di Fulvio Vassallo Paleologo
Si apprende da rare fonti giornalistiche, nella censura della maggior parte dei media, dell’ennesima protesta all’interno del Centro per i rimpatri (CPR) di Ponte Galeria a Roma, sfociata nell’incendio di parte della struttura.
Come si è appreso da Fanpage.it, c’è stata” Rivolta al centro di accoglienza di Ponte Galeria, dove questa mattina ( 20 settembre, n.d.a.) i migranti hanno dato vita a una protesta all’interno della struttura. Quattro sezioni del reparto maschile – in cui sono recluse 122 persone – sono andate a fuoco: sembra che un gruppo di cittadini nigeriani non volesse essere rimpatriato e per questo hanno dato alle fiamme alcuni materassi. Secondo quanto appreso da Fanpage.it, non ci sarebbero feriti nel rogo né tra i migranti né tra le forze dell’ordine. Le fiamme, inoltre, sarebbero state domate entro brevissimo tempo”.
Secondo Il Messaggero ” Il centro, che fa parte degli ex Centri di identificazione ed espulsione (CIE), non è nuovo a questo tipo di episodi: lo scorso 5 luglio, infatti, era finito sulle prime pagine dei giornali per la fuga di 13 migranti ospitati al suo interno tra cui si sospettava esserci anche un sospetto jiadista. Pochi giorni dopo, martedì 9 luglio era scattata una nuova rivolta. Anche quella volta erano stati dati alle fiamme dei materassi ed erano state scardinate delle porte. La struttura tra l’altro era stata riaperta solo a fine maggio dopo quattro anni di chiusura e importanti lavori di restauro dovuti proprio a un incendio appiccato nei dormitori, all’epoca resi inagibili”.
Gli effetti delle politiche repressive
Spesso gli effetti disastrosi delle politiche migratorie basate sulla chiusura dei canali legali di ingresso e sulla riduzione alla clandestinità di persone che avrebbero potuto completare un percorso di regolarizzazione, rimbalzano da una legislatura ad un’altra, da un governo ad un’altro.
E chi si ritrova all’opposizione, come in questo momento la lega, rimprovererà ai suoi avversari al governo esattamente gli stessi effetti prodotti dalle proprie politiche di guerra alle ONG e di clandestinizzazione dei cosiddetti migranti economici, derivanti da interpretazioni sempre più restrittive delle normative in materia di protezione internazionale e dalla mancata adozione di decreti flussi per ingressi annuali o per lavoro stagionale. Le politiche da sempre dominanti per il timore di perdere il consenso di un elettorato ormai assuefatto ai richiami all’odio ed all’esclusione.
Mentre si è concentrata tutta l’attenzione sulle poche centinaia di naufraghi soccorsi dalle ONG, si è cercato di nascondere come in realtà proseguissero a migliaia, seppure in misura assai ridotta rispetto agli anni precedenti al 2016, gli arrivi di migranti economici costretti alla traversata per entrare in Italia e lavorare, dopo che gli ultimi governi avevano precluso qualsiasi possibilità di ingresso per lavoro. Nello stesso tempo una quantità assai più rilevante di persone, private della possibilità di accedere alla protezione umanitaria ed alla conseguente integrazione nella regolarità, sono state costrette a riversarsi come “clandestini”, brutto termine ormai rientrato nel linguaggio comune, nel mercato del lavoro nero, in agricoltura e non solo, anche nei servizi e nell’edilizia, al sud, ma anche nelle regioni settentrionali. A questi si vanno aggiungendo migliaia di “dublinati”, immigrati richiedenti asilo che giunti in altri paesi europei sono stati respinti in Italia perché registrati in Italia come primo paese di ingresso nell’Unione Europea. Una responsabilità in più per quei partiti che, a livello europeo, hanno sabotato la riforma del Regolamento Dublino che il Parlamento europeo lo scorso anno, aveva varato dopo un difficile compromesso.
Si è così creato in Italia un gruppo assai numeroso, si calcola attorno alle 300-400 mila persone, di immigrati ormai definitivamente privi di uno statuto legale. Rispetto a questo elevatissimo numero di persone, in gran parte senza precedenti penali ed alla mercè dello sfruttamento lavorativo, considerate in blocco come un pericolo per la sicurezza pubblica, se non come contenitore di possibile minacce terroristiche, si è risposto soltanto con l’impegno per dare una maggiore effettività al regime delle espulsioni. Attraverso un rafforzamento del sistema dei centri di detenzione amministrativa, che adesso si chiamano CPR, Centri per i rimpatri, e da ultimo con il mantra dei voli di rimpatrio che potrebbero essere finanziati dall’Unione Europea.
Nulla di tutto questo apparato repressivo potrà avere successo, e si potrà soltanto inasprire lo scontro dall’interno ed all’esterno dei centri di detenzione amministrativa, a cui vengono assimilati alcuni centri Hotspot, che piuttosto da fungere come strutture di identificazione e selezione dei richiedenti asilo e delle vittime vulnerabili, stanno diventando, come nel caso di Lampedusa, strutture detentive finalizzate al trattenimento amministrativo in vista del respingimento immediato.
Hanno puntato su queste politiche repressive i governi Renzi e Gentiloni, tutti ricorderanno il Piano sui CPR lanciato da Minniti nella primavera del 2017, e stava ripetendo la stessa politica il governo Cinquestelle-Lega, con toni più discreti di quelli usati contro le ONG perché da subito appariva irrealizzabile la promessa elettorale fatta durante la campagna delle politiche del marzo 2018, quando Salvini e la Meloni andavano raccattando voti promettendo centinaia di migliaia di espulsioni all’anno. espulsioni che naturalmente non si sono verificate, perché non era possibile realizzarle, vuoi per i costi insostenibili, che per la mancata collaborazione dei paesi di origine.
La gestione dei CPR e degli Hotspot
Lo snodo centrale delle politiche di repressione e di contrasto dell’immigrazione, tutta, e non solo di quella cosiddetta irregolare, è costituito dal sistema dei centri per i rimpatri (CPR) e dagli Hotspot che vengono utilizzati non come centri di prima accoglienza ma, come a Lampedusa, come veri e propri centri di trattenimento in vista dell’espulsione o del respingimento.
Oggi i centri di permanenza per rimpatri attivi in Italia sono solo sette, a Caltanissetta (Pian del lago), Trapani (Milo), Bari, Brindisi, Palazzo San Gervasio (Potenza), Roma e Torino, per una capienza complessiva di 900 posti sulla carta, ma i livelli di occupazione sono spesso inferiori, Si rimane comunque lontani dalla realizzazione in ogni regione italiana di un centro di detenzione amministrativa finalizzato ai rimpatri con accompagnamento forzato. Il piano nazionale che prevedeva ben 12 nuovi centri per i rimpatri (CPR) per 1600 posti complessivi, presentato dal precedente ministro dell’interno Marco Minniti nel febbraio del 2017, è stato sostanzialmente ripreso dal suo successore al Viminale, ma continua ad incontrare le stesse difficoltà sollevate dalle comunità residenti e dagli enti locali di diversa caratterizzazione politica. Intanto aumenta di continuo la platea dei soggetti che trovandosi in una condizione di irregolarità, potrebbero essere rinchiusi in un centro di detenzione amministrativa, anche se le prospettive di una effettiva esecuzione del rimpatrio forzato sono praticamente nulle.
Desta particolare preoccupazione la nuova norma già introdotta con il decreto Salvini n.113 del 2018, che prevede il trattenimento amministrativo per trenta giorni dei richiedenti asilo nei centri Hotspot o in altri luoghi scelti dall’autorità di polizia. Con la possibilità che tale trattenimento prosegua in un centro per i rimpatri (CPR) per altri sei mesi.
L’articolo 2 della legge n.132/2018 (conversione del decreto legge n.113/2018) ha poi stabilito il prolungamento da 90 a 180 giorni del trattenimento di tutte le persone comunque internate in un centro per i rimpatri (CPR), prevedendo procedure semplificate per gli appalti diretti alla costruzione o alla ristrutturazione di nuovi CPR. Ma i lavori procedono a rilento ed anche le strutture di Gradisca di Isonzo e di Milano (via Corelli) non sono ancora andate a regime. Si parla anche di riconvertire in CPR il centro di accoglienza di Via Mattei a Bologna, una struttura che già in passato era stata utilizzata come CIE ( Centro di identificazione ed espulsione).
Come ha osservato l’Associazione Nazionale Magistrati (ANM), <<La norma non sembra prevedere il procedimento di convalida per il trattenimento negli Hotspot, ma esso deve ritenersi applicabile anche a tale fase del trattenimento, pena la manifesta illegittimità costituzionale per violazione dell’art 13 della Costituzione. Desta perplessità la previsione di un trattenimento che può arrivare anche fino a 7 mesi per i soli fini identificativi. Se è vero che l’art 8 della direttiva UE 2013/33 (c.d. “direttiva accoglienza”) stabilisce che tale forma di trattenimento può essere adottata nei confronti dei richiedenti asilo”, la stessa norma dispone, però, che “gli Stati membri non trattengono una persona per il solo fatto di essere un richiedente” e stabilisce, altresì, che il trattenimento deve essere disposto caso per caso in circostanze eccezionali e solo ove non sia possibile applicare misure meno afflittive. Si aggiunge, poi, che la possibilità che il trattenimento possa avvenire in “strutture idonee nella disponibilità dell’Autorità di Pubblica Sicurezza”, sembra costituire violazione dell’art. 10 della direttiva accoglienza (2013/33/UE) che prevede che il trattenimento possa di regola avvenire in appositi centri di trattenimento, ove, sempre in forza del medesimo art. 10, possano accedere, senza limitazioni, rappresentanti dell’UNHCR, familiari del richiedente, avvocati, consulenti e rappresentati delle ONG, accessi questi ultimi che paiono non compatibili con le attività che ordinariamente si svolgono nei locali nella disponibilità dell’autorità di pubblica sicurezza. Le esigenze sopra descritte, derivanti da obblighi di legge, non vengono soddisfatte dall’aggiunta – contenuta nella parte finale del comma 1 dell’art 4, nel testo licenziato al Senato della legge di conversione – del periodo “Le strutture ed i locali di cui ai periodi precedenti, garantiscono condizioni di trattenimento che assicurino il rispetto della dignità della persona”, integrando queste ultime la pre-condizione minima di qualsiasi restrizione della libertà personale che, però, non garantisce il rispetto degli ulteriori diritti fondamentali, come sopra richiamati>>.
Non è certo un caso che le rivolte, le ribelllioni, i pestaggi, i tentativi di fuga, si ripetano con cadenza quotidiana, sia nei CPR che negli Hotspot, dopo il prolungamento dei termini di trattenimento mentre la confusione dei richiedenti asilo con gli immigrati irregolari aggrava ulteriormente il clima di tensione. Episodi isolati di rivolta, ma diffusi sul territorio, coperti finora da una rigorosa censura che ha coinvolto anche gli operatori legali e le associazioni impegnate all’interno di queste strutture. Dal CPR di Pian del lago a Caltanissetta, fino al CPR di Torino, dove a luglio è morto un bengalese, e di Gradisca di Isonzo, dove peraltro risultano indagati due prefetti per gravi irregolarità amministrative.
Non è dunque solo il centro Hotspot di Lampedusa, ad essere in ebollizione, come si vorrebbe far credere, ed invero la situazione di “emergenza” derivante del doppio delle persone internate rispetto alla capienza della struttura ( circa 200 su 98 posti disponibili), non si può paragonare con il grave affollamento del centro di Lampedusa nel 2011 ( fino a 2000 persone rinchiuse all’interno della struttura, poi parzialmente bruciata a seguito di un incendio appiccato durante una manifestazione di protesta) quando era ministro dell’interno un certo Roberto Maroni della lega, una situazione che si caratterizzava per quegli illeciti amministrativi che, irrilevanti per la giustizia italiana, comportarono poi la condanna dell’Italia da parte della Corte Europea dei diritti dell’Uomo sul caso Khlaifia.
La politica e le sue misure illegittime
La situazione sta diventando così incandescente che adesso non si può più nascondere, ed i partiti che dopo avere mal governato l’immigrazione con proclami d’odio e misure illegittime si ritrovano adesso all’opposizione hanno gioco facile a rilanciare allarmi derivanti dagli effetti perversi del loro stesso operato. Per questa ragione sarebbe auspicabile che i partiti di governo diano segni concreti di discontinuità, e magari anche di autocritica, ad esempio ripristinando l’istituto della protezione umanitaria e rendendo la disciplina delle espulsioni e della detenzione amministrativa più consona agli standard europei ed al dettato costituzionale. Vanno ripristinati rapporti con i paesi di origine in modo da creare canali di ingresso legale ed incentivi per i rimpatri volontari, abolendo i divieti di reingresso. Occorre un serio intervento sul mercato del lavoro per contrastare la evasione fiscale e contributiva e consentire l’emersione e la legalizzazione della maggior parte dei lavoratori “in nero”, non per il colore della pelle ma per le modalità violente dello sfruttamento che subiscono al di fuori della garanzia di un contratto di lavoro e di un permesso di soggiorno. Se per timore dei sondaggi elettorali non si potesse intervenire in questo campo, la situazione, dentro e fuori i centri di detenzione amministrativa, comunque denominati, diventerà insostenibile.
La Costituzione e la detenzione amministrativa
A partire dal 1998, con l’introduzione dei centri di permanenza temporanea e di assistenza (CPTA) per gli immigrati irregolari in attesa di espulsione, si è diffuso anche in Italia un diritto speciale che sanziona una violazione amministrativa con una forma di detenzione caratterizzata dalla discrezionalità dell’autorità di polizia, ben oltre i casi eccezionali ed urgenti in cui questo è consentito in base all’art. 13 della Costituzione italiana. In assenza di un’espressa previsione di reato la semplice presenza irregolare sul territorio o l’ingresso clandestino sono sanzionati con una misura amministrativa simile al domicilio obbligato, ma che nella sostanza risulta ancora più limitativa della libertà personale. La stessa misura viene attuata indifferentemente nei confronti dei richiedenti asilo denegati e degli immigrati che escono dal carcere dopo la espiazione della pena o la liberazione anticipata, o ancora per il venir meno delle esigenze cautelari, se in carcerazione preventiva, o perché assolti in quanto i fatti contestati non sussistevano. Per tutti, senza alcuna considerazione della condizione personale dei singoli, sulla base della semplice mancanza di un valido permesso di soggiorno, in qualche caso perduto proprio a seguito di una ingiusta carcerazione preventiva, si dispone l’espulsione e la misura del trattenimento in un centro di permanenza temporanea al fine di eseguire l’accompagnamento forzato in frontiera in tutti i casi nei quali la misura dell’allontanamento non possa effettuarsi immediatamente.
Già nei lavori preparatori della legge Turco- Napolitano , al tempo dell’istituzione di queste strutture, si richiamava l’art. 5 della Convenzione Europea a salvaguardia dei diritti dell’uomo, che consentirebbe al legislatore nazionale l’adozione di misure limitative della libertà personale “se si tratta dell’arresto o della detenzione legali di una persona per impedirle di penetrare irregolarmente nel territorio, o di una persona contro la quale è in corso un procedimento d’espulsione o d’estradizione”.
Il forte richiamo al principio di legalità contenuto nell’art. 13 della Costituzione italiana e nell’art. 5 della Convenzione EDU veniva tuttavia contraddetto da una frenetica attività normativa di contenuto assai generico, sovente anticipata da prassi amministrative derivanti da provvedimenti discrezionali del ministero dell’interno o delle sue articolazioni periferiche (Questori e Prefetti) destinati ad alimentare un diffuso contenzioso che si estendeva anche alla Corte di Cassazione ed alla Corte Costituzionale. In tempi più recenti anche con pronunciamenti della Corte di Giustizia dell’Unione Europea. Dopo ogni pronuncia della giurisprudenza che cercava di ristabilire il principio di legalità, si registravano altri interventi legislativi e di nuovo prassi amministrative che se ne discostavano, rendendo incerta l’effettiva garanzia dei diritti fondamentali delle persone, garantiti a tutti gli immigrati, indipendentemente dal loro stato giuridico regolare o irregolare, dall’art. 2 del Testo Unico sull’immigrazione n.286/98.
Con Decreto del 20 ottobre 2014 il Ministro dell’Interno approvava il Regolamento recante “criteri per l’organizzazione e la gestione dei centri di identificazione ed espulsione”, con l’intento di assicurare regole e livelli di accoglienza uniformi per l’organizzazione interna dei centri di identificazione ed espulsione istituiti nel territorio nazionale e per l’erogazione dei servizi all’interno degli stessi, quali previsti dal vigente Capitolato d’appalto. Una Circolare (n. 14183 del 25 novembre 2014) per l’attuazione di tale Regolamento è stata diramata dalla Direzione Centrale dei Servizi Civili per l’Immigrazione e l’Asilo del Dipartimento per le libertà civili e l’immigrazione ai Prefetti nel cui territorio si trovano Centri di Identificazione ed Espulsione Di particolare rilevanza è la “Carta dei diritti e dei doveri dello straniero nel CIE”, da consegnare in copia a ciascun straniero e che sancisce, tra gli altri, il diritto ad essere informato, ad esprimersi nella propria lingua o in altra conosciuta, libertà di culto, libertà di corrispondenza epistolare e telefonica. Dopo l’adozione di questo regolamento si è però diffusa la prassi di creare all’interno dei centri di detenzione spazi sottratti a qualsiasi controllo esterno, nei quali rinchiudere in isolamento persone afflitte da gravi patologie o in preda a disturbi psichici. In realtà queste zone sono diventate luoghi di internamento senza alcuna garanzia per i diritti delle persone che vi vengono rinchiuse, spesso come misura punitiva, che può preludere a veri e propri pestaggi. Tutto questo avviene per esclusiva determinazione dell’autorità di polizia, senza un effettivo controllo giurisdizionale, come quello che nelle carceri viene garantito dai giudici di sorveglianza.
I Dossier della Commissione parlamentare straordinaria per i diritti umani sui centri di identificazione ed espulsione, come erano denominati fino al 2017 e i Rapporti più recenti dell‘Autorità garante dei diritti dei detenuti e delle persone private della libertà personale, segnalano una serie di abusi che continuano a ripetersi nel tempo, senza che ci sia un efficace sistema sanzionatorio.
In realtà, ancora ad oltre venti anni dall’adozione della legge Turco Napolitano n.40 del 1998 che introdusse i centri di permanenza temporanea ed assistenza (CPTA), non sembra possibile qualificare la situazione di trattenimento nei centri di permanenza temporanea come un caso di “arresto o detenzione legale” perché il termine “legale” dovrebbe significare una piena conformità a tutte le leggi di un determinato ordinamento giuridico, senza trascurare il dettato costituzionale, e tale conformità alla legge fondamentale si dovrebbe escludere nel caso delle norme ed ai regolamenti che nel tempo hanno previsto e regolato i centri di detenzione per stranieri, affidandoli per intero alla discrezionalità amministrativa, e dunque ai decreti ministeriali, alle circolari ed alle direttive dello stesso Ministero dell’interno, ed alle decisioni di Prefetti e Questori.
La conformazione della misura detentiva sulla base della mera discrezionalità amministrativa, in assenza di una compiuta disciplina di legge, configura un aperto contrasto con gli articoli 3 ( parità di trattamento), 13 ( obbligo di controllo giurisdizionale sui provvedimenti amministrativi limitativi della libertà personale ed eccezionalità di tali provvedimenti) e 24 ( diritto di difesa per tutti, senza possibilità di differenze tra cittadini e stranieri) della Costituzione italiana.
Secondo l’art. 13 della Costituzione “non è ammessa alcuna forma di detenzione, di ispezione o di perquisizione personale, né qualsiasi altra restrizione della libertà personale, se non per atto motivato dall’autorità giudiziaria e nei soli casi e modi previsti dalla legge. In casi eccezionali di necessità ed urgenza, indicati tassativamente dalla legge, l’autorità di pubblica sicurezza può adottare provvedimenti provvisori, che devono essere comunicati entro quarantotto ore all’autorità giudiziaria, e se questa non li convalida nelle successive quarantotto ore, si intendono revocati e restano privi di ogni effetto. E’ punita ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizioni di libertà”.
Le norme regolamentari e le prassi amministrative sono andate ancora oltre e sono numerosi i casi in cui sono stati violati la riserva di legge (solo la legge può stabilire la condizione giuridica dello straniero) ed il diritto di asilo, riconosciuti dall’art. 10 della Costituzione, rispettivamente al secondo ed al terzo comma. Casi che la giurisprudenza ha rilevato con grande impegno, attirandosi per questo le ire dei rappresentanti dell’esecutivo che sono giunti ad imputare proprio alla magistratura la volontà di “sabotare” le leggi sull’immigrazione.
Malgrado la Corte costituzionale abbia sempre “salvato” i centri di permanenza temporanea, nelle sue pronunce vengono indicate modalità di applicazione delle norme, in senso conforme al dato costituzionale, che nella generalità dei casi vengono ancora oggi disattese. Le procedure amministrative relative al trattenimento rimangono infatti prive di una effettiva sede di ricorso, dal momento che , dopo l’espulsione o il respingimento, degli immigrati trattenuti nei CPR e negli Hotspot possono essere accompagnati in frontiera anche in pendenza del ricorso giurisdizionale , magari dopo avere subito violenze che nessuno perseguirà, come si è verificato a Caltanissetta nei giorni scorsi.
Già la Corte Costituzionale nel 2001 aveva segnalato la necessità di interpretare la normativa in materia di trattenimento dei migranti irregolari allora vigente in senso conforme alla Costituzione. Per effetto di questa pronuncia i magistrati di Milano che avevano sollevato la questione di costituzionalità delle disposizioni relative all’espulsione con accompagnamento forzato in frontiera riuscirono ad essere assolti nel procedimento disciplinare che era stato imbastito contro di loro per iniziativa del Ministro della Giustizia. Secondo la sentenza n. 105 del 2001 “il trattenimento dello straniero presso i centri di permanenza temporanea ed assistenza è misura incidente sulla libertà personale, che non può essere adottata al di fuori delle garanzie dell’art. 13 della Costituzione”. Anche successive decisioni degli organi giurisdizionali che confermavano tale orientamento ed annullavano centinaia di provvedimenti di espulsione o di trattenimento adottati senza rispettare le prescrizioni di legge suscitavano una violenta reazione da parte delle forze di governo che imputavano ad una parte della magistratura una applicazione eccessivamente “garantista” delle norme in vigore. Gravissimi esempi, questi, di come il potere esecutivo ( già in quel periodo) intendeva invadere l’ambito della giurisdizione, sferrando un pesante attacco allo stato di diritto e ad una delle norme più importanti della Costituzione repubblicana quell’art. 13 che i Costituenti vollero pensando agli arbitri di polizia commessi durante il periodo fascista.
Centri di detenzione e rimpatri, un rapporto inefficiente
Non si è peraltro riscontrata alcuna valenza dei Centri di detenzione amministrativa, variamente denominati nel tempo, nel contrasto della criminalità nei territori nei quali sono istituiti, sia per l’elevata percentuale dei migranti rimessi in libertà alla scadenza dei termini di trattenimento amministrativo, oltre il 60 per cento in media, sia per la ubicazione dei centri, in regioni prevalentemente caratterizzate da una diffusa criminalità mafiosa, come la Puglia e la Sicilia, regioni nelle quali i migranti, soprattutto se in condizioni di irregolarità, sono più spesso vittime, che compartecipi, delle organizzazioni criminali.
L’unica garanzia di sicurezza, per una società democratica, potrebbe essere costituita dall’adozione di procedure che comportino comunque una identificazione certa dei cosiddetti “clandestini”, già nell’immediatezza del loro ingresso nel territorio nazionale, favorendo poi la legalizzazione permanente ( e dunque la emersione dalla clandestinità anche in seguito ad autodenuncia) di quanti si trovano già nel nostro territorio e possono vantare una situazione di integrazione sociale ( ad esempio una residenza stabile ed un rapporto di lavoro), restando dunque nell’ambito delle garanzie proprie dello stato democratico, dello stato di diritto.
Una identificazione certa non legata ad una situazione detentiva, che spesso impone la dichiarazione di false generalità, sarebbe il metodo più efficace anche per distinguere i veri richiedenti asilo da quanti non lo sono, ma rimangono comunque vittime di un sistema perverso che nega ai migranti provenienti da sud non solo il riconoscimento del diritto di asilo ma anche una effettiva possibilità di ingresso per lavoro, impedendo in molti casi persino il ricongiungimento familiare o l’ingresso per motivi di salute o studio.
A fronte delle statistiche sulla percentuale di immigrati effettivamente allontanati tramite i centri di permanenza temporanea (non oltre il 50 per cento in media), queste strutture enormemente dispendiose, che sono costate alla collettività centinaia di milioni di euro, come rilevato anche nelle relazioni annuali della Corte dei Conti, dimostrano il fallimento delle politiche espulsive basate sul trattenimento forzato. I centri di permanenza temporanea hanno funzionato da fattore di esclusione sociale, più che di allontanamento effettivo, recidendo legami di integrazione già instaurati da anni, o fungendo da luogo di transito per richiedenti asilo ai quali veniva negato l’accesso alla procedura o il riconoscimento dello status, ma che si riteneva più comodo rimettere in libertà con un ordine in tasca (il decreto di respingimento differito) per l’uscita dal territorio entro pochi giorni dal rilascio: un ordine che non si può certo eseguire in assenza di mezzi e di documenti per l’espatrio, quei documenti che neppure lo Stato riesce a ricostruire.
Al di là dei centri di detenzione amministrativa, il costante aumento delle sanzioni penali previste a carico dei migranti irregolari impone di considerare il circuito CPT-Carcere come un ciclo unico di sanzione della mera presenza irregolare sul territorio, dopo il mancato rispetto del primo ordine di espulsione, mentre per la esecuzione delle espulsioni i nuovi accordi di riammissione prevedono forme estremamente rapide di allontanamento forzato degli immigrati trovati sul territorio italiano in condizioni di irregolarità, senza un effettivo controllo giurisdizionale. Ed in effetti i governanti europei si sono ormai accorti della impossibilità di contrastare l’immigrazione dei cd.”clandestini” attraverso lo strumento dei centri di detenzione, ricorrendo a forme sempre più violente di sbarramento dei confini (come a Ceuta e Melilla, enclavi spagnole in Marocco), di abbandono delle persone da soccorrere in mare, con il ritiro dei mezzi delle missioni militari o il loro disimpegno da operazioni di soccorso perché ritenute incentivanti le partenze, (pull facto), o a procedure sommarie e collettive di allontanamento forzato in frontiera eseguito immediatamente, senza neppure transitare in strutture detentive che comunque impongono un sia pur minimo controllo giurisdizionale sulla legittimità dell’operato delle forze di polizia.
La privazione della libertà personale
In conformità con le norme internazionali deve essere esclusa la privazione generalizzata della libertà personale dei richiedenti asilo. Le espulsioni ed i respingimenti dei migranti “economici” irregolari vanno limitati ai casi più gravi, sottoposte ad un diffuso controllo giurisdizionale, senza colpire le vittime del traffico ma contrastando le grande agenzie criminali nei luoghi dove queste prosperano indisturbate con la copertura di quei governi che poi concludono accordi di riammissione con l’Italia. Sono 20 anni che le associazioni hanno denunciato i loschi traffici che si svolgono a Malta, in Grecia ed in Turchia (come non ricordare le tante indagini assai documentate di Dino Frisullo?), ma in questa direzione ancora oggi si preferisce stipulare accordi con gli stati che rimangono inerti di fronte alle organizzazioni criminali che operano sul loro territorio e non si curano dei diritti umani dei migranti che sono vittime del traffico.
Va riaffermato il primato del diritto dell’Unione Europea sul diritto nazionale contrastante, ribadendo i principi stabiliti dalla giurisprudenza della stessa Corte di Strasburgo e della Corte di Giustizia dell’Unione Europea. I giudici europei hanno fornito una rigorosa interpretazione dell’art. 5 della CEDU, ribadendo i limiti delle misure restrittive della libertà personale applicate su iniziativa delle autorità di polizia a carico degli immigrati irregolari e le garanzie correlate, anche nei casi di trattenimento amministrativo, in cui, in vista dell’allontanamento forzato del cittadino straniero, si proceda alla sua identificazione e quindi alla preparazione del rimpatrio.
Vanno riconosciuti a chiunque – anche se immigrato irregolare- i diritti fondamentali della persona umana sanciti da tutte le Costituzioni moderne. La criminalità e il terrorismo si sconfiggono con azioni mirate, con la identificazione certa dei sospetti, con l’inclusione ed il coinvolgimento delle comunità degli immigrati, e non certo con l’internamento di massa in strutture come i centri per i rimpatri (CPR), funzionali all’ attribuzione di identità mirate soltanto all’esecuzione più rapida dell’espulsione, ma destinate comunque a fallire. Non si vede poi dove e come aprire tanti centri di detenzione amministrativa per garantire davvero maggiore effettività alle misure di allontanamento forzato di massa, a meno di non utilizzare gli stadi, come si fece in Puglia alla fine del secolo scorso, per contrastare l’”orda” degli albanesi. Persone che oggi sono perfettamente inserite in Italia.
Occorre ritornare a politiche migratorie inclusive, e abbandonare la logica delle leggi manifesto che hanno moltiplicato a dismisura la sanzione penale della presenza irregolare dei migranti, presenza largamente sfruttata dal nostro sistema imprenditoriale. Va introdotta una regolarizzazione permanente in favore di chi può dimostrare una residenza stabile ed un rapporto di lavoro da formalizzare. Ai richiedenti asilo va garantito l’accesso alla procedura, un esame imparziale della domanda e l’effetto sospensivo del ricorso giurisdizionale, dunque senza indebite limitazioni della libertà personale.. A queste condizioni si potrà rilanciare una politica dell’immigrazione e dell’asilo che si fondi sulla chiusura dei centri di detenzione amministrativa, e su una ridefinizione degli accordi di riammissione con i pesi di origine, sulla base di standard minimi degni di un paese civile e democratico.