di Franca Regina Parizzi
La sperimentazione clinica per valutare l’efficacia di un farmaco, di un test o di una tecnica diagnostica è necessaria per lo sviluppo delle conoscenze e delle possibilità di diagnosi e cura delle malattie. Essa rappresenta tuttavia un ambito estremamente complesso e delicato in cui entrano in gioco diversi protagonisti: l’industria privata, le comunità scientifiche, i malati, i cittadini e il sistema sanitario. I problemi legati alla sperimentazione umana in Medicina sono molti. Per citarne alcuni: la scarsa trasparenza dei rapporti tra industria privata e comunità scientifiche, la competitività e l’assenza di condivisione dei risultati tra i centri di ricerca, il conflitto di interessi, la qualità scientifica delle sperimentazioni, l’assenza di strumenti di controllo delle procedure e dei risultati, il diritto (dovere?) delle persone malate di partecipare alla sperimentazione, la validità del consenso informato, i tempi esageratamente lunghi che intercorrono tra i risultati della sperimentazione e l’accessibilità alle nuove acquisizioni scientifiche da parte dei malati che ne possono trarre beneficio (occorrono in media 10 anni dal momento in cui viene scoperto un farmaco alla sua approvazione per la commercializzazione, di cui circa 7 anni per la sperimentazione).
Ma il problema principale è che la ricerca e la sperimentazione non sono orientate sulla base di reali bisogni di salute, ma sono dettate da regole di mercato. Queste regole spiegano lo scarso impegno di ricerca nel campo delle malattie più diffuse nei Paesi del Sud del mondo e nel campo della malattie rare (i così detti “farmaci orfani”), creano disuguaglianze e violano il diritto universale alla salute.
Ma qual è la strada che percorre un farmaco prima di arrivare sul mercato? Il farmaco viene innanzi tutto testato sugli animali secondo un iter stabilito dalla legge. Il D.L. 26/2014, emesso a seguito delle battaglie delle Associazioni animaliste e della Lega Anti-Vivisezione (LAV), ha limitato molto la sperimentazione animale nel nostro Paese, che ha adottato criteri molto più restrittivi rispetto a tutti gli altri Paesi dell’Unione Europea. Uno dei problemi più importanti riguarda il divieto di allevamento di animali allo scopo della sperimentazione clinica, che comporta l’acquisto da parte dei Centri di ricerca di animali da altri Paesi con costi superiori e minori garanzie di idoneità degli animali ai fini della sperimentazione.
Una volta accertato che il farmaco non è tossico per l’animale, si procede alla sperimentazione sull’uomo, che si svolge in fasi successive: nella fase I il farmaco viene testato su volontari sani per valutarne la sicurezza e la tollerabilità; nella fase II viene somministrato a un piccolo gruppo di malati per valutarne l’efficacia; nella fase III viene somministrato a un ampio gruppo di malati con studi che per essere ottimali (cioè per portare a risultati scientificamente inconfutabili) dovrebbero essere randomizzati, controllati e in “doppio cieco”. Ma che cosa significano questi termini? L’assegnazione del farmaco o del placebo (cioè praticamente acqua) alla persona malata è casuale (randomizzato), sia il medico sperimentatore che il malato non sono a conoscenza se la sostanza somministrata sia il farmaco o il placebo (doppio cieco) e i risultati sono confrontati con un gruppo omogeneo di malati che non hanno ricevuto nulla (gruppo di controllo). Ultimata la fase III, l’AIFA (Agenzia Italiana del Farmaco) autorizza la messa in commercio del farmaco ed inizia la fase IV, la fase della farmacovigilanza, cioè la segnalazione da parte dei medici, che hanno in cura le persone malate che assumono il farmaco, di eventuali effetti collaterali o reazioni avverse.
Ma torniamo alla fase I, forse la più critica sul piano etico. Critica perché i volontari sani sono persone che si prestano volontariamente e dietro compenso alla sperimentazione. Devono avere determinate caratteristiche (età, sesso, stato di salute), accettare di sottoporsi a controlli periodici (esami diagnostici, visite mediche), firmare un consenso informato (ma possono decidere di uscire dalla sperimentazione quando vogliono). Il compenso dipende dall’impegno di tempo e dal tipo di farmaco o test diagnostico che viene sperimentato. In molti casi si richiede anche uno o più ricoveri in cliniche ad hoc, presenti in molti Paesi Europei (anche in Italia) e negli Stati Uniti. Circa vent’anni fa ho visitato una Clinica per volontari sani nell’Indiana (USA), ubicata all’interno della sede di un’industria farmaceutica multinazionale, e sono rimasta colpita dai volontari sani che vi erano ricoverati: quasi tutti neri o ispanici in apparenti ottime condizioni di salute. Perché c’è chi di mestiere fa il volontario per le sperimentazioni cliniche ed evidentemente si tratta di persone povere o attirate dalla possibilità di un facile guadagno, che in un certo senso “vendono il proprio corpo alla scienza”. Una professione molto discussa e discutibile, ma molto redditizia (in media 300 euro al giorno). Nel sito web “Just another lab rat” (“Solo un altro topo da laboratorio”), Paul Clough, americano, racconta i retroscena della sua professione e l’intento di proseguirla fino a quando il suo fisico lo consentirà. Anche nei Paesi industrializzati, non soltanto nel Terzo Mondo, esistono le cavie umane: non soltanto l’aumento della povertà e della disoccupazione, ma anche i falsi bisogni e il consumismo favoriscono il reclutamento di volontari sani.
Il 28 marzo 1990 è stato istituito in Italia il Comitato Nazionale di Bioetica, organo consultivo del Consiglio dei Ministri, costituito da esperti in diverse discipline: giuridiche, filosofiche, biologiche, mediche, medico-legali, psicologiche e sociologiche. Successivamente, con decreto ministeriale del 18 marzo 1998, sono stati istituiti Comitati Etici per la sperimentazione nelle Aziende Sanitarie, con il compito di valutare gli aspetti etici e i presupposti scientifici della sperimentazione, con particolare attenzione ai rischi eventualmente correlati e al consenso informato. I Comitati Etici sono organi istituzionali indipendenti, costituiti da una maggioranza di persone che appartengono alle professioni sanitarie e da una minoranza di membri “laici”, che provengono dalla comunità, spesso membri di Associazioni di malati e di volontariato o altre figure (filosofi, esperti di bioetica, avvocati, giudici, ecc.). I Comitati Etici sono pertanto organi pluridisciplinari, costituiti da persone con retroterra e percorsi formativi diversi.
La minoranza di membri “laici”, non addetti ai lavori e verosimilmente più orientati a tutelare l’interesse dei pazienti, rispetto alla componente sanitaria, fa sorgere alcuni dubbi sulla rilevanza del loro ruolo e sulla loro incisività all’interno dei Comitati Etici. Spesso i membri “laici”, consapevoli dell’importanza del proprio mandato, lamentano di non essere ascoltati e rispettati dagli altri membri. Si è andata sempre più affermando nel tempo l’importanza del coinvolgimento dei pazienti esperti nei Comitati Etici. Il termine paziente esperto è entrato oggi nel linguaggio comune ed è espressione del diffondersi della cultura che titolari delle scelte devono essere gli stessi malati, che devono acquisire le competenze necessarie per valutare da esperti le proprie opportunità di cura. Questo processo, che – per usare un termine oggi molto di moda – possiamo definire empowerment, è fondamentale nel campo della sperimentazione clinica e ha come obiettivi primari la partecipazione delle persone malate alle conoscenze scientifiche e l’esercizio del diritto di scelta consapevole..
La partecipazione a una sperimentazione clinica rappresenta un’opportunità per molte persone affette da malattie gravi quando non sono disponibili altri trattamenti utili. La malattia grave o cronica rende la persona malata un viaggiatore instancabile alla ricerca di nuove opportunità di cura, del “farmaco della speranza”. La ricerca in Medicina alimenta la speranza e la sperimentazione consente di intraprendere nuovi percorsi di cura, aiuta a credere nella possibilità di una prognosi migliore.
Nel corso degli ultimi sessant’anni sono stati elaborati numerosi codici, regolamenti e leggi per governare la ricerca e la sperimentazione negli esseri umani, volti a stabilire un sempre maggiore equilibrio di potere tra ricercatori e soggetti della ricerca. Un tempo ogni decisione nel campo della ricerca medica era lasciata alla coscienza del singolo medico e i soggetti da sottoporre alla ricerca spesso non ne erano consapevoli o addirittura venivano reclutati nei Paesi poveri (vedi vignetta). Oggi, pur tra luci ed ombre, la sperimentazione clinica è sempre più sotto controllo della collettività. Non si deve dimenticare tuttavia che la Medicina è una scienza sperimentale e i traguardi raggiunti devono essere continuamente verificati, riverificati e superati e tutto questo passa inevitabilmente attraverso la ricerca e la sperimentazione.
“Ci manca una cavia per gli ansiolitici”
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