di Fulvio Vassallo Paleologo
Nella narrazione dominante si spacciano come “pull factor” (fattore di attrazione) sia le Organizzazioni non governative che continuano ad operare soccorsi nelle acque internazionali del Mediterraneo centrale, sia quei governi che sono costretti ad adottare decisioni di apertura dei porti, per non violare il diritto internazionale del mare. Scompare ancora dall’orizzonte della comunicazione pubblica la situazione tragica dei migranti intrappolati in Libia testimoniata dagli ultimi naufraghi soccorsi dalle ONG.
La propaganda delle destre continua ad usare così l’allarme sbarchi con un totale travisamento dei fatti, nascondendo all’opinione pubblica che in Italia nel corso del 2019 sono sbarcate un sesto delle persone sbarcate in Grecia e meno di un terzo di quelle sbarcate in Spagna. I dati delle Nazioni Unite sono a disposizione di tutti, ma una menzogna ripetuta cento volte sembra contare più della verità. In Italia non esiste alcuna “emergenza sbarchi”, se non per la cronica mancanza di coordinamento con le autorità maltesi e per il permanere di misure di sequestro incostituzionali di navi umanitarie che potrebbero ridurre il numero delle vittime che si sono registrate ancora in queste ultime settimane.
All’apice di questa propaganda, l’affermazione di Salvini, secondo cui il suo governo avrebbe ridotto i morti in mare sulla rotta libica rispetto agli anni precedenti; una affermazione falsa nella sostanza perché non tiene conto del calo delle partenze, oltre il 90 per cento in meno rispetto agli anni dal 2014 al 2017, e dell’aumento proporzionale dei morti e dei dispersi, frutto della guerra alle ONG, delle politiche di abbandono in mare, del disimpegno dai soccorsi nelle acque internazionali e della collaborazione con la sedicente guardia costiera libica.
Purtroppo non si vedono ancora reali segnali di discontinuità, salvo il tardivo rispetto del diritto internazionale nella indicazione del porto sicuro di sbarco, che il governo precedente violava costantemente, omettendo atti doverosi e sollecitando l’intervento delle motovedette libiche ben consapevole del rischio mortale nel quale abbandonava i naufraghi che dovevano essere soccorsi. Gli accordi con la Libia, stipulati nel tempo da diversi governi, di segno diverso, dal 2007 (governo Prodi) al 2008 (governo Berlusconi), dal 2012 (governo Monti) al 2017 (governo Gentiloni), sembrano intoccabili. Anche se i giudici hanno affermato in diverse occasioni che la Libia non garantisce porti sicuri di sbarco.
I naufragi in mare non destano più alcuna pietà collettiva, né sono considerati dai decisori politici. Tra pochi giorni gli accordi con i libici, meglio sarebbe parlare del solo governo di Tripoli, sostenuto dalla Turchia, più che dalla comunità internazionale, dovranno essere rinnovati e per il governo, come per i parlamentari italiani, sarà un banco di prova, in un momento in cui risulta ben documentato il sistema criminale libico, sempre più legato alle milizie con cui ci si è alleati per contenere i migranti prima che potessero raggiungere le coste italiane.
Desta grande preoccupazione, da una parte, il riconoscimento della collaborazione con la guardia costiera libica da parte del nuovo ministro dell’Interno, che di fatto riprende le linee del piano Minniti contro le ONG, che ha prodotto sequestri e procedimenti penali, senza garantire la tempestività degli interventi di soccorso ed il diritto alla vita. Linee operative che sono state inasprite con il governo gialloverde, soprattutto dopo l’invenzione della cosiddetta zona SAR (Search and Rescue) libica nel giugno del 2018. Con le conseguenze che tutti possono oggi verificare, naufragio dopo naufragio, anche alla luce dell’isolamento dell’Italia in Europa e dell’eterno contenzioso sulla ripartizione di responsabilità SAR con le autorità maltesi.
In perfetta simmetria del riconoscimento italiano del ruolo della sedicente guardia costiera “libica”, dopo che sono emersi i torbidi intrecci che legavano le autorità italiane con le milizie che gestivano le partenze da Sabratha e da Zawia, torna a farsi sentire la voce minacciosa di uno dei più pericolosi trafficanti libici, che ribadisce il suo pieno inserimento in quegli apparati di controllo delle frontiere marittime che le autorità italiane hanno rifornito, assistito e coordinato.
Dal trafficante libico Bija, che si ritiene ancora alleato delle autorità italiane e scorazza libero nella Libia nella fase più crudele della guerra tra milizie, arrivano pesanti minacce contro i giornalisti ed in particolare contro Nancy Porsia che per prima svelava la collusione tra mafie libiche e servizi italiani. Solidarietà a Nancy e massima vigilanza per tutti coloro che hanno contribuito a squarciare il velo di omertà che ammantava, e, se Bija si permette di parlare così, continua evidentemente ad ammantare, il sistema corruttivo italo-libico. Un sistema che evidentemente si è esteso fino all’Italia, se a Bija è stato consentito di partecipare ad una importante riunione riservata nel Cara di Mineo, nella quale si discuteva di centri di accoglienza/detenzione in Libia, magari sul modello Mineo, e dopo che allo stesso Bija, già inquisito a livello internazionale, si è dato libero accesso alla Centrale operativa della Guardia costiera a Roma. Vicende sulle quali si attende l’intervento della magistratura.
Entro il 2 novembre si deve votare il rinnovo del supporto alla sedicente Guardia costiera libica. Parte dei fondi delle missioni italiane in Libia, inclusa la missione Nauras nel porto militare di Tripoli sono state già votate lo scorso luglio. Si vedrà in aula, e poi nel Paese, chi difende le persone e chi le condanna al naufragio o alla detenzione nei lager libici. E soprattutto chi accetta di avvalersi di milizie corrotte e ancora dei trafficanti per cercare di ridurre le partenze dalla Libia. Vigilanza sul voto nelle aule parlamentari, nome per nome, gli accordi con la Libia ed il riconoscimento di una zona Sar “libica”, vanno immediatamente revocati.
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