di Mauro Seminara
La definizione “place of safety” viene comunemente tradotta, in modo non letterale ma significativo, con “porto sicuro più vicino“. Così viene infatti sintetizzata la direttiva sull’obbligo di assegnazione del place of safety (Pos). Assegnare un porto sicuro nelle immediate vicinanze non è certo una bizzarra idea della comunità internazionale ma la logica ineccepibile secondo cui un’ambulanza deve essere autorizzata al pronto soccorso più vicino. Chiunque può comprendere cosa avverrebbe nel caso in cui si inviassero le ambulanze di Roma, a sirene spiegate con un malato a bordo, all’ospedale di Firenze o Cosenza. Nel caso della Open Arms il porto sicuro più vicino era quello di Augusta, sulla costa ovest della Sicilia. Davanti al porto siracusano è stato infatti effettuato dalla Guardia Costiera il trasbordo di undici persone per grave emergenza sanitaria. La costa siracusana, come quella etnea, era sicura perché al riparo dal forte vento che ha reso impraticabile il Mediterraneo centrale. Al largo di Augusta la Open Arms ha dovuto attendere per un giorno che la burrasca si quietasse prima di mettere i motori avanti in direzione del place of safety – non “porto sicuro più vicino” che l’Italia ha assegnato.
Taranto ha visto approdare questa mattina la nave Ong spagnola con ancora 62 naufraghi a bordo. Il soccorso di queste persone risale addirittura al 21 novembre. Cinque giorni in mare con l’attraversamento di una burrasca – tecnicamente “mare agitato” – le cui onde hanno superato i quattro metri. Un trasbordo, a vista di porto, di undici persone per una evacuazione medica che solitamente consiglia operazioni di questa genere solo in casi di estrema necessità. Uno stopo per avverse condizioni meteo prima di poter intraprendere la traversata del Mar Ionio fino al porto pugliese di Taranto. Giorni e costi a carico di quella società civile che con le proprie donazioni ed i propri sforzi finanzia chi salva vite umane altrimenti abbandonate a naufragi o catture da parte dei libici. Sforzi assurdi per rendere alle Ong la vita impossibile ed ai naufraghi l’atto conclusivo di un inferno. Come nel caso della donna incinta di due gemelli evacuata dalla Ocean Viking con il verricello di un elicottero, oppure del più recente ferito – da arma da fuoco in Libia – dalla Open Arms al largo di Augusta.
Il Governo italiano non bada a spese pur di ostacolare le navi umanitarie con la scusa del mito sfatato del “pull factor” (il fattore di attrazione) e dei costi che la bufala della cosiddetta “invasione” comporterebbe in accoglienza per le casse dello Stato. Il naufragio di sabato 23 novembre a Lampedusa ha dimostrato che un soccorso effettuato ad immediato avvistamento di una barca in “distress” (condizione di grave pericolo per la navigazione) è un enorme risparmio, non soltanto in termini di vite umane, motivo per cui non c’è bilancio finanziario che tenga, ma anche meramente economici. Sappiamo che la barca è stata avvistata e segnalata da due cittadini lampedusani che hanno avvisato la Capitaneria di Porto di Lampedusa. Non sappiamo se uno o più velivoli della missione europea in assetto Frontex l’avevano avvistata, magari cinquanta miglia più a sud, e nessuno aveva autorizzato una missione Search and Rescue (Ricerca e Soccorso, SAR). Stesso dettaglio che potrebbe profilare una omissione di soccorso nel caso dell’analogo naufragio del 6 ottobre, di nuovo a Lampedusa e di nuovo sotto gli occhi attoniti dei guardacoste. Un dettaglio su cui la magistratura dovrebbe subito indagare con, se necessario, una rogatoria internazionale per accesso agli atti direttamente in casa Frontex.
La Open Arms ha salvato 73 persone da morte certa e questa mattina ha condotto a terra, a Taranto, i 62 rimasti a bordo dopo il “MedEvac” al largo di Augusta (nel video, in basso). Sullo stesso mite versante orientale della Sicilia si riparava dalla stessa tempesta che ha sospeso le ricerche dei dispersi a Lampedusa oggi riavviate la nave Ong Aita Mari. A bordo, fino a questa mattina, c’erano 78 naufraghi salvati in due distinte operazioni cinque giorni addietro come nel caso Open Arms. Alla Ong spagnola Salvamento Maritimo Humanitario, come per la catalana Proactiva Open Arms, è toccato attraversare la tempesta di questi giorni prima che l’Italia si decidesse a concedere un porto sicuro. E come nel caso della Ocean Viking, già approdata a Messina dopo due evacuazioni mediche al largo mediante elicottero, il place of safety è stato concesso alle tre Ong dopo la trattativa in sede europea, ormai consolidata come prassi, per la preventiva redistribuzione dei naufraghi tra Stati membri. Una violazione del Diritto internazionale che prevede invece prima l’immediata assegnazione del porto sicuro più vicino da concordare con il comandante della nave per le eventuali difficoltà tecniche, meteo ed in generale di navigazione ed urgenza.
Alla Aita Mari era stato assegnato il porto di Pozzallo, in provincia di Ragusa, sulla costa sud della Sicilia. Anche la Aita Mari ha dovuto attendere prima che le condizioni meteo marine si rischiarassero. Superare la punta sudest della Sicilia, Capo Passero, con la tempesta che la piccola nave avrebbe incontrato a prua sarebbe stato una grave rischio. Anche alla Aita Mari è stato così imposto di attendere ancora per la negazione di uno dei porti orientali della Sicilia: Augusta, Siracusa, Catania. Le ipotesi di reato di sequestro di persona aggravato dalla coercizione, cioè il tenere naufraghi a bordo fino ad accordo di redistribuzione con altri Stati invece di ottemperare a quanto dettato dalle leggi internazionali, sembra però un tema messo in soffitta a seguito dell’autogol estivo con cui l’ex ministro dell’Interno si è disarcionato autonomamente. La prassi è consolidata ed il fatto che la negazione di obbligatorio porto sicuro che l’Italia impone alle Ong non supera in giorni i record segnati dalla propaganda dell’ex titolare del Viminale rende tutto accettabile e la stampa – di area a desso al Governo – meno nervosa.
Va tutto bene, anche se nei fatti ed in diritto non cambia la politica che Luciana Lamorgese – ministro dell’Interno nel Governo Conte bis – sta attuando in continuità con quella già applicata dall’ex Matteo Salvini, a sua volta ereditiere di quella miliare del predecessore Marco Minniti. Permane quindi la gravità estrema di uno Stato che impone con rigore ogni cavillo legislativo a chi salva vite umane e poi viola pacificamente le leggi che lo stesso Stato ha sottoscritto ed assunto. In un’epoca in cui la deriva autoritaria di stampo fascista è dietro l’angolo, con l’attuale corrente politica nazionalsovranista parecchio diffusa in Unione europea, il pericolo di uno Stato totalitario che applica leggi ma le rispetta solo se ne ha voglia è un segnale d’allarme che non sembra risuonare da nessuna parte. La Repubblica italiana può quindi fare accordi – o “trattative” – con Cosa Nostra e con i criminali libici, può infrangere il diritto internazionale e può concorrere in reati di violenza, abusi, omicidi e maltrattamenti vari. Poi ci si stupisce se qualcuno propone agli italiani di donare denaro (il 5×1000) per finanziare i rimpatri che l’alleato estremista aveva promesso e non mantenuto. Fortunatamente c’è ancora chi il denaro, magari con estremo sacrificio, lo dona a chi salva il diritto alla vita ed alla dignità umana per finanziare le loro missioni in mare ed ovunque ci sia bisogno di quell’aiuto che gli Stati non offrono, come in Congo durante la diffusione del letale virus Ebola. Quello che senza le Ong sarebbe potuto arrivare ovunque.
Domenica 24 novembre, dalla Open Arms, Riccardo Gatti spiegava quale era la situazione a bordo tre giorni dopo il soccorso di 73 naufraghi ed in attesa del porto sicuro di sbarco poi assegnato a Taranto