di Vittorio Alessandro
Liliana Segre è un’anziana signora che ha deciso, forse suo malgrado, di testimoniare ai contemporanei e alle generazioni successive il dramma della deportazione e degli orrori nazisti da lei vissuto. Dico “suo malgrado” perché chi mantiene scolpita sulla propria pelle la catastrofe ha la quasi certezza di non saperla raccontare: altro è, infatti, subire, altro è trasferire quella esperienza nelle parole, che non basteranno mai.
Liliana Segre ha il pregio della signorilità e della mitezza, non ha scelto di fare politica, non ha ostentato primazie, non è mai salita sul palco per baciare i propri simboli.
Lo stesso, è stata minacciata; anche io ho subito minacce, ha allora detto Salvini.
Ora, cari intellettuali antifascisti, siamo tutti rimasti un po’ incagliati nella retorica del fascista un po’ folcloristico: spaccone, ignorante, ancorato alle marce e ai gagliardetti, e pensiamo che uno come Salvini – simpaticone, leale con gli amici, pane e Nutella, social, mojito e Papeete Beach – sia espressione di un populismo verace e, al massimo, un po’ troppo rumoroso.
Quanti di noi non hanno pensato (e anche detto) che, grazie a Salvini, per la prima volta l’Europa e il mondo intero stavano facendo i conti con l’Italia e i suoi attributi?
Niente di più sbagliato: Salvini non è il Kruscev che sbatte la scarpa sul tavolo del Palazzo di Vetro, Salvini è un fascista.