di Fulvio Vassallo Paleologo
Sentenze e propaganda
Ancora una volta una decisione della giurisdizione in materia di protezione umanitaria, al di là della sua effettiva portata, diventa occasione per un totale capovolgimento della narrazione dei fatti ed offre il pretesto per l’ennesimo strumentale attacco a quei giudici che applicano correttamente la legge, tenendo conto del principio di gerarchia delle fonti e del dettato della Costituzione italiana. Per Salvini, «Sui permessi umanitari aveva ragione la Lega. È la migliore risposta agli ultrà dei porti aperti e che vorrebbero cancellare i decreti sicurezza».
Come al solito non si va oltre gli slogan propagandistici. Come se la portata degli istituti che prevedono il diritto alla protezione, materia sulla quale si è intervenuti con il decreto sicurezza n. 113/2018, poi convertito nella legge n. 132/2018, fosse collegata alla ricorrenza dei divieti di accesso alle acque territoriali stabilite successivamente dal cosiddetto decreto sicurezza bis n. 53/2019. Se un nesso si vuole trovare tra i due provvedimenti questo non si rinviene nelle fonti normative ma nella propaganda diffusa dall’ex ministro dell’Interno che, per giustificare misure amministrative e poi legislative di interdizione dell’ingresso nelle acque territoriali per le sole ONG, ha confusamente fornito dati infondati sullo scarso numero di “naufraghi”. Perché in acque internazionali non ci sono “clandestini” o richiedenti asilo, che avrebbero avuto diritto alla protezione internazionale o umanitaria. Come se fosse legittimo abbandonare in alto mare o alle motovedette libiche tutti gli altri. Persone e non numeri da portare in contabilità come un successo personale in vista della campagna elettorale permanente.
Secondo una parte della stampa, da tempo cassa di risonanza della propaganda leghista, le decisioni della Cassazione costituirebbero un successo della Lega e sarebbero uno “schiaffo in faccia” nei confronti di quei giudici che avevano riconosciuto la protezione umanitaria dando rilievo alla integrazione sociale del richiedente, dopo anni di presenza regolare e di studio in Italia. Come è noto infatti, in base alla legge tuttora vigente i richiedenti asilo possono iscriversi a corsi universitari, frequentare tirocini, stipulare contratti di lavoro. La lettura capovolta delle decisioni delle Sezioni Unite della Cassazione è stata la linea scelta da chi vedeva sconfitta la propria tesi della retroattività del decreto Salvini, che avrebbe comportato il respingimento della maggior parte delle domande (si stima attorno a 60.000 richieste di protezione) e dei ricorsi ancora pendenti al momento dell’entrata in vigore del provvedimento (5 ottobre 2018). Domande e ricorsi che adesso, dopo il triplice pronunciamento della Corte di Cassazione, dovranno essere esaminati con gli stessi criteri previsti in passato per il riconoscimento della protezione umanitaria. Come chiariva già il Procuratore generale presso la Corte di Cassazione all’udienza del 24 settembre 2019 di fronte alle Sezioni unite.
Cosa ha realmente stabilito la Corte di Cassazione
Con il deposito di tre diverse decisioni a Sezioni unite (n.29459, 29460 e 29461, due per conflitto armato e l’altra per l’esistenza di legami familiari in Italia) la Corte di Cassazione respinge le ordinanze di rimessione che, in conformità a quanto ritenuto dal Ministero dell’Interno, sostenevano la natura retroattiva del decreto legge n.113 del 2018 (poi convertito nella legge 132 dello stesso anno) che aboliva l’istituto della protezione umanitaria. Il “decreto Salvini” per questa parte risulta inapplicabile retroattivamente alle domande già pendenti alla data del 5 ottobre 2018 e il riconoscimento della protezione va valutata con la vecchia normativa e dunque alla stregua dei criteri che comportavano in precedenza il rilascio di un permesso di soggiorno per protezione umanitaria ex art. 5.6 del Testo unico n.286/98 anche se il permesso rilasciato sarà quello “speciale annuale rinnovabile” previsto dal Decreto n.113/2018 (articolo 9, comma 1).
Tutte e tre le sentenze depositate ieri dalle Sezioni unite accolgono invece i ricorsi presentati dal Ministero dell’Interno con cui erano state impugnate pronunce di Corti d’appello (Firenze e Trieste) favorevoli al riconoscimento dei presupposti per il rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari in tre distinti procedimenti: il primo riguardava un cittadino bengalese che aveva ottenuto un’assunzione in Italia, il secondo un gambiano che “studia e coltiva i suoi principali legami sociali” nel nostro Paese, mentre in Gambia “non ha rapporti familiari di rilievo”, e il terzo un altro gambiano per il quale i giudici di Trieste avevano riconosciuto la protezione sulla base della “situazione critica dovuta al disordine complessivo del Gambia e alle primitive strutture giudiziarie e carcerarie sotto il profilo della tutela dei diritti individuali, considerato che sarebbe stato sottoposto a procedimento penale ove fosse rientrato nel Paese di provenienza”.
Ma, secondo Nazzarena Zorzella, avvocato dell’Asgi, Associazione per gli Studi Giuridici sull’Immigrazione, “La Cassazione ha ribadito principi già sanciti dalla stessa Corte con due recenti sentenze, ovvero la 4455/2018, che eleva l’integrazione sociale a motivo rilevante per la determinazione della vulnerabilità individuale, e la 4890/2019 che stabilisce la non retroattività del decreto”. Ed è quest’ultima la ragione vera delle ultime tre sentenze della Corte.
Il caos giuridico del “decreto Salvini”
In realtà le Sezioni unite sono state costrette a pronunciarsi per una opposta interpretazione sulla disciplina del diritto intertemporale derivante del “decreto Salvini” da parte di due diverse sezioni della stessa Corte di Cassazione. A gennaio infatti la prima sezione, presieduta dal giudice Stefano Schirò, aveva evidenziato l’irretroattività del decreto sicurezza. La stessa sezione, la prima civile, aveva cambiato orientamento con un diverso giudice, il dott. Genovese, che aveva poi chiesto alle Sezioni Unite di stabilire i criteri di applicabilità delle norme. Nel frattempo migliaia di casi erano stati risolti con criteri incerti, o erano stati sospesi, con migliaia di persone allo sbando e un ulteriore aggravamento della situazione degli uffici giudiziari.
Con la Sentenza. n. 4890/2019, depositata il 19 febbraio scorso, la Prima Sezione Civile della Corte di Cassazione sembrava risolvere i dubbi in tema di retroattività della nuova disciplina sulla protezione umanitaria. In quella sentenza la Corte rilevava innanzitutto che nel decreto sicurezza, poi convertito nella legge 132/2018,“non vi è una espressa disciplina legislativa di carattere intertemporale riguardante i giudizi in corso che seguano ad un accertamento positivo od ad un diniego delle Commissioni territoriali o espressamente rivolta ai procedimenti amministrativi in itinere alla data di entrata in vigore della nuova legge. L’unica regola inequivoca che si può cogliere dall’art. l, comma 9, riguarda il segmento conclusivo dell’accertamento positivo del diritto che, anche ove accertato alla stregua del parametro legislativo applicabile prima dell’entrata in vigore del d.l. n. 113 del 2018, non può che assumere la denominazione ed il contenuto indicati nella norma non essendo più legislativamente previsto il permesso di soggiorno per motivi umanitari”.
La sentenza 4890/2019 aveva quindi affermato la non retroattività della norma abolitrice della protezione umanitaria, contenuta nel decreto sicurezza 113/2018, adottando una motivazione sostanziale che si basava sulla natura della situazione soggettiva inerente la protezione umanitaria. Su questo aspetto vanno messi dei punti fermi perché le successive ordinanze della Cassazione che affermavano al contrario la natura retroattiva della nuova normativa, non richiamavano tali aspetti di diritto sostanziale, e meno che mai il fondamento costituzionale della protezione umanitaria, istituto che nel 2018 il legislatore ordinario avrebbe inteso abrogare.
Secondo i giudici della Cassazione, la qualificazione giuridica del diritto, fornita nel corso degli anni anche dalle Sezioni Unite, ha svolto un’incidenza determinante sull’intervento nomofilattico della giurisprudenza di legittimità in relazione al contenuto e all’azionabilità del diritto d’asilo (ex multis Cass.10636 del 2012 e 16362 del 2016, il principio è richiamato anche nella pronuncia n. 4455 del 2018). “Secondo tale costante orientamento, il diritto d’asilo costituzionale è integralmente compiuto attraverso il nostro sistema pluralistico della protezione internazionale, anche perché non limitato alle protezioni maggiori ma esteso alle ragioni di carattere umanitario, aventi carattere residuale e non predeterminato, secondo il paradigma normativo aperto dell’art. 5, c.6, d .lgs. n. 286 del 1998”.
La sentenza n. 4890/2019, depositata il 19 febbraio scorso aveva quindi escluso l’applicabilità del decreto “sicurezza” 113/2018 ai procedimenti amministrativi già iniziati davanti alle Commissioni Territoriali o ai giudizi in corso avverso i provvedimenti di accertamento o diniego del diritto, escludendo, in particolare, che si potesse precludere l’accertamento del diritto alla protezione umanitaria se la Commissione Territoriale non l’avesse già riconosciuto alla data della entrata in vigore del decreto, dunque al 4 ottobre 2018, in adesione peraltro alla prevalente giurisprudenza di merito e sulla base di conclusioni conformi espresse dal Procuratore generale presso la Corte di Cassazione.
I dubbi del ministro Lamorgese e le risposte della Corte di Cassazione
Con tre “ordinanze interlocutorie” (relatore Lamorgese) depositate il 3 maggio scorso, sulla disciplina intertemporale del decreto sicurezza, i giudici della prima sezione civile della stessa Corte di Cassazione avevano trasmesso gli atti al primo presidente Giovanni Mammone per “l’eventuale assegnazione” alle Sezioni unite della Corte. Nelle ordinanze si sostiene che le nuove norme “in materia di permessi umanitari contenute nel decreto Sicurezza entrato in vigore lo scorso 5 ottobre devono essere applicate a tutti i giudizi in corso”.
Con la sentenza n. 29459 delle Sezioni unite la Corte di Cassazione, depositata mercoledì 13 novembre 2019, ha affermato che il decreto legge 113/2018 non si applica alle cause in corso perché il diritto alla protezione è espressione di quello di asilo tutelato dalla Costituzione e sorge al momento in cui lo straniero arriva in Italia in condizioni di vulnerabilità per il rischio che siano compromessi i diritti umani fondamentali. La protezione umanitaria “attua il diritto d’asilo costituzionale”, cioè “scaturisce direttamente dal precetto dell’art. 10 della Costituzione”: “il che vale anche per i nuovi istituti” del legislatore, che devono “rispettare Costituzione e vincoli internazionali”, che può soltanto definire i criteri di accertamento e le modalità di esercizio di quel diritto.
Una volta riconosciuta l’esistenza dei vecchi requisiti, il permesso di soggiorno rilasciato dalle questure sarà quello nuovo “per casi speciali“, più breve e non convertibile. Secondo la Cassazione “la permanente rilevanza della protezione umanitaria o risultanti da obblighi costituzionali o internazionali dello Stato italiano discende dalla irretroattività della novella, che l’ha espunta dall’ordinamento; il concreto atteggiarsi del permesso che pur sempre risponde a quella protezione, è dettato dall’interpretazione conforme a Costituzione, che valorizza la volontà del legislatore”. Secondo la Corte «in tema di successione delle leggi nel tempo in materia di protezione umanitaria il diritto alla protezione, espressione di quello costituzionale di asilo, sorge al momento dell’ingresso in Italia in condizioni di vulnerabilità per rischio di compromissione dei diritti umani fondamentali e la domanda volta ad ottenere il relativo permesso attrae il regime normativo applicabile»
La Cassazione aggiunge poi, ai fini del riconoscimento della protezione, che “l’orizzontalità dei diritti umani fondamentali comporta che, ai fini del riconoscimento della protezione, occorre operare la valutazione comparativa della situazione soggettiva e oggettiva del richiedente con riferimento al paese di origine, in raffronto alla situazione d’integrazione raggiunta nel paese di accoglienza”. Quindi occorre attribuire “rilievo centrale alla valutazione comparativa tra il grado di integrazione effettiva nel nostro Paese e la situazione soggettiva e oggettiva del richiedente nel paese di origine, al fine di verificare se il rimpatrio possa determinare la privazione della titolarità dell’esercizio dei diritti umani, al di sotto del nucleo ineliminabile e costitutivo della dignità personale”.
Cosa cambia con le ultime tre sentenze della Corte Costituzionale
La stessa sentenza della Cassazione n.4455/2018, che ridefiniva le possibilità di riconoscimento della protezione umanitaria per motivi di integrazione sociale e sembrava rendere più ardua la prova del diritto alla protezione, con riferimento alla situazione nel paese di origine, appare oggi ridimensionata dalla successiva ordinanza n.11312/2019 della stessa Corte (sesta sezione civile), secondo cui, prima di respingere la richiesta di protezione, il giudice deve verificare se realmente il rimpatrio mette a rischio la sua vita. In particolare si osserva che: “Questa Corte ha più volte chiarito che, ai fini dell’accertamento della fondatezza o meno di una simile domanda di protezione internazionale, il giudice del merito è tenuto, ai sensi dell’art. 8, terzo comma, del d.lgs del 28 gennaio 2008, n.25, a un dovere di cooperazione che gli impone di accertare la situazione reale del paese di provenienza mediante l’esercizio di poteri-doveri officiosi di indagine e di acquisizione documentale, in modo che ciascuna domanda venga esaminata alla luce di informazioni aggiornate e non di formule generiche come il richiamo a non specificate fonti internazionali“.
Lo stesso principio dovrebbe valere anche per la prova di possibili lesioni degli altri diritti fondamentali comunque riferibili alla persona in quanto tale. Non può dunque ritenersi motivata una decisione negativa dei giudici di merito, che sia adottata sulla base di generiche “fonti internazionali” che attesterebbero l’assenza di conflitti nei paesi di provenienza dei migranti che chiedono di rimanere in Italia facendo valere motivi umanitari. Si deve comunque osservare, e la prassi sembra orientarsi in questo senso, che, al di là dell’ampliamento dell’onere probatorio in capo al giudice, questa ordinanza reintroduce criteri importanti per il riconoscimento, anche della protezione sussidiaria, a casi che in precedenza ottenevano il riconoscimento della protezione umanitaria.
Il diritto alla protezione dipende, dunque, dalle condizioni di vulnerabilità “per rischio di compromissione dei diritti umani fondamentali” e non può essere riconosciuto considerando in maniera isolata e astratta il “contesto di generale e non specifica compromissione dei diritti umani accertato in relazione al paese di provenienza”.
La sostanza non cambia
L’assunto più recente delle Sezioni unite della Cassazione non costituisce una novità, come alcuni commentatori vorrebbero fare credere. Già nella circolare ministeriale del 4 luglio 2018 i “parametri” per il riconoscimento della protezione umanitaria venivano ristretti in base ad un precedente giurisprudenziale che si continua a citare nelle ultime decisioni della Cassazione a Sezioni Unite (la nota sentenza della Cassazione n.4455 del 23 febbraio 2018) in base alla quale i “seri motivi” previsti dalla normativa nazionale per il riconoscimento della protezione umanitaria (art. 5 comma 6 del Testo Unico n.286 del 1998) sarebbero stati “tipizzati” dalla ratio di tutelare situazioni di vulnerabilità, calate in concreto nella complessiva condizione del richiedente, emergente sia da indici soggettivi che oggettivi, senza che “nessuna singola circostanza possa di per sé, in via esclusiva, costituire il presupposto per l’attribuzione del beneficio”. Si aggiungeva già allora quanto affermato dalla sentenza n. 4455/2018 della Cassazione, secondo cui “l’accertamento della situazione oggettiva del paese di origine e della condizione soggettiva del richiedente in quel contesto, alla luce della peculiarità della sua vicenda personale costituiscono il punto di partenza ineludibile dell’accertamento da compiere”. Un criterio già adottato dai giudici di merito, che però facevano, e continueranno probabilmente in futuro, a fare richiamo ai principi costituzionali ed agli obblighi di fonte internazionale evocati dall’art. 5. 6 del T.U. n. 286 del 1998, che la circolare ministeriale del 4 luglio 2018 sembrava invece ignorare del tutto. Malgrado le numerose sentenze di annullamento adottate dai Tribunali, le decisioni delle Commissioni territoriali restavano fortemente condizionate dall’indirizzo impresso dal ministro dell’Interno con la sua circolare, in totale dispregio della autonomia di giudizio imposta alle Commissioni dalla normativa europea, e il calo dei casi di riconoscimento della protezione umanitaria continuava indipendentemente dalle oscillazioni della giurisprudenza della Cassazione.
Per tutti e tre i casi decisi adesso dalle Sezioni unite della Cassazione con identiche motivazioni, si dovrà svolgere un nuovo processo d’appello, che tenga conto dei principi enunciati. Occorrerà sempre operare una valutazione comparativa della posizione soggettiva del richiedente con riferimento al proprio Paese a confronto con la situazione di integrazione raggiunta in Italia. Principio che non è nuovo e che è stato affermato anche da precedenti sentenze della Corte di Cassazione, che avevano già comportato una forte riduzione dell’area di applicabilità del vecchio istituto della protezione umanitaria, con la condanna alla clandestinità di migliaia di persone giunte in Italia mediamente da tre o quattro anni, (già vittime della lunghezza delle procedure e poi dei processi) molte delle quali già inserite nel nostro contesto economico e sociale e per le quali appare del tutto irrealizzabile il progetto, di evidente portata elettorale, di rimpatri di massa con accompagnamento forzato (e magari anche connessa detenzione amministrativa nei Centri di detenzione per i rimpatri, che ad oggi offrono circa mille posti in tutta Italia).
La sconfitta dei salviniani
Le ultime decisioni delle Sezioni unite della Cassazione potrebbero sembrare il classico bicchiere mezzo vuoto e mezzo pieno, e tutti potrebbero dire di avere avuto ragione, ma in realtà non è così, per due ragioni fondamentali. Innanzitutto escono irrimediabilmente sconfitti dal giudizio della Cassazione a Sezioni unite coloro che avevano sostenuto una interpretazione retroattiva del “decreto Salvini”, come il Ministero dell’Interno ed i giudici che sul punto specifico, dopo una diversa decisione della stessa sezione della Corte, avevano rimesso la questione alle Sezioni unite.
Il diritto alla protezione umanitaria è stato considerato, da tempo manifestazione del diritto di asilo di cui all’art. 10, terzo comma, della Costituzione. Ma le situazioni che impediscono – nel Paese di provenienza dello straniero − «l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana» non sono solo quelle che precludono l’esercizio dei diritti che più direttamente attengono alla democrazia (libertà di espressione, di associazione etc.) ma tutte quelle che incidono sui diritti fondamentali e sulle condizioni minime di una vita sicura e dignitosa.
La stessa Cassazione, a Sezioni unite, conferma in queste tre pronunce come l’istituto della protezione umanitaria costituisca diretta attuazione del dettato costituzionale (art. 10, comma 3) pur riconoscendo al legislatore ampi poteri per le modalità di riconoscimento, e non certo di “concessione” di tale diritto. Quanto deciso dalla Corte nelle tre decisioni depositate mercoledì spalanca dunque la via ad una serie di ricorsi alla Corte Costituzionale per verificare quanto il legislatore, con i decreti sicurezza che hanno “abolito” la protezione umanitaria, abbia esercitato quel potere senza violare i principi solidaristici affermati dall’art. 10 della Costituzione, e per rimando anche dalla normativa euro-unitaria, in virtù dell’art. 117 della stessa Costituzione.
Il Testo Unico sull’immigrazione
La protezione umanitaria era prevista nel Testo Unico 286/98 (art. 5, comma 6) quando, pur non accogliendo la domanda di protezione internazionale, la Commissione territoriale riteneva di chiedere al questore il riconoscimento di una forma di protezione per seri motivi di carattere umanitario.
Prima del decreto legge n. 113/2008, poi convertito nella legge 132/2018, l’art. 5, comma 6, T.U. immigrazione (d.lgs 286/1998) così disponeva: «Il rifiuto o la revoca del permesso di soggiorno possono essere altresì adottati sulla base di convenzioni o accordi internazionali, resi esecutivi in Italia, quando lo straniero non soddisfi le condizioni di soggiorno applicabili in uno degli Stati contraenti, salvo che ricorrano seri motivi, in particolare di carattere umanitario o risultanti da obblighi costituzionali o internazionali dello Stato italiano. Il permesso di soggiorno per motivi umanitari è rilasciato dal questore secondo le modalità previste nel regolamento di attuazione».
Secondo l’orientamento consolidato negli ultimi anni in Cassazione, «il diritto di asilo è […] interamente attuato e regolato, attraverso la previsione delle situazioni finali previste nei tre istituti di protezione, ad opera della esaustiva normativa di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007 (adottato in attuazione della direttiva 2004/83/CE) e del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, sì che non si scorge alcun margine di residuale diretta applicazione della norma costituzionale» (Cass. civile, sez. VI, n. 10686/2012, confermata da Cass. civile, sez. VI, n. 16362/2016). Secondo questa lettura della normativa costituzionale, la legge cui rinvia l’art. 10, terzo comma, Cost. ha il compito di precisare le condizioni del rilascio e i requisiti del richiedente, di regolare la procedura del riconoscimento e i casi di cessazione ma non può limitare il diritto di asilo a un gruppo di soggetti (gli aventi diritto allo status di rifugiato e alla protezione sussidiaria), escludendo tutti coloro che si trovano in altri modi privati dei diritti fondamentali nel Paese di provenienza”.
In materia di protezione umanitaria appare dunque difficilmente contestabile quanto rilevava la Corte di Cassazione, secondo cui “la qualificazione giuridica di diritto soggettivo perfetto appartenente al catalogo dei diritti umani, di diretta derivazione costituzionale e convenzionale, è stata affermata e mantenuta costante dalle S.U. di questa Corte a partire dall’ordinanza n.19393 del 2009 fino alle più recenti (ex multis S.U.5059 del 2017; 30658 del 2018; 30105 del 2018; 32045 del 2018; 32177 del 2018). Tale peculiare natura, del tutto coerente con il richiamo al rispetto degli obblighi costituzionali ed internazionali indicati nell’art. 5, c.6, del d.lgs. n. 286 del 1998, ha avuto un notevole rilievo nella ricognizione dei presupposti per l’accertamento del diritto al permesso umanitario, svolta dalla giurisprudenza di legittimità. Si è ritenuto che essi fossero diversi da quelli posti a base delle protezioni maggiori e che la protezione umanitaria avesse carattere residuale (Cass. 4131 del 2011; 15466 del 2014), dal momento che le condizioni di vulnerabilità suscettibili di integrare i ‘seri motivi umanitari’ non possono che essere correlati al quadro costituzionale e convenzionale al quale sono ancorati (Cass. 28990 del 2018)”.
La protezione umanitaria oggi
La qualificazione giuridica del diritto alla protezione umanitaria, almeno fino al 4 ottobre 2018, e la natura meramente ricognitiva del giudizio di accertamento cui esso è assoggettato nella fase amministrativa e giudiziale dell’esame dei presupposti, come adesso riconosce la stessa Cassazione, inducono dunque a ritenere che la nuova disciplina legislativa non sia applicabile ai procedimenti in corso. Rimane incontestabile, ed incontestato, il principio affermato da anni dalla prevalente giurisprudenza di merito e consolidato negli orientamenti della Cassazione, secondo cui il diritto soggettivo, anche nel caso della protezione umanitaria, e comunque in tutti i casi riconducibili all’art. 10 comma 3 della Costituzione italiana, preesiste alla verifica delle condizioni cui la legge lo sottopone, mediante il procedimento amministrativo ed eventualmente giudiziale. Il risultato positivo o negativo dell’accertamento, dipende dal quadro probatorio posto a base della domanda ma non incide sulla natura giuridica della situazione giuridica soggettiva azionata e sulla incontestata natura dichiarativa della verifica amministrativa e giudiziale. Quanto appena affermato non è contraddetto dalla circostanza che in alcuni casi specifici l’integrazione sociale possa costituire un elemento sopravvenuto e comunque fondante, seppure non da solo, per il riconoscimento di uno status di protezione, quale che sia la denominazione che gli vuole attribuire il legislatore, ma comunque rientrante nella vasta garanzia costituzionale offerta dall’art.10 comma 3.
Il cittadino straniero, che manifesti la volontà di chiedere una qualsiasi forma di protezione, matura quindi da quel momento il diritto ad un titolo di soggiorno fondato sui motivi desumibili dal quadro degli “obblighi costituzionali ed internazionali” assunti dallo Stato. Il legislatore può anche mutare la portata del riconoscimento dei casi diversi, dall’asilo e dalla protezione sussidiaria, rientranti nell’ampia copertura dell’art. 10 della Costituzione, ma non può modificare con effetto retroattivo gli effetti maturati rispetto ai presupposti della preesistente normativa, nel caso di specie l’art. 5 comma 6 del T.U. 286 del 1998, in assenza di una specifica disposizione intertemporale, che allo stato non appare certo rinvenibile nella formulazione del decreto “sicurezza” 113 del 2018, poi convertito nella legge n.132 dello stesso anno.
Toccherà adesso alla giurisdizione nel suo complesso, dunque ai singoli giudici ed avvocati, affrontare questa materia tenendo presenti i principi costituzionali e sollevando nei singoli casi questioni di costituzionalità.
Quando il Presidente della Repubblica Mattarella, il 4 ottobre dello scorso anno, aveva firmato il Decreto Legge “immigrazione e sicurezza” n.113/2018, aveva allegato al provvedimento una lettera in cui si avvertiva «l’obbligo di sottolineare che, in materia», «restano ‘fermi gli obblighi costituzionali e internazionali dello Stato, pur se non espressamente richiamati nel testo normativo», non si poteva prevedere che il provvedimento sarebbe stato convertito in legge con un testo ancora più restrittivo (inserendo una lista di “paesi terzi sicuri”) e con procedure tali da snaturare il ruolo del Parlamento, previsto nella nostra Costituzione. Il Presidente della Repubblica ricordava in particolare “quanto direttamente disposto dall’art. 10 della Costituzione e quanto discende dagli impegni internazionali assunti dall’Italia”.
In materia, riguardo ai possibili profili di illegittimità costituzionale, si rinvia ai più recenti contributi che hanno evidenziato la possibilità di una interpretazione costituzionalmente orientata della nuova normativa, piuttosto che un ricorso diretto alla Corte Costituzionale, che avrebbe tempi di definizione e margini di incertezza anche assai elevati. Le decisioni più recenti della Cassazione, per quanto adottate a Sezioni Unite, non andranno comunque nella direzione di una riduzione della conflittualità in questa materia. Né si può scaricare sulla giurisprudenza il peso di scelte legislative di chiara matrice ideologica e propagandistica.
Il “decreto Salvini” rimane una norma da abrogare
Come ricorda il Corriere della Sera, “una prassi sbrigativa da mesi induce molte Questure a eseguire l’espulsione dei richiedenti asilo che dopo un primo rigetto si presentino a reiterare domanda di protezione internazionale, che una norma del decreto Salvini 2018 dispone nemmeno venga presa in considerazione per un esame neanche preliminare degli eventuali nuovi motivi di protezione addotti dal migrante. Ma il Tribunale civile di Milano disapplica appunto questa norma italiana, e al suo posto applica direttamente la contrastante (ma sovraordinata) regola della Direttiva comunitaria 2013/32, che (come chiarito già dalla Corte Ue nel caso del Belgio) pretende almeno «un esame preliminare» dei possibili «elementi nuovi». Compito di cui dunque non può essere spossessata la competente Commissione Territoriale (il che ferma intanto le espulsioni)”. Per un altro verso si nota che la Corte di cassazione, nelle sue più recenti pronunce in tema di protezione umanitaria, a causa anche dell’abolizione del grado di appello, si trasforma in un giudice del fatto, e vede messa fortemente in crisi la sua naturale funzione di giudice di legittimità.
Spetta ai politici ed al Parlamento prendere atto del fallimento, “sul campo” dell’applicazione concreta, dei decreti sicurezza Salvini (incluso quello sulla chiusura dei porti e sulle sanzioni alle ONG) e adottare quanto prima provvedimenti che ne cancellino gli effetti, che oggi si stanno traducendo in decine di migliaia di persone alle quali si nega il diritto ad esistere legalmente, se non lo stesso diritto alla vita ed alla dignità umana.
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