di Vittorio Alessandro
Il 22 settembre del 2006 ero a Beirut quando Hasan Nasrallah, leader carismatico degli Hezbollah, tenne il suo “discorso della vittoria” alla fine della feroce guerra con Israele. Nasrallah non appare spesso in pubblico: il suo movimento è considerato dall’Occidente una organizzazione terroristica ma, da quel che ho visto, è molto di più e molto di meno che questo, sicuramente è un forte movimento di popolo. Quel giorno fu festa e, fin dal primo pomeriggio, erano arrivati a Beirut migliaia di manifestanti da tutta la regione e, immagino, anche dalla Siria. File di auto, clacson, scoppi di mitraglia. Uscii dall’albergo con molta circospezione, e non me ne allontanai troppo.
Imma Vitelli, intrepida inviata di Vanity Fair, era andata al “Victory Rally” e mi raccontò. Fino all’ultimo non si sapeva se il capo Hezbollah sarebbe apparso: minacce di morte erano arrivate a lui e alla piazza che, nonostante questo, risultò strapiena. Imma era sotto il palco, dove i primi posti erano riservati agli invalidi e alle donne.
Nasrallah, finalmente apparso tra le guardie del corpo, aveva parlato al di là di un vetro anti-proiettile. Imma, che conosce bene l’arabo, mi disse della sua abile oratoria, dell’accurata scelta dei toni, dei giochi di parole, dell’autoironia, dei forti accenti poetici, delle acclamazioni. Quando tornai in albergo, il tassista riascoltava a tutto volume il suo discorso così come può godersi un pezzo di musica rock.
Lunedì Nasrallah ha parlato di nuovo per assicurare vendetta agli Stati Uniti e ai loro alleati. Ci sono militari italiani a sud del Libano, e l’Italia neanche è stata informata del raid che ha ucciso il generale Soleimani.
Mi chiedo cosa abbia in testa Trump.
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