di Fulvio Vassallo Paleologo
Ancora un naufragio a poche centinaia di metri dalle coste di Lampedusa, quando il barcone carico di migranti, dopo essere stato affiancato da due motovedette della Guardia costiera italiana e da un mezzo della Guardia di Finanza, si è rovesciato per cause ancora non accertate. Secondo le prime notizie, in base alle dichiarazioni dei superstiti, ci sarebbero almeno 10-20 dispersi, mentre il primo comunicato emesso dalla Guardia costiera esclude che ci siano vittime. Secondo questo comunicato la prima segnalazione della presenza del barcone ormai prossimo alla costa sarebbe giunta da un “cittadino” lampedusano, una circostanza piuttosto strana, atteso che il rovesciamento si è verificato a 800-1200 metri circa dalla costa, quando l’imbarcazione era stata già raggiunta dai mezzi della Guardia Costiera e della Guardia di Finanza. Si deve quindi ritenere che il primo avvistamento sia avvenuto ad una distanza ancora maggiore dalla costa. Ringraziamo Sergio Scandura di Radio Radicale per il prezioso lavoro di documentazione dei tracciati che permettono di capire quello che i comunicati ufficiali non dicono più. Intanto cominciano ad essere recuperati i primi cadaveri, di cui si è appreso con ore di ritardo.
Altri naufragi e limiti causati dagli accordi con i libici
Negli stessi giorni, per un diverso naufragio molto più a sud, altri corpi vengono recuperati sulle spiagge libiche, ma in Italia non ne parla nessuno. La collaborazione con la sedicente guardia costiera “libica” deve proseguire a qualsiasi costo. Anche a costo di non garantire più il diritto alla vita. In mare ed a terra, in Libia, dove si muore anche nei centri di detenzione. Il 20 novembre scorso almeno 70 persone erano annegate poco dopo essere partite dalla Libia, senza che nessuno fosse intervenuto per soccorrerle. Perché la Guardia costiera libica intercetta, quando è coordinata dalle autorità italiane ed europee, ma non è in grado di garantire vere operazioni di ricerca e salvataggio.
Successivamente, alcuni cadaveri di donne sono stati recuperati sugli scogli delle cale a sud di Lampedusa, ma rimangono molti dispersi, mentre le ricerche procedono a intermittenza per le avverse condizioni meteo. Si diffondono intanto le immagini riprese durante i primi soccorsi, documenti video su cui tutti dovrebbero riflettere prima di parlare di “pull factor”, “consegne concordate con le ONG” e “porti chiusi”. Nulla potrà riparare questo dolore. Che non è solo il dolore infinito di chi ha perso figli o genitori, ma è anche il dolore di tutti noi che assistiamo a questi eventi disumani frutto delle politiche migratorie europee ed italiane, un dolore che accresce la determinazione della solidarietà e la forza della denuncia.
Possibile che nessuna delle numerose unità navali militari e nessuno degli assetti aerei operativi sulla rotta del Mediterraneo centrale abbia avvistato prima il barcone stracarico che navigava a fatica in un mare molto mosso con burrasca 7 da sud in corso, inclusi gli aerei delle missioni europee Frontex ed Eunavfor Med? Poche settimane fa, quasi nella stessa zona, si era verificata un’altra strage, in circostanze assai simili, proprio quando la salvezza sembrava ormai raggiunta.
Sembra che, a differenza del passato, quando le motovedette salpate da Lampedusa o le navi della missione Mare Sicuro intervenivano più tempestivamente, con trasbordi in alto mare, anche nella cosiddetta zona SAR di competenza delle autorità maltesi, oggi ben precisi indirizzi politici suggeriscano ai vertici operativi della nostra Guardia costiera di ritardare al massimo gli interventi di soccorso e di tracciare prima le rotte di avvicinamento dei barconi partiti dalla Libia per tutto il tratto di navigazione rientrante nella cosiddetta zona SAR maltese, salvo ad intervenire nei casi più estremi di emergenza, quando però anche pochi minuti di ritardo o un onda anomala, possono fare la differenza tra la vita e la morte. E adesso altre persone piangono la scomparsa dei loro cari, altre famiglie non sapranno più nulla dei loro congiunti, figli, fratelli, padri, come noi.
Il peso per gli equipaggi della Guardia Costiera
Comprendiamo in queste ore la sofferenza degli equipaggi delle imbarcazioni militari italiane che in passato avevano soccorso centinaia di migliaia di persone (soprattutto a partire dall’Operazione Mare Nostrum nel 2014), che oggi sono costretti ad assistere impotenti a lunghe navigazioni di avvicinamento di barconi stracarichi di persone, continuamente esposti al rischio di affondamento. Che dovrebbero concludersi con l’arrivo sulle coste di Lampedusa, perché i cosiddetti sbarchi “autonomi” non fanno notizia, mentre ogni intervento di soccorso di un mezzo militare italiano, adesso che hanno bloccato o rallentato le imbarcazioni private delle ONG, scatena lo sciacallaggio di chi specula sui soccorsi in acque internazionali per guadagnare un miserabile vantaggio elettorale. Gli stessi che vorrebbero che i naufraghi soccorsi in acque internazionali fossero riconsegnati ai miliziani libici in divisa di guardacoste. Negli stessi giorni, la sedicente guardia costiera libica ha annunciato di avere intercettato e ripreso almeno 300 persone fatte partire dai trafficanti in condizioni meteo assai critiche, mentre delle tre navi delle ONG tenute da giorni in alto mare con il loro carico di naufraghi, soltanto la Ocean Viking riceveva l’indicazione di un porto sicuro di sbarco. Dopo l’ennesima trattativa a livello europeo per assicurare la redistribuzione in altri paesi di una parte dei naufraghi. Alla Open Arms ed alla Aita Mari erano stati assegnati domenica i porti, ma lontani ed al di là della burrasca che si scaricava nel Mediterraneo centrale.
Il “decreto sicurezza bis” e la retroattività
Sono queste le conseguenze degli effetti retroattivi attribuiti la scorsa estate al cosiddetto decreto sicurezza bis. Una retroattività sulla quale dovrebbero pronunciarsi i tribunali penali ed amministrativi, oltre alle rituali indagini per agevolazione dell’immigrazione irregolare. Allontanate, o sottoposte a sequestro, quasi tutte le navi delle ONG che non hanno “obbedito” alle intimazioni sempre più minacciose della sedicente guardia costiera “libica”, e che quindi hanno subito il divieto di ingresso nelle acque territoriali italiane, aumentato il supporto europeo ed italiano ai guardacoste libici, evidentemente coordinati da assetti militari italiani, svuotate di mezzi di soccorso le rotte dalla Libia all’Italia, gli interventi di intercettazione in acque internazionali delegati alle milizie navali libiche superano ormai il numero di soccorsi effettuati dalle unità militari e private europee, che si concludono con lo sbarco dei naufraghi in un porto sicuro (place of safety). Le dichiarazioni di numerosi naufraghi soccorsi dalle ONG e recenti interviste in Italia condotte dall’UNHCR confermano che persone sbarcate a terra da mezzi della sedicente guardia costiera “libica” dopo essere state intercettate in acque internazionali, sono state immediatamente vendute ai trafficanti, e queste testimonianze si ripetono giorno dopo giorno, sempre più circostanziate, rese da naufraghi provenienti da Tripoli, da Zawia, e da Bani Walid.
Si è appreso inoltre, da fonti di stampa estere, successivamente riprese in Italia, che in diverse occasioni le motovedette libiche sarebbero intervenute su delega delle autorità maltesi per intercettare dei naufraghi che si trovavano già nella zona SAR attribuita a Malta e che si dirigevano verso le coste italiane, in una zona peraltro nella quale le aree SAR maltese ed italiana risultano sovrapposte. Luoghi nei quali si sono verificati numerosi naufragi anche per i ritardi dovuto al mancato coordinamento tra le autorità SAR dei diversi stati. In questa ultima occasione il coordinamento c’è stato, ma tra le autorità maltesi e quelle libiche, e si è tradotto di fatto in un vero e proprio respingimento collettivo.
La zona SAR italiana e maltese delegata ai libici
Le ultime due tragedie avvenute a poca distanza dalle coste di Lampedusa, dimostrano quali sono gli effetti delle prassi operative imposte alla Guardia Costiera italiana dal Decreto sicurezza bis, e prima ancora dalle ordinanze e dalle direttive dell’ex ministro dell’Interno Matteo Salvini. Prima di intervenire, i mezzi italiani attendono sistematicamente che le imbarcazioni cariche di persone in procinto di affondare lascino la zona SAR maltese, mentre le autorità di La Valletta, a loro volta legati ad un accordo bilaterale con i libici, piuttosto che cooperare con gli italiani nelle attività di ricerca e soccorso, come sarebbe imposto dalle Convenzioni internazionali, permettono ai libici di entrare nel pieno della zona SAR di loro competenza per intercettare i migranti e riportarli nei centri di detenzione nei quali continueranno ad essere oggetto di abusi di ogni genere, di torture atroci e di estorsioni. Un sistema ormai “collaudato” che vede nei ranghi della guardia costiera libica miliziani collusi con i trafficanti di esseri umani. Per questa ragione le autorità italiane sono sempre più restie ad operare in una zona SAR, quella maltese, che ormai è diventata campo di azione (anche) delle motovedette che operano per contro delle milizie che sostengono il governo di Tripoli (inclusa la milizia di Bija, trafficante e garante del porto del petrolio, Zawia).
La condizione di rischio delle imbarcazioni
Le imbarcazioni stracariche che trasportano i migranti nella maggior parte dei casi sono “unsafe”, cioè prive dei requisiti di navigabilità secondo la Convenzione SOLAS. Come osservano Leanza e Caffio, “da ciò deriva la circostanza che la richiesta di soccorso può pervenire agli organi SAR nazionali prima che si verifichi un evento pregiudizievole per la vita delle persone trasportate. Il problema riguarda in particolare la questione dell’esistenza di un effettivo o imminente “distress”, potendosi anche presentare il caso che la richiesta sia avanzata in assenza di pericolo imminente, ma tuttavia pervenga da un’imbarcazione priva dei requisiti di sicurezza. La nozione di “distress” è così stabilita dalla convenzione di Amburgo del 1979 (Annex, ch. 1, para. 1.3.11): “a)situation wherein there is a reasonable certainty that a vessel or a per-son is threatened by grave and imminent danger and requires immediate assistance”.
La nozione di “distress”, generalmente adottata in diritto internazionale, impone l’intervento immediato di soccorso non appena sia comunicata l’esistenza dell’evento SAR, da realizzare fornendo i naufraghi di mezzi di galleggiamento individuale (giubbetti salvagente) e predisponendo galleggianti per gruppi di persone che dovessero cadere in mare, come fanno oggi le ONG e come era prassi anche per la Guardia Costiera e la Marina Militare fino al 2017.
La fascia contigua nel Decreto ministeriale del 2003
In base al Decreto ministeriale 14 luglio 2003 (disposizioni in materia di contrasto all’immigrazione clandestina in G.U. n. 220 del 2003), successivo alla legge Bossi-Fini del 2002, vengono indicate le competenze delle diverse autorità nazionali, in particolare all’art. 6 secondo cui:
“1. Ferme restando le competenze dei prefetti dei capoluoghi di regione ai sensi dell’art. 11, comma 3, del testo unico in materia di coordinata vigilanza, nelle acque territoriali e interne italiane le unità navali delle Forze di polizia svolgono attività di sorveglianza e di controllo ai fini della prevenzione e del contrasto del traffico illecito di migranti. Le unità navali della Marina militare e delle Capitanerie di porto concorrono a tale attività attraverso la tempestiva comunicazione dell’avvistamento dei natanti in arrivo o mediante tracciamento e riporto dei natanti stessi, in attesa dell’intervento delle Forze di polizia. Quando in relazione agli elementi meteomarini ed alla situazione del mezzo navale sussistano gravi condizioni ai fini della salvaguardia della vita umana in mare, le unità di Stato presenti, informata la Direzione centrale e sotto il coordinamento dell’organizzazione di soccorso in mare di cui al decreto del Presidente della Repubblica 28 settembre 1994, n. 662, provvedono alla pronta adozione degli interventi di soccorso curando nel contempo i riscontri di polizia giudiziaria.
2. Al fine di rendere più efficace l’intervento delle Forze di polizia nelle acque territoriali è stabilita una fascia di coordinamento che si estende fino al limite dell’area di mare internazionalmente definita come «zona contigua» nelle cui acque il coordinamento delle attività navali connesse al contrasto dell’immigrazione clandestina, in presenza di mezzi appartenenti a diverse amministrazioni, è affidato al Corpo della guardia di finanza”.
La teoria del “pull factor” delle navi ONG
L’immediatezza dell’intervento dovuto dai comandanti delle navi e dai corpi della Guardia Costiera demolisce la ricostruzione delle “consegne concordate” sulla quale si sono imbastiti diversi processi penali contro le ONG, o la tesi del cosiddetto “pull factor”, rilanciata adesso dai più recenti atti deliberati dall’Unione Europea, oltre che dai noti mestatori d’odio che fanno capo a Primato Nazionale. Se è vero che la presenza della nave soccorritrice ai limiti delle acque territoriali libiche è largamente prevedibile dai trafficanti, non si può affermare che le imbarcazioni delle ONG si trovino in una determinata zona allo scopo di operare una attività di agevolazione dell’ingresso irregolare. Le ONG continuano ad operare ancora oggi in acque internazionali per impedire che, come purtroppo continua a verificarsi in troppi casi, l’assenza delle imbarcazioni militari di soccorso o il loro ritardato arrivo (magari in attesa che intervenga qualche motovedetta libica donata dall’Italia, o che i barconi raggiungano autonomamente Lampedusa) producano l’annegamento di tutti o parte dei migranti. Che una volta fatti partire ed abbandonati dai trafficanti in alto mare sono soltanto naufraghi da soccorrere e non certo “clandestini” che potrebbero entrare in territorio europeo in violazione delle leggi vigenti.
La normativa vigente prevede espressamente l’ipotesi dell’entrata nel territorio dello Stato per ragioni di soccorso di migranti privi di valido titolo di ingresso, per stabilire che, in assenza di una richiesta di protezione internazionale, può essere disposto il respingimento ( art. 10 del T.U. n.286/1998) o l’espulsione (art. 13 dello stesso Testo Unico). Ma solo dopo il loro sbarco a terra nel porto sicuro più vicino. E chi si trova in alto mare su una imbarcazione sovraccarica va soccorso immediatamente, senza attendere che gli Stati si mettano d’accordo, e senza neppure attività di mero tracciamento o monitoraggio, in attesa che si verifichi lo sbarco autonomo sulle coste italiane. Magari solo per evitare una polemica politica. Nessuno in Italia si può permettere di continuare a difendere gli accordi con la sedicente guardia costiera “libica”. A meno di non finire oggetto dell’indagine della Corte penale internazionale, che dopo avere indagato per anni sugli abusi commessi a terra dalle milizie libiche sta estendendo il suo campo di osservazione alle prassi adottate dalle autorità libiche nella vasta zona di ricerca e salvataggio (SAR) che si sono attribuite con il consenso degli Stati del Mediterraneo e dell’IMO (Organizzazione Internazionale Marittima che fa capo alle Nazioni Unite). Una zona nella quale si “intercettano” persone, ma non si garantisce certo la salvezza della vita umana in mare (e poi a terra).
Il Memorandum che umanizza il disumano
La bozza dell’accordo europeo sui migranti stipulata recentemente a Malta si mantiene sulla linea di considerare le ONG un fattore di attrazione (pull factor) e prelude alla loro ulteriore criminalizzazione. I punti principali dell’accordo prevedono la esternalizzazione delle frontiere in Libia e le “piattaforme” in quel paese per lo sbarco delle persone soccorse nel Mediterraneo centrale. Il Memorandum elaborato nel vertice di Malta nello scorso settembre non costituisce affatto “un primo passo verso la riforma del Regolamento di Dublino”, ma si rivela giorno dopo giorno solo un tentativo di “umanizzazione del disumano”: la detenzione amministrativa in territorio libico, prima che su questo siano realizzate complessive situazioni di sicurezza per le persone migranti. In numerose occasioni l’UNHCR, che ha ritirato dalla Libia la maggior parte dei suoi operatori internazionali, ha ribadito che non è nelle condizioni di garantire la sicurezza delle persone internate nei centri di detenzione e ne ha chiesto l’immediato rilascio. Come sono ben note alle autorità statali europee le condizioni disumane di trattenimento nei centri libici, dovrebbero essere altrettanto note le modalità di (non) intervento della maggior parte degli assetti navali e degli aerei militari presenti sulle rotte dalla Libia verso l’Europa. L’unico obiettivo condiviso sembra costituito dall’intervento delle motovedette libiche anche al di fuori delle aree di loro competenza. Purché intercettino i migranti e li riportino indietro.
Ormai in tutto il Mediterraneo prevale la politica dell’abbandono in mare per limitare il diritto di fuga e la libertà delle persone, a partire dal diritto alla vita che dovrebbe essere garantito ad ogni persona migrante, quale che sia la sua condizione giuridica.
Continuano ad esser ignorate le Raccomandazioni del Consiglio d’Europa sugli obblighi di soccorso in mare spettanti agli Stati. Si ritiene che le vite delle persone in fuga dalla Libia siano sacrificabili, per difenderci da una “invasione” che non esiste. Per questo la società è sempre più divisa tra chi accetta e sostiene le politiche di chiusura (non solo dei porti) e di morte e chi sceglie la solidarietà ed il diritto alla vita. La negazione delle stragi di sistema è un dato ormai acquisito come prassi di governo e strumento di comunicazione.
Le ultime stragi nel Mediterraneo centrale sono anche conseguenza del voto del Parlamento europeo che ha respinto una Risoluzione, già abbastanza moderata, presentata dalla Commissione LIBE (Libertà civile) sugli obblighi di soccorso in mare. Il testo di compromesso, proposto dalla Commissione Libertà Civili, conteneva 18 raccomandazioni agli Stati membri per una maggiore cooperazione nelle attività di ricerca e salvataggio in mare. In particolare il punto 9 del testo richiedeva agli Stati membri di «mantenere i porti aperti alle imbarcazioni delle Ong», mentre il punto 16 chiedeva alla Commissione un impegno a lavorare su un meccanismo di distribuzione dei migranti «equo e sostenibile». In questo modo l’Unione Europea aggrava le sue responsabilità su quella che è la rotta migratoria marina più pericolosa del mondo, la rotta del Mediterraneo centrale.
La continuità politica contro le indicazioni di legge
Purtroppo non si vedono ancora reali segnali di discontinuità nelle politiche del governo italiano in materia di soccorsi in mare, salvo il tardivo rispetto del diritto internazionale nella indicazione del porto sicuro di sbarco, che il governo precedente violava costantemente, omettendo atti doverosi e sollecitando l’intervento delle motovedette libiche ben consapevole del rischio mortale nel quale abbandonava i naufraghi che dovevano essere soccorsi. Gli accordi con la Libia, stipulati nel tempo da diversi governi, di segno diverso, dal 2007 (governo Prodi) al 2008 (governo Berlusconi) e dal 2012 ( governo Monti) al 2017 (governo Gentiloni), sembrano intoccabili. Anche se i giudici hanno affermato in diverse occasioni che la Libia non garantisce porti sicuri di sbarco.
Occorre abrogare il decreto sicurezza bis n.53/2019, poi convertito in legge, perché legittima le prassi di abbandono in mare e criminalizza l’intervento di ricerca e soccorso delle imbarcazioni private delle ONG, limitando anche l’area degli interventi della Guardia Costiera italiana e della Marina Militare, tenute ad operare in prossimità delle acque territoriali italiane o a difesa delle piattaforme petrolifere offshore (Operazione Mare Sicuro), senza più quegli interventi tempestivi in acque internazionali che in passato avevano fatto onore alla bandiera italiana.
La giurisdizione, di fronte alla quale si stanno ancora indagando le ONG, ma anche chi non ha soccorso tempestivamente naufraghi che chiedevano aiuto, ed i canali di comunicazione pubblici e social, che non possono diffondere soltanto messaggi di morte e di criminalizzazione dei soccorsi umanitari, saranno terreno di scontro quotidiano tra chi difende la dignità umana e la solidarietà, dettata anche dalla Costituzione, e chi invece cerca soltanto carriere personali, posti di potere da occupare e quindi consenso elettorale, con la politica dei muri e dei porti chiusi. Oggi con questa ennesima strage in mare vediamo quali sono le conseguenze di quelle scelte politiche e chi sono le vittime designate.
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