di Fulvio Vassallo Paleologo
Nel Mediterraneo centrale sembra ormai compiuto il processo di esternalizzazione dei controlli alle frontiere marittime innescato dal Processo di Khartoum e dagli accordi tra Italia e governo di Tripoli conclusi nel febbraio del 2017. Accordi dai quali è derivato un coordinamento progressivamente sempre più intenso tra autorità libiche ed autorità italiane, soprattutto da quando navi della missione NAURAS della Marina militare sono stabilmente presenti nel porto militare di Abu Sittah a Tripoli. Una presenza che continua in questi mesi nei quali la città è sotto attacco, anche aereo, da parte delle truppe del generale Haftar (LNA).
Le conseguenze sono ormai evidenti. Allontanate, o sottoposte a sequestro, quasi tutte le navi delle ONG che non hanno “obbedito” alle intimazioni sempre più minacciose della sedicente guardia costiera “libica”, aumentato il supporto europeo ed italiano ai guardiacoste libici, evidentemente coordinati da assetti militari italiani, svuotate di mezzi di soccorso le rotte dalla Libia all’Italia, gli interventi di intercettazione in acque internazionali delegati alle milizie navali libiche superano ormai il numero di soccorsi effettuati dalle unità militari e private europee, che si concludono con lo sbarco dei naufraghi in un porto sicuro (place of safety).
Le acque del Mediterraneo centrale sono state così sottratte a qualsiasi giurisdizione nazionale ed internazionale, e gli atti illeciti che si perpetrano di continuo, in violazione del diritto internazionale del mare e del diritto umanitario rimangono privi di sanzione e vengono sistematicamente coperti da una rigida censura (o autocensura) dei mezzi di informazione, quando non sono oggetto di denuncia da parte delle Organizzazioni non governative.
Chi effettua respingimenti collettivi o li delega ad autorità libiche, e riconsegna di fatto i naufraghi agli stessi torturatori dai quali sono fuggiti può contare su una sostanziale impunità, visto anche il tenore assai blando delle ultime decisioni delle corti internazionali (ad esempio sulla richiesta di misure cautelari nei due casi della Sea Watch, nel corso di quest’ultimo anno). Molte imbarcazioni commerciali continuano sulla loro rotta anche quando potrebbero soccorrere naufraghi, e sempre più spesso i sistemi di tracciamento delle rotte marine ed aeree vengono disattivati perché non possano essere scoperti casi eclatanti di omissione di soccorso. Come si verifica regolarmente nel caso del controllo aereo esercitato dagli assetti aerei delle missioni europee FRONTEX ed EUNAVFOR MED.
La narrazione dei fatti viene rovesciata per criminalizzare gli interventi di soccorso e preparare l’intervento dei giudici penali o delle autorità amministrative con procedimenti che anche quando non si arriva ad una condanna definitiva comportano il fermo delle navi di soccorso, con un aumento esponenziale delle vittime in mare, sempre tenendo conto della forte riduzione delle partenze dalla Libia ( anche oltre il 90 per cento in meno rispetto agli anni dal 2014 al 2017). Eppure i rapporti delle Nazioni Unite sono sempre più dettagliati nella esposizione delle violenze inflitte ai migranti riportati indietro dalla guardia costiera libica ed internati nei centri di detenzione governativi o ceduti ai trafficanti.
In questo quadro, dopo l’arrivo in Sicilia, ed in particolare a Lampedusa, di un numero elevato di barchini carichi di migranti in fuga dalla Libia, si erano verificati alcuni interventi dei mezzi di soccorso italiani (della Guardia costiera e della Guardia di finanza) nella vasta zona SAR (Search and Rescue) che si è attribuita a Malta, quando le imbarcazioni si trovavano ormai in acque internazionali, al di fuori della pretesa “zona SAR libica”.
Adesso, nel silenzio degli organi di informazione nazionali, si apprende da fonti di stampa estere che le motovedette libiche sarebbero intervenute su delega delle autorità maltesi per intercettare dei naufraghi che si trovavano già nella zona SAR attribuita a Malta e che si dirigevano verso le coste italiane, in una zona peraltro nella quale le aree SAR maltese ed italiana risultano sovrapposte. Luoghi nei quali si sono verificati numerosi naufragi anche per i ritardi dovuto al mancato coordinamento tra le autorità SAR dei diversi stati. In questa ultima occasione il coordinamento c’è stato, ma tra le autorità maltesi e quelle libiche, e si è tradotto di fatto in un vero e proprio respingimento collettivo.
Come riferisce The National, l’Agenzia per i rifugiati delle Nazioni Unite (UNHCR) ha aperto una indagine sul motivo per cui la scorsa settimana Malta avrebbe chiesto alla guardia costiera libica di intercettare una imbarcazione carica di migranti che ormai si trovava all’interno della zona SAR maltese, con una “possibile” violazione del diritto marittimo, come ha dichiarato Vincent Cochetel, inviato speciale delle Nazioni Unite per i rifugiati per il Mediterraneo centrale. Secondo quanto dichiarato da Cochetel ai giornalisti nel corso di un incontro a Roma, “ci sono prove che Malta abbia richiesto assistenza (dalla) guardia costiera libica per intervenire” nella propria regione di ricerca e salvataggio nella giornata del 18 ottobre scorso. Cochetel ha poi aggiunto: “stiamo esaminando le ragioni della richiesta di Malta”, dal momento che Malta potrebbe aver chiesto alla Libia di intervenire per motivi tecnici. Secondo l’UNHCR, “il problema è che i migranti sono sbarcati in Libia. Questa è certamente una violazione delle leggi marittime … È chiaro che la Libia non è un porto sicuro”.
L’intercettazione era stata segnalata da Alarm Phone, una organizzazione indipendente che raccoglie le chiamate dei migranti che hanno bisogno di essere soccorsi in mare. Alarm Phone aveva ricevuto una chiamata con la posizione GPS dalla imbarcazione che trasportava 50 migranti, tra cui 10 donne e cinque bambini, nel primo pomeriggio del 18 e aveva trasferito la richiesta di soccorso alle autorità maltesi. “Ci occuperemo di tutto”, avrebbe affermato un funzionario maltese in servizio alle 14.40 di quel giorno, secondo una trascrizione della chiamata fornita alla Associated Press.
Come riporta The National, “nelle ore successive al primo contatto, il centro di soccorso e coordinamento (MRCC) di Malta ha smesso di rispondere alle chiamate di Alarm Phone, che ha cercato di dare seguito al salvataggio. Alle 17:00 sembrava che la barca stesse naufragando mentre un elicottero stava volando sopra. Quasi sette ore dopo, le autorità maltesi informavano Alarm Phone che la barca era stata intercettata dalla guardia costiera libica addestrata dall’UE, a circa 75 chilometri dall’isola italiana di Lampedusa e 200 km da Tripoli”. Proprio in prossimità di quella zona SAR sovrapposta oggetto da tempo di conflitti di competenza tra le autorità maltesi e quelle italiane.
I fatti rimangono coperti da una stretta censura militare. Come riferiscono le agenzie, la guardia costiera libica non ha risposto a ripetute richieste di commento ed il governo maltese ha rifiutato di commentare il caso, che – si osserva- potrebbe anche sollevare questioni relative ai diritti umani. Le autorità italiane continuano a tacere sul ruolo della sedicente guardia costiera “libica” , una linea comunicativa che caratterizza il nuovo governo, dopo la stagione delle esternazioni quotidiane sui social del precedente ministro dell’interno.
Il diritto marittimo internazionale impone che le persone soccorse in mare debbano essere portate al porto sicuro più vicino e la Libia nelle sue diverse articolazioni territoriali e militari non sembra garantire i diritti fondamentali delle persone migranti sbarcate a terra dopo essere state intercettate in acque internazionali.
La vicenda assume contorni ancora più inquietanti se si considerano gli stretti rapporti intercorrenti tra diversi settori della sedicente guardia costiera libica e le organizzazioni criminali che controllano il territorio e le partenze verso l’Europa, dopo essere state coinvolte nella gestione degli accordi di cooperazione per stroncare il traffico di esseri umani. Malgrado questi rapporti siano ormai conclamati, prosegue la criminalizzazione delle ONG che non obbediscono ai minacciosi diktat della sedicente guardia costiera libica, e la Ocean Viking di Medici senza Frontiere e SOS Mediterrannee rimane senza l’assegnazione di un porto sicuro di sbarco dopo avere nuovamente inviato richiesta formale, dopo il primo tentativo di domenica, andato senza risposta, per avere l’assegnazione del cosiddetto place of safety alle autorità marittime de La Valletta e di Roma. Le stesse autorità che, su concorde indirizzo dell’Unione Europea, continuano a intensificare la loro collaborazione con le autorità libiche.
Il caso Bija denunciato da tempo dai giornalisti Nancy Porsia e Nello Scavo , adesso sotto tutela per le minacce ricevute, è soltanto la punta dell’iceberg e sono documentati casi di corruzione e di infiltrazione delle organizzazioni criminali nei corpi di guardia costiera di diverse città libiche da Tripoli a Sabratha, da Zawija a Bengasi.
Come riferisce il Sole 24 ore, il 9 ottobre è giunta in Italia via canale diplomatico la notizia che il presidente libico Al Serraj ha firmato un decreto sulle «regole di comportamento relativo al lavoro delle organizzazioni internazionali e non governative nell’area Sar libica». Secondo il giornale “è un codice di condotta per le Ong, inatteso per l’Italia dopo averne adottato uno con l’allora ministro Marco Minniti. Al Viminale, guidato da Luciana Lamorgese, così come alla Farnesina condotta da Luigi Di Maio, si prende atto. Il testo è allo studio della Guardia di Finanza, la Marina Militare e la Guardia Costiera”.
Chi oggi mantiene ed incentiva a livello europeo rapporti di collaborazione don la Guardia costiera libica, come chi consentirà la proroga degli accordi tra il governo italiano e le autorità libiche, si rende consapevolmente responsabile, perché non potrà certo ignorare cosa succede in Libia ai migranti riportati a terra e trasferiti nei centri di detenzione, di crimini contro l’umanità e di reati che potrebbero essere sanzionati anche sul piano della giurisdizione nazionale, qualora le Corti internazionali o gli organi dell’Unione Europea continuassero a sottovalutare lo stato di guerra civile in cui versa la Libia e la gravità degli abusi conseguenti alle operazioni di intercettazione in acque internazionali “delegate” alla sedicente Guardia costiera “libica”.
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