di Domenico Gallo
Si è svolto il 4 dicembre, il Consiglio Nord Atlantico dei capi di Stato e di Governo convocato per celebrare il 70° anniversario della Nato. Settant’anni sono molti, forse troppi. Dietro l’esultanza del segretario generale Jens Stoltenberg che ha qualificato la NATO come «l’alleanza di maggiore successo nella storia», e dietro il formalismo delle dichiarazioni ufficiali, questo vertice sarà ricordato per le numerose fratture, gli scontri e i contrasti che sono emersi fra i 29 Paesi membri. La solidità politica dell’Alleanza e della cosiddetta partnership trans-atlantica si è infranta di fronte alla minaccia di Trump di punire la Francia (applicando allo champagne dazi del 100%) a fronte della dichiarata intenzione di Macron di far pagare una misera tassa alle multinazionali del Web. Del resto quello che nei documenti ufficiali si chiama “il vitale legame transatlantico” deve essersi particolarmente logorato da quanto al di là dell’Atlantico si punta apertamente alla disgregazione dell’Unione Europea e dell’euro e si plaude alla Brexit.
Di fronte all’aggressione che la Turchia, Paese membro della NATO, ha compiuto contro il Rojava in aperto sfregio della Carta dell’ONU, suonano come imbarazzanti le parole della dichiarazione finale dove si richiamano i comuni valori: “che includono la libertà individuale, i diritti umani, la Democrazia e lo Stato di diritto”. È strano che nessuno abbia chiesto ad Erdogan che cosa intenda per Stato di diritto, dopo aver destituito 5.000 magistrati, arrestato centinaia di giornalisti e chiuso i loro giornali, espulso migliaia di insegnanti dall’Università e dalle scuole di ogni ordine e grado. Nella dichiarazione finale, composta da 9 punti, si fa una ricognizione degli impegni assunti in varie aree del mondo e delle minacce che la NATO intende fronteggiare. In questo contesto molti passaggi sono dedicati alla Russia che viene consolidata nel ruolo di nemico da contenere, sviluppando un adeguato dispositivo militare, attribuendo così alla Russia di Putin la stessa funzione che durante la guerra fredda la NATO assegnava all’URSS.
In questo modo, per altre strade, si è creata di nuovo una situazione simile alla guerra fredda, con la conseguenza di incrementare la corsa agli armamenti e di riesumare il terrore di una guerra atomica. Del resto, l’incremento della spesa militare è stato l’unico obiettivo sul quale tutti si sono ritrovati d’accordo ed è stato chiaramente indicato al punto 2 della dichiarazione finale dove si ribadisce l’impegno di tutti gli Stati membri a raggiungere l’obiettivo di elevare la spesa militare al 2% del PIL e si esprime apprezzamento per il considerevole progresso fatto, essendoci stato per cinque anni consecutivi un incremento reale delle spese militari dei paesi europei. Non sappiamo se anche l’Italia abbia assunto questo impegno, parrebbe di si, visto che in ottobre, nell’incontro col Segretario generale della Nato, il governo Conte II si è impegnato ad aumentare stabilmente la spesa per armamenti di circa 7 miliardi di euro annui a partire dal 2020 (La Stampa, 11 ottobre 2019).
È curioso notare che 7 miliardi è all’incirca il costo del reddito di cittadinanza, una misura di contrasto alla povertà che ha raggiunto oltre un milione di cittadini, ed è stata oggetto di critiche pesantissime per la sua incidenza sul bilancio dello Stato. Peccato che nessuno si sia preoccupato del peso sui conti pubblici degli impegni che abbiamo assunto in sede NATO.
Le spese militari andranno alle stelle (non solo in senso metaforico) perché è stato aperto un nuovo capitolo nella corsa agli armamenti. Al punto 6 della dichiarazione finale si afferma che lo spazio è un terreno operativo per la NATO, aprendo così la via alla militarizzazione dello spazio. In definitiva il summit per i 70 anni ci ha venduto la versione della pace secondo la NATO: una pace armata. Ci permettiamo di non essere d’accordo, non è con la corsa agli armamenti che si costruisce la pace e richiamiamo il grido di dolore che Papa Bergoglio ha lanciato nel corso della sua visita ad Hiroshima e Nagasaki dove, assieme all’uso ed al possesso delle armi atomiche, ha condannato nuovamente la corsa agli armamenti. Ed ha aggiunto una nuova definizione della pace, dicendo che la vera pace è disarmata: “le armi, ancor prima di causare vittime e distruzione, hanno la capacità di generare cattivi sogni, esigono enormi spese, arrestano progetti di solidarietà e di utile lavoro, falsano la psicologia dei popoli. La vera pace può essere solo una pace disarmata”. Noi dobbiamo chiederci, di cosa parliamo quando parliamo di pace?
(Editoriale di Domenico Gallo condiviso con Il Corriere dell’Irpinia)
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