di Mauro Seminara
Il naufragio della notte tra il 6 ed il 7 ottobre a Lampedusa avrebbe mietuto 48 vittime invece delle 30 inizialmente ipotizzate. Questo inizia ad emergere grazie a più lucide testimonianze dei superstiti ancora sotto choc. La piccola barca avrebbe infatti fatto una sosta in Tunisia dopo la prima partenza dal porto di libico di Zawija, quello del traffico di esseri umani sotto il controllo di quel Bija ospitato nel 2017 dalle autorità italiane inclusa la Guardia Costiera a Roma. La sosta tunisina sarebbe avvenuta, sempre stando alle testimonianze dei superstiti, a Zarzis e non a Sfax. Il porto tunisino di Zarzis si trova a sud dell’isola di Kerkennah, in prossimità con il confine libico. Nel corso dello scalo tunisino sarebbero saliti a bordo altri 16 passeggeri, tutti di nazionalità tunisina. L’errore numerico sarebbe stato di banale confusione tra il numero originale dei migranti saliti a bordo, in Libia, e quello totale dopo la sosta in Tunisia. Da Zawija sarebbero quindi salpate 54 persone, cui pare si siano aggiunte altre 16 a Zarzis per un totale di 70 migranti naufragati sotto costa italiana.
Stando così le cose, i dispersi per i quali oggi riprendono le ricerche aeree dovrebbero essere 35. Tra questi anche altre donne e bambini, uno ancora in fasce. Nel pomeriggio si terrà presso la stessa Casa della Fraternità che accoglie le 13 salme recuperate nelle ore successive al naufragio una cerimonia funebre. Il funerale è in programma per le ore 18 e verrà celebrato dal parroco di Lampedusa, don Carmelo La Magra, su espressa volontà dei superstiti che potrebbero però non sentirsi di prendervi parte. Ieri avevano pregato davanti alle 13 bare il parroco ed il cardinale Francesco Montenegro, vescovo di Agrigento. Nel frattempo ripartono le ricerche di altri corpi, ormai escluso che i dispersi possano essere ancora in vita. Le condizioni meteo marine avevano costretto la sospensione delle ricerche ed anche la nave Ong Ocean Viking, arruolata per la circostanza dal Corpo delle Capitanerie di porto, ha lasciato l’area dopo un pattugliamento a pettine serrato senza esito. Mare in burrasca con onde alte tre metri, violenti rovesci temporaleschi e vento forte che nebulizzava le creste delle onde rendevano impossibile la disperata ricerca. I corpi erano stati risucchiati dalle correnti del Mar Mediterraneo agitato e portati sul fondo del mare già nel momento in cui scomparivano dalla vista dei loro compagni sopravvissuti.
Dalla notizia del naufragio ad oggi sono state spese poche parole dalle istituzioni e, nel più dei casi, limitate alla più meschina polemica di carattere politico. Perfino i cosiddetti “haters”, gli “odiatori” da tastiera che avvelenano i social con raccapriccianti manifestazioni personali, si sono sbizzarriti tra l’esultanza per i “migranti in meno” ed una difesa dell’ex ministro dell’Interno degna di cure mediche psichiatriche. Il dibattito si è concentrato sul taglio dei parlamentari e poco altro in Italia e si è anche bloccato in Lussemburgo, dove i ministri europei avrebbero dovuto decidere se dare seguito al preliminare accordo di Malta del 23 settembre. La tragedia di Lampedusa, dove le bare sono arrivate con un velivolo militare perché l’isola non dispone di simili quantità né di spazi in cui seppellire le vittime, non ha comunque intaccato un dialogo europeo improntato all’approccio securitario della difesa dei confini. La difesa della vita umana quindi non è in discussione all’ordine del giorno. Non lo è malgrado tra le discordanti versioni su numeri dei dispersi e dinamica del naufragio rimanga sospesa l’ipotesi che l’imbarcazione, avvistata dai velivoli della missione europea, non è stata soccorsa quando era ancora possibile salvare tutte e 70 le persone a bordo. In area, nei pressi di Lampedusa dirette a sud, c’erano le navi da soccorso umanitario Open Arms e Ocean Viking che, se fosse stata indicata loro la posizione, avrebbero potuto effettuare un salvataggio invece della ricerca delle vittime disperse in mare.
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