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Resilienza e malattia

di Franca Regina Parizzi

Resilienza: una parola di moda, certamente abusata, spesso usata a vanvera. Il conformismo del linguaggio altera, spesso stravolge il corretto significato delle parole. Fino a poco più di sei anni fa nessuno conosceva il termine “resilienza”, solo gli ingegneri, i fisici e altri tecnici del settore, perché la resilienza indica propriamente la capacità di un materiale di ri-assumere la forma originaria dopo aver subito pressioni che lo hanno deformato.

Trasferita alla psicologia, la parola “resilienza” indica la capacità dell’individuo, esposto a un evento ad alto potenziale distruttivo (una malattia grave, la perdita di una persona cara, la fine di una relazione, la perdita del lavoro, ecc.), non solo di superarlo, ma di trasformarlo in un’opportunità di cambiamento e crescita personale.

Quando i giapponesi riparano un oggetto rotto, valorizzano le crepe riempiendole con dell’oro (la tecnica si chiama kintsugi), donando così all’oggetto un aspetto nuovo, tale da renderlo unico, irripetibile e prezioso proprio grazie alle sue spaccature. Nella cultura consumistica invece ciò che è rotto perde valore. Analogamente, le ferite del corpo e dell’anima generano in chi le subisce sentimenti di dolore, a volte di vergogna e isolamento, e spesso negli altri paura, rifiuto, allontanamento. Ogni persona ha invece un valore unico e inestimabile proprio per le sue ferite, per le sue cicatrici, sulle quali si è costruita la sua identità e la sua storia.

Prendiamo ad esempio la comunicazione di diagnosi di una malattia grave, a evoluzione infausta.

Elisabeth Kubler Ross (1926-2004), medico e psichiatra svizzera, ha identificato cinque fasi che seguono la comunicazione di una prognosi infausta: negazione, rabbia, patteggiamento, depressione, accettazione. Fasi che si avvicendano e variamente si alternano nel percorso che conduce la persona alla fine della vita, ma che rappresentano spesso reazioni spontanee anche in persone che si trovano a confrontarsi con una malattia grave, ma curabile. Non tutti, di fronte a eventi fortemente traumatici, sono resilienti, ma possono diventarlo. Perché la resilienza non è una caratteristica di alcuni, ma una dote insita in ciascuna persona, non è qualcosa di straordinario, ma ordinario.  Questo non significa che non possano coesistere momenti e sentimenti negativi (dolore, sconforto, stress, tristezza, rabbia, depressione), perché la resilienza non è un tratto costante della personalità, ma un percorso in cui entrano in gioco non soltanto le caratteristiche individuali, ma anche fattori socio-ambientali legati al contesto di vita, alla qualità delle relazioni, alla disponibilità all’ascolto e alla condivisione da parte degli altri. Perché non può esserci resilienza nell’isolamento sociale.

La resilienza non va intesa semplicemente come accettazione delle avversità della vita e adattamento (più propriamente dovremmo parlare di “resistenza” anziché di “resilienza”), ma come un’occasione per trasformare l’evento traumatico in opportunità di crescita personale.

Le testimonianze raccolte dal Centro di Ematologia Pediatrica dell’Università di Milano Bicocca, Ospedale San Gerardo di Monza, dimostrano come la maggior parte dei ragazzi guariti da una leucemia sviluppino un atteggiamento positivo nei confronti della vita e una migliore capacità di relazionarsi con gli altri. Solo una minoranza (il 25% circa) presentano disturbi psicologici da stress post-traumatico (sindrome ansioso-depressiva, scarsa autostima), strettamente correlati alle conseguenze della malattia sull’efficienza fisica, all’infertilità, al timore della ricaduta e della morte, all’interruzione dei progetti di vita precedenti la malattia. Nella maggior parte dei casi l’aver vissuto e superato un evento fortemente traumatico, come una malattia tumorale, diventa un potente catalizzatore di sviluppo e crescita personale, un’opportunità per ricostruire la propria identità e la propria esistenza e per convertire la percezione di vulnerabilità in piena consapevolezza del valore della vita.

“Oggi non sarei tanto sicuro di voler barattare ciò che ho patito, la mia malattia, con un passato sereno, calmo e tranquillo”, scrive uno dei ragazzi guariti. E un altro: “La capacità di vivere intensamente, di impegnarmi per superare gli ostacoli, di cogliere la bellezza della vita sono i doni di quella terribile esperienza”.  Ma le testimonianze di persone che hanno affrontato e affrontano ancora oggi esperienze di malattia fortemente traumatiche e che hanno sviluppato un atteggiamento positivo nei confronti della vita, con e nonostante i limiti imposti dalla malattia o dalle sue conseguenze, sono moltissime. Il Corriere della Sera ha creato un blog, “malattia come opportunità”, a cura del giornalista Ruggiero Corcella, su iniziativa del Prof. Giuseppe Masera (dal 1983 al 2009 Direttore della Clinica Pediatrica dell’Università di Milano Bicocca, Ospedale San Gerardo di Monza), che raccoglie molte di queste testimonianze di resilienza. Storie che possono essere di grande aiuto e di stimolo a chi si trova a confrontarsi con una malattia grave. Perché confrontarsi con le storie di persone che ce l’hanno fatta a sopravvivere alla malattia, o comunque hanno imparato a conviverci con ottimismo e fiducia, fa indubbiamente bene, aiuta a fare emergere quelle risorse che non pensavamo di avere, attivando processi di identificazione e generando una reattività positiva.

Tutti abbiamo sentito parlare di Manuel Bortuzzo, ragazzo diciannovenne ferito accidentalmente  (sembra per uno scambio di persona) in una sparatoria avvenuta a Roma circa un anno fa e rimasto paraplegico. Manuel era una promessa del nuoto e sognava di partecipare alle Olimpiadi. Manuel non si è mai arreso, ha scelto di lottare e poco più di un mese dopo l’evento drammatico che lo ha colpito, è tornato in piscina per iniziare la fisioterapia. La storia di questo ragazzo è un forte esempio di resilienza, ed è raccontata nel suo libro “Rinascere. L’anno in cui ho ricominciato a vivere” (Ed. Rizzoli). “Eccomi qui, a raccontare di me, sperando di poter essere di aiuto a chi ha dovuto far cambiare rotta ai propri sogni” scrive Manuel e prosegue: “Un’altra frase fatta, abusata, forse banale mi viene in mente … Non tutto il male viene per nuocere … Tante cose che adesso fanno parte della mia vita, tante esperienze che sono felice di aver vissuto, sono state possibili solo dalla disgrazia che mi è capitata”.


Scrive Tiziano Terzani, giornalista e scrittore morto nel 2004 per un cancro, nel suo libro “Un altro giro di giostra”: “Il cancro mi offriva una buona occasione: quella di non ripetermi. Non era la sola. Lentamente mi accorsi che il cancro era diventato anche una sorta di scudo dietro il quale mi proteggevo, una difesa contro tutto quel che prima mi aggrediva, una sorta di baluardo contro la banalità del quotidiano, gli impegni sociali, contro il fare conversazione. Col cancro mi ero conquistato il diritto di non sentirmi più in dovere di nulla, di non avere più sensi di colpa. Finalmente ero libero. Totalmente libero. Parrà strano, e a volte pareva stranissimo anche a me, ma ero felice. Non solo la vita, ma le persone e le cose che ci stanno attorno improvvisamente appaiono in una luce diversa. Forse una luce più giusta”.

Spesso sono proprio gli eventi fortemente traumatici che ci fanno apprezzare la vita e ci aiutano a goderne ogni istante, ci aiutano a scegliere, a eliminare il superfluo, a porci nuovi obiettivi e a dare un maggior valore al tempo. A diventare più consapevoli e migliori. Una malattia grave rappresenta certamente uno degli eventi più destabilizzanti per la persona, comporta in tutti i casi un percorso difficile, che mette a dura prova, oltre che il corpo, l’equilibrio psicologico, ma certamente può essere un’opportunità per vivere una vita diversa e riscoprirne i valori.

Franca Regina Parizzi: Nata a Milano il 15.12.1947, ha conseguito la laurea in Medicina e Chirurgia nel 1972 presso l’Università degli Studi di Milano con voti 110/110 e lode. Nel 1974 è stata assunta presso l’Ospedale San Gerardo di Monza, inizialmente come Assistente nel Reparto di Malattie Infettive e successivamente, dal 1980, nel Reparto di Pediatria, divenuto nel 1983 sede della Clinica Pediatrica dell’Università degli Studi di Milano Bicocca, ove ha ricoperto successivamente (dal 1988) il ruolo di Aiuto Corresponsabile Ospedaliero, e, dal 2000, di Dirigente Medico con incarico di Alta Specializzazione. Ha conseguito la Specializzazione in Malattie Infettive e successivamente in Chemioterapia, entrambe presso l’Università degli Studi di Milano. Nel 1977 e 1978 è stata responsabile del Reparto di Pediatria presso l’Hôpital Général de Kamsar (République de Guinée – Afrique de l’Ouest) nell’ambito della Cooperazione Tecnica con i Paesi in via di sviluppo del Ministero degli Affari Esteri italiano. Autrice di numerose pubblicazioni scientifiche su riviste nazionali e internazionali e relatrice in diversi convegni (nazionali e internazionali). Dal 2010 si è trasferita da Monza a Lampedusa, isola alla quale è profondamente legata, dove esercita tuttora la sua attività come pediatra.
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