L’ultima deterrente conversazione telefonica è avvenuta tra il presidente turco Recep Tayyip Erdogan, mandante della sanguinosa strage nella regione siriana del Rojava, ed il presidente degli Stati Uniti Donald Trump. Il tycoon americano, che aveva dato il via libera all’attacco turco togliendo di mezzo anche l’incombenza delle proprie truppe, per le quali aveva ordinato il ritiro prima dell’offensiva, avrebbe minacciato l’alleato dell’applicazione di un pacchetto di sanzioni alla Turchia. L’intimidazione di Washington, che dovrebbe fermare la guerra turca, prevede sanzioni sulle importazioni di acciaio turco e l’immediata sospensione dei negoziati che erano in corso per accordi commerciali del valore di 100 miliardi di dollari. Sull’iniziativa del presidente Trump si è subito pronunciato il Congresso americano, con i democratici che hanno definito insufficiente la minaccia ai fini di un immediato cessate il fuoco.
In Europa è stata pressoché analoga l’azione dei big dell’Unione, Merkel e Macron, che come l’Italia condannano l’azione offensiva turca ma si guardano bene dall’intervenire nei confronti della Turchia. Erdogan è presidente di un Paese che dal 2005 risulta membro dell’Unione europea a metà: non ufficialmente dentro l’Unione ma abbastanza dentro da risultare beneficiario di licenze di fornitura armi da parte degli Stati membri come se destinate ad un membro dell’Ue. La Turchia è inoltre un membro della Nato. Per quanto anomalo, con politiche da doppiogioco che vedono l’appartenenza alla Nato e contratti di fornitura armi dalla Russia, la Turchia è e rimane il secondo esercito mondiale della Organizzazione del Trattato Atlantico del Nord (Nato-Otan, ndr). Due caratteristiche del profilo turco che permetterebbero interventi risolutivi da parte dell’Unione europea e della Nato, ma che non sortisce alcuna risoluzione internazionale concreta.
La guerra avviata da Erdogan, in un modo o nell’altro, a vario titolo conviene a molti dei Paesi che si dicono indignati. Paesi che, in molti casi coincidono con quelli che sono già impegnati in guerre in Medio Oriente – direttamente o con forniture di armamenti – e che avevano attaccato partecipato alla guerra in Siria durata otto anni. L’attacco ai curdi siriani sferrato da Erdogan è una guerra impari. La seconda potenza della Nato contro miliziani armati di fucili mitragliatori, uno Stato difeso dall’alleanza atlantica contro chi ha già la guerra in casa con l’immediata liberazione dei terroristi del Califfato islamico cui i curdi facevano da carcerieri. Questo sarebbe già più che sufficiente per ottenere la completa destabilizzazione del Kurdistan, regione che si trova a ridosso di Turchia, Siria, Iraq ed Iran. Ma quello curdo del Kurdistan non è un popolo unico e l’attacco turco, che ha già causato decine di migliaia di sfollati e centinaia di vittime tra i civili, non sembra essere mirato contro i soli curdi sionisti della regione nord della Siria. Tra gli interessi che Erdogan guarda ormai da lungo tempo con brame di conquista c’è anche la regione curda irachena, ricca di petrolio.
Dopo una guerra durata otto anni ed una campagna di demonizzazione contro il presidente siriano Bashar al-Assad durata anche di più, si scopre adesso che l’unico possibile salvatore dei curdi siriani è proprio quel “dittatore” che si voleva far credere il peggior nemico del popolo curdo del Rojava. Il conflitto tra i curdi siriani ed il Governo di Damasco rientrava nelle tensioni di uno Stato che aveva entro i propri confini un popolo che pretendeva di autodeterminarsi costituendo uno Stato indipendente sul territorio in cui era ospite. Adesso però, dopo le continue condanne mondiali contro Assad, contro il quale erano state anche ripetutamente prodotte prove false su un presunto uso di armi chimiche – che il presidente della Siria avrebbe fatto usare anche sotto casa propria a Damasco ed Aleppo – poi rivelatesi false come quelle che avevano preceduto la guerra in Iraq, Assad viene annoverato dalla comunità mondiale tra i buoni protettori dei curdi ed emerge tra i veri carnefici sanguinari Erdogan: presidente di un membro Nato e con un piede nell’Unione europea.
La condanna trasversale all’attacco di Erdogan in Rojava sortisce quindi fin qui soltanto chiacchiere che non spaventano la Turchia – che ha da guadagnare molto di più con la conquista del Kurdistan di quanto perderebbe con delle sanzioni – ma che tutto sommato sono un utile prender tempo per tutti quelli che già dagli anni ’80 mirano alla completa disgregazione dei grandi Stati del Medio Oriente che non fanno parte, come la Turchia, del Patto Atlantico. Come la Siria, per la quale sono stati spesi miliardi di dollari ed un mai pagabile prezzo di sangue tra i civili siriani, che non ha però prodotto la sperata guerra interna tra etnie e religioni con il seguente rovesciamento del tollerante presidente alawita Bashar al-Assad che adesso si avvicina con il proprio esercito, coperto dalle forze russe, al Rojava per proteggere la regione curdo-siriana. Proprio l’alleanza della Russia, con il proprio massiccio sostegno militare a Damasco, e non la lotta dei curdi siriani come si vuol far credere oggi, aveva sventato l’attacco del Califfato islamico in Siria cui era stato dato appoggio in un doppiogioco internazionale anche da Stati membri della Nato. Di nuovo la Siria insieme alla Russia è adesso l’onere di disinnescare un altro sanguinario attacco militare che parte da Kobane e si potrebbe estendere in una diffusa area del Medio Oriente, destabilizzandolo gravemente, a vantaggio della Turchia, di Israele e dei loro veri alleati. Quelli che osservano, dalla finestra, sfregandosi le mani mentre minacciano sanzioni da applicare in futuro a fronte di stermini già in atto. Forse per questo, secondo alcuni osservatori mediorientali, la ritirata statunitense non è mai davvero avvenuta ed i militari americani starebbero adesso presidiando un varco strategico da cui le forze siriane e russe dovrebbero raggiungere il Rojava da terra.
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