollamento di un vano alto un metro e mezzo e con soli due piccoli boccaporti chiusi, 53 delle circa cento persone stipate sono state uccise come nella più orribile camera a gas: inalando i fumi di scarico del motore. Di queste, 52 già a bordo del barcone ed una deceduta dopo il ricovero ospedaliero.
In quel caso, i rinviati a giudizio erano stati indicati da testimoni a bordo dello stesso barcone. Il racconto dei testimoni che ha permesso l’arresto dei sette presunti scafisti non era stato confermato da altre testimonianze rese dagli altri migranti presenti a bordo. La sentenza rivede quindi drasticamente il metodo di investigazione sui ruoli che scafisti o trafficanti potrebbero avere a bordo, anche se ciò si applica con maggiore aderenza ai gommoni ed alle piccole barche ma certo non ai barconi. In questi ultimi, ormai rarissimi, esiste ancorala gestione diretta dei trafficanti con la figura dello scafista. Probabilmente sul barcone in cui vennero uccise per asfissia 53 persone c’erano davvero degli scafisti, magari anche sette, ma dimostrare che gli assassini fossero loro ha bisogno di maggiori prove. Anche e soprattutto a tutela di presunti innocenti. Se un gruppo ostile ad un altro decidesse di indicare degli innocenti quali scafisti, magari proprio gli stessi veri scafisti e qualche altra persona sotto minaccia, si finirebbe per condannare degli innocenti e mettere in libertà i colpevoli accusatori.
I presunti scafisti, assolti dalla Prima Sezione della Corte d’Assise di Palermo il 26 febbraio 2019, erano quattro cittadini marocchini, due siriani ed uno libico. I dettagli che li avevano portati all’arresto e poi in Tribunale erano stati accertati il 27 agosto del 2015 e per il primo grado di giudizio sembrava non esserci scampo per i sette imputati. Per i sette scafisti era stata chiesta dal pubblico ministero la pena del carcere a vita. Le richieste dei legali difensori si costituivano di assoluzioni per non aver commesso il fatto, perché il fatto non costituisce reato o perché il fatto è stato commesso in stato di necessità e, per altro caso, la riqualificazione dell’omicidio volontario in morte come conseguenza di altro delitto. La Corte, prima di esporre i fatti accertati nel dibattimento, ha tenuto a precisare nelle motivazioni di sentenza “l’assoluta peculiarità della vicenda” che impegna i giudici “nell’ambito dell’assai complesso fenomeno migratorio, in un momento storico del tutto unico, sotto ogni profilo”.
Premessa a parte, se pur da prendere con estrema attenzione e quale ennesimo segnale d’allarme dei Tribunali verso le pressioni che il “momento storico” impone, la Corte ha contestato aspetti delle prove a carico dei sette imputati di obiettivo interesse e valore. Uno di questi maldestri metodi investigativi evidenziati dai giudici di Palermo è stato il reperimento di testimoni non di diverse etnie e non posti in zone diverse del barcone. I potenziali testimoni ed i presunti scafisti e/o trafficanti inoltre avevano viaggiato tutti insieme dal punto di soccorso fino al porto di Palermo. Nessuna separazione era avvenuta a bordo della nave tra sospettati e vittime. Tante le anomalie procedurali contestate dalla Corte d’Assise, ma tutte in prevalenza incentrate sull’operato degli svedesi che hanno così “imposto” all’ufficiale di collegamento con le autorità italiane, e poi a tutto l’apparato giudiziario del Paese che si è fatto carico del caso, indiziati e collaboratori senza gli accorgimenti che gli investigatori italiani avrebbero potuto prendere se avessero gestito in prima persona la primissima attività investigativa a bordo. I sette imputati, come disposto dalla Prima sezione della Corte d’Assise di Palermo sono quindi liberi.
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