X

Scheda: Il quadro normativo del processo a Salvini sul caso Gregoretti

di Fulvio Vassallo Paleologo

Mercoledì 12 febbraio il Senato  si è pronunciato sulla richiesta di autorizzazione a procedere nei confronti del senatore Salvini sul caso del blocco dello sbarco dei naufraghi soccorsi nell’estate del 2019 dalla nave Gregoretti della Marina militare italiana. La ventata propagandistca che ha caratterizzato la procedura di richiesta alla Giunta per l’ autorizzazione a procedere a carico del senatore Matteo Salvini conclusa con il voto del Senato ha offuscato le ragioni di fondo e lo stesso svolgimento dei fatti sui quali il Tribunale dei ministri di Catania, malgrado la istanza di archiviazione del procuratore Zuccaro, aveva richiesto di proseguire il processo nei suoi confronti.

Le motivazioni addotte dall’ex ministro dell’interno nel corso del dibattito in Giunta, e poi le sue dichiarazioni di ieri, nelle quali si dichiara vittima di un “aggressione politica”, puntano interamente sul consenso che la sua scelta ha riscosso tra gli elettori, e sulla doverosità della “difesa dei confini nazionali” ed addirittura della “Patria” rispetto allo sbarco dei naufraghi soccorsi in mare dalla nave della Marina Militare italiana Gregoretti, tenuta per giorni all’ormeggio nel porto di Augusta (Siracusa) con il divieto, imposto dallo stesso Salvini, di fare sbarcare a terra le persone che si trovavano a bordo, inclusi i minori non accompagnati ed altri soggetti in condizione di forte vulnerabilità. L’ex titolare del Viminale, insiste anche sulla natura collegiale del divieto di sbarco adottato nei confronti della Gregoretti, “la difesa della Patria è un sacro dovere, ritengo di aver difeso la mia Patria, non chiedo un premio per questo ma se ci deve essere un processo che ci sia. In quell’Aula non andrò a difendermi, ma a rivendicare quello che, non da solo, ma collegialmente abbiamo fatto”.

La valutazione della corresponsabilità di altri ministri da parte della Giunta per le autorizzazioni a procedere non può sovrapporsi alla valutazione dell’autorità giudiziaria, ed alla successiva verifica processuale, restando riservata alla giunta soltanto la mera valutazione di un interesse pubblico, in quanto più precisamente la stessa Giunta può “negare l’autorizzazione a procedere ove reputi, con valutazione insindacabile, che l’inquisito abbia agito per la tutela di un interesse dello Stato costituzionalmente rilevante ovvero per il perseguimento di un preminente interesse pubblico nell’esercizio della funzione di governo” ( art. 9, comma 3, legge Costituzionale 16 gennaio 1989, n.1). Una valutazione che non dipende certo dalla collegialità dell’attività del governo, che comunque può ben radicare, ma solo nella competente sede giurisdizionale, la configurazione di ipotesi di concorso nel reato. Non si può comunque qualificare come vicenda relativa al recupero in mare dei migranti della nave “Gregoretti”, la distinta fase della trattativa intercorsa tra il governo italiano, autorità di altri Stati e la stessa Commissione Europea al fine di ottenere il trasferimento e l’accoglienza dei naufraghi in altri paesi europei, una trattativa che poteva (anzi, doveva) svilupparsi una volta sbarcati a terra in un porto sicuro italiano.

Dopo una manovra tattica cavalcata in Senato dalla Lega per sfruttare in occasione delle elezioni regionali in Calabria ed in Emilia e Romagna la messa in stato di accusa dell’ex ministro dell’Interno, è stata sconfitta quindi  la tesi della insindacabilità delle scelte “politiche” di Salvini che aveva impedito per giorni lo sbarco dei naufraghi a bordo della Gregoretti, già ormeggiata nel porto industriale di Augusta (Siracusa) al dichiarato fine di costringere gli Stati europei ad accettare la redistribuzione dei naufraghi.

Il richiamo alle attività della Rappresentanza permanente dell’Italia presso l’Unione Europea , la disponibilità offerta da cinque stati europei soltanto cinque giorni dopo il soccorso in acque internazionali, e l’esistenza di una richiesta formale in data 26 luglio 2019 da parte della Presidenza del Consiglio dei Ministri perchè alcuni Stati europei accogliessero una parte dei naufraghi, come la successiva riunione di “coordinamento” convocata il 2 agosto 2019 dalla Commissione europea tra gli Stati che avevano offerto una qualche disponibilità, non possono costituire ragioni per attribuire all’intero governo la responsabilità invece propria dell’allora ministro dell’interno. Che impediva lo sbarco in un porto sicuro, in aperta violazione non solo del diritto internazionale, ampiamente richiamato dai giudici del Tribunale dei ministri, ma dello stesso diritto interno, sia sotto il profilo del mancato rispetto delle procedure di sbarco imposte dall’art. 10 comma 3 del Testo Unico sull’immigrazione n.286/98, e per quanto concerne i minori non accompagnati dalla legge n.47/2017, che delle norme cogenti a tutela della libertà personale, presidiate, in caso di violazione, dalla previsione del reato di sequestro di persona da parte del pubblico ufficiale.

Coloro che con grande superficialità escludono già oggi la possibilità di configurare il reato di sequestro di persona nel caso della indebita privazione della libertà personale subita dai naufraghi trattenuti per giorni a bordo della nave militare Gregoretti, farebbero forse meglio a ricordare la portata del reato di sequestro di persona nelle applicazioni della giurisprudenza.

Il sequestro di persona

Il principio di riserva assoluta di legge, ribadito dall’art.13 della Costituzione italiana in materia di libertà personale, costituisce un principio fondamentale dell’assetto democratico previsto dalla Costituzione. Secondo la giurisprudenza della Corte di Cassazione, “L’elemento oggettivo del delitto di sequestro di persona consiste nella privazione della libertà personale intesa come libertà di muoversi nello spazio e cioè come libertà di locomozione. Non è necessario, a tal fine, che la privazione sia totale, ma è sufficiente che il soggetto passivo non sia in grado di vincere, per realizzare la sua piena libertà di movimento, gli ostacoli frapposti né ha rilevanza la maggiore o minore durata di tale privazione” (v. Cass. Pen., sez. I, n. 18186/2009 ). Il sequestro di persona può essere configurato dunque quando la condotta del soggetto agente privi la vittima delle libertà fisica e di locomozione, sia pure in modo non assoluto, per un tempo apprezzabile (Cass. Pen. sez. III n. 15443/2014). Per la Cassazione, “il concetto di privazione della libertà personale implica necessariamente l’idea di una condizione non momentanea. Tuttavia la durata più o meno lunga dell’impedimento è indifferente ai fini della configurazione del sequestro di persona, bastando che esso si protragga per un tempo giuridicamente apprezzabile tale da determinare la lesione del bene giuridico protetto.” (Cass. Pen., sez. V, n. 375/1980) . Per la Corte di Cassazione ad esempio può integrare il reato di sequestro di persona compiuto da un pubblico ufficiale anche l’indebito trattenimento di una persona, anche soltanto per alcune ore, presso un posto di polizia ferroviaria, come in qualsiasi caso di fermo illegale ( Cass. Pen. sez. VI, n.23423/2010).

Il reato nel Codice Penale

Per quanto attiene al profilo soggettivo, il reato di sequestro di persona previsto dall’art. 605 del Codice Penale richiede, secondo la prevalente giurisprudenza, soltanto il “dolo generico”, dunque la consapevolezza e la volontà di limitare illegittimamente la libertà personale. Nel caso in esame il prolungato trattenimento dei naufraghi a bordo della nave Gregoretti non trovava fondamento in una specifica previsione legislativa, ma si basava soltanto sulla mera volontà del ministro dell’Interno che, in diverse dichiarazioni, affermava che non avrebbe indicato un porto di sbarco in Italia fino a quando non fossero arrivati da altri Stati europei impegni precisi in ordine al ritrasferimento dei naufraghi verso questi Stati. Non rientrava nei poteri legittimamente attribuiti al ministro dell’Interno il potere di vietare lo sbarco di naufraghi da una nave militare già ormeggiata in acque territoriali, come la Gregoretti, considerando che comunque ad una nave da guerra, che già costituisce territorio dello Stato, non risultava applicabile il decreto sicurezza bis (n.53/2019), varato dal governo nel mese di giugno del 2019. L’esercizio di poteri limitativi della libertà personale da parte del pubblico ufficiale si giustifica soltanto nei rigorosi limiti stabiliti dall’art. 13 della Costituzione italiana e dunque nella stretta osservanza del principio di legalità. Nel caso del divieto di sbarco imposto lo scorso anno alla nave Gregoretti già ormeggiata ad Augusta (Siracusa) non si riscontra alcuna base legale a fondamento della determinazione personale del ministro dell’Interno. Il fine perseguito non può mai giustificare i mezzi, a maggior ragione nel caso dei poteri esercitati da un pubblico ufficiale in ordine alla limitazione della libertà personale.

Una difesa contraddittoria

La “Memoria del Senatore Matteo Salvini per la Giunta delle elezioni e delle immunità parlamentari”, costituisce un chiaro esempio della sovversione della realtà e dello scarso rispetto dello stato di diritto, basato sulla Costituzione, da parte dell’ex ministro dell’Interno, che dopo avere sostenuto per mesi di volere “chiudere i porti”, rilancia adesso la sua campagna elettorale permanente promettendo che, se tornerà al governo, riuscirà addirittura a “sigillare” i porti, reiterando tutte le condotte che nel tempo gli sono state contestate da diverse procure. Come se il largo consenso elettorale di cui continua a godere potesse avere il sopravvento sul rispetto delle fonti normative interne e sovranazionali, oltre che dei principi affermati dalla Costituzione italiana.

Come scrive Luigi Ferrajoli, “deve pur esserci un giudice capace, per la sua indipendenza, di assolvere un cittadino in mancanza di prove della sua colpevolezza, anche quando il popolo sovrano o la maggioranza della pubblica opinione ne chiedono la condanna, e di condannarlo in presenza di prove quando i medesimi poteri ne pretendono l’assoluzione”. In nessun caso dunque il consenso elettorale può legittimare scelte in contrasto con il principio di legalità e con il rispetto dei diritti fondamentali delle persone, sanciti dalla Costituzione e dalle Convenzioni internazionali.

Il “caso Gregoretti” in dettaglio

La nave Gregoretti aveva preso a bordo i 50 migranti che erano stati soccorsi da un peschereccio, dedito ad attività di pesca, l’ “Accursio Giarratano”, e altri 91 erano stati salvati invece da un pattugliatore della Guardia di Finanza. Entrambi gli interventi erano avvenuti in acque SAR (Ricerca e Soccorso) maltesi. In quella occasione le affermazioni di Salvini erano inequivocabili. «Ho dato disposizione – avvertiva nella mattinata del 26 luglio 2019 il ministro dell’Interno – che non venga assegnato nessun porto prima che ci sia sulla carta una redistribuzione in tutta Europa di tutti i 140 migranti a bordo»

Un comunicato della Guardia Costiera italiana, reso noto il 28 luglio, apriva uno spiraglio di luce, dopo un lungo periodo di silenzi stampa, sugli sviluppi della guerra contro i soccorsi in mare ingaggiata dal titolare pro-tempore del Vimimale nel corso del 2019, per dimostrare al suo elettorato l’efficacia dell’azione di contrasto contro l’immigrazione “illegale”. Una guerra a colpi di direttive ministeriali e decreti legge, che, dopo essere stata diretta contro le navi umanitarie delle ONG, ha coinvolto anche unità navali appartenenti a corpi dello Stato.

“Il giorno 25 luglio diversi gommoni carichi di migranti hanno lasciato la Libia per dirigersi verso le coste europee. Tre sono stati soccorsi dalla guardia costiera libica, intervenuta anche sul barcone affondato al largo di Al Khoms mentre altri tre hanno proseguito la navigazione entrando all’interno della zona di SAR maltese. Le autorità de La Valletta hanno soccorso un gommone con circa 100 migranti e richiesto nel contempo collaborazione all’Italia che ha inviato – su indicazioni del Ministero dell’Interno – due motovedette, della Guardia Costiera e della Guardia di Finanza, che hanno assistito 141 naufraghi. Successivamente 6 migranti per ragioni sanitarie sono stati portati sull’isola di Lampedusa.”

A questo punto, spiega la nota stampa del Comando Generale delle Capitanerie di Porto, le motovedette intervenute hanno “trasbordato i rimanenti 135 migranti su Nave Gregoretti della Guardia Costiera dotata di un team medico del Cisom in grado di assistere adeguatamente i naufraghi in attesa di indicazioni relative al successivo trasferimento verso un place of safety”. …” Il primo porto che la CP920 ha raggiunto, Catania, è stato deciso “in previsione del peggioramento delle condizioni meteo la nave ha poi assunto rotta verso la Sicilia Orientale”. A Catania, spiegano dal Comando, la Gregoretti era stata rifornita di viveri e medicinali. Ma pare che il porto di Catania non fosse abbastanza al riparo dalle avverse condizioni meteo marine – stando al comunicato stampa – per fermarvi ben ormeggiata la Gregoretti. Una spiegazione che non convince affatto, anche alla luce dei bollettini meteo di quelle ore.

Secondo lo stesso comunicato della Guardia costiera italiana, “nella serata di ieri, (27 luglio 2019, n.d.a.) allo scopo di consentire riparo dal peggioramento delle condimeteo in zona è stato disposto a Nave Gregoretti, su concorde parere del Ministro Toninelli e previa informazione al Viminale, di dirigere verso il porto di Augusta dove l’unità è giunta intorno alle ore 03:00 di questa mattina”

La disponibilità, resa nota dal governo tedesco, non ha certo interferito con le decisioni dell’ex ministro Salvini, mosso esclusivamente da una finalità propagandistica, che ha mantenuto indebitamente per altri tre giorni i naufraghi a bordo della Gregoretti, minori compresi, cedendo sullo sbarco dei minori solo di fronte al rischio sempre più concreto, dopo 4 giorni (96 ore) di indebito trattenimento, di altre denunce penali per la violazione della legge n.47 del 2017 e dell’art.13 della Costituzione italiana che impone la convalida giurisdizionale di tutte le misure che, a qualsiasi titolo, siano limitative della libertà personale.

Come è stato rilevato da giornalisti, politici e giuristi di diversa estrazione, le giustificazioni fornite dal Senatore Matteo Salvini a fondamento delle sue decisioni di non autorizzare lo sbarco dalla Gregoretti, nel porto sicuro più vicino, dei naufraghi, soccorsi in diverse occasioni da una pluralità di mezzi operanti in attività SAR ( Search and rescue) nelle acque internazionali del Mediterraneo Centrale, non reggono né dal punto di vista del rispetto delle fonti normative, né in considerazione del ricorrente tentativo di scaricare la propria responsabilità ministeriale sul Governo nel suo complesso.

Il “Decreto sicurezza bis” e le navi militari italiane

Il cosiddetto “decreto sicurezza bis” (Decreto legge n. 53 del 14 giugno del 2019) poi convertito in legge (Legge n. 77 dell’8 agosto 2019), nel quale l’articolo 1, recante misure a tutela dell’ordine e della sicurezza pubblica e in materia di immigrazione, inseriva nell’articolo 11 del testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero, di cui al decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, il nuovo comma 1-ter, con il quale si attribuiva al Ministro dell’interno, nella sua qualità – riconosciutagli dall’articolo 1 della legge 1 aprile 1981, n. 121 – di Autorità nazionale di pubblica sicurezza, nell’esercizio delle funzioni di coordinamento al comma 1-bis del medesimo articolo 11, nonché nel rispetto degli obblighi internazionali dell’Italia, il potere di limitare o vietare l’ingresso, il transito o la sosta di navi nel mare territoriale, con l’eccezione del naviglio militare (nel quale rientrano anche le navi militari e le navi da guerra, a mente degli articoli 239 e seguenti del codice dell’ordinamento militare, di cui al decreto legislativo 15 marzo 2010, n. 66) e delle navi in servizio governativo non commerciale, per motivi di ordine e di sicurezza pubblica, ovvero quando, in una specifica ottica di prevenzione, ritenga necessario impedire il cosiddetto «passaggio pregiudizievole» o «non inoffensivo» di una specifica nave in relazione alla quale si possano concretizzare – limitatamente alle violazioni delle leggi in materia di immigrazione – le condizioni di cui all’articolo 19, paragrafo 2, lettera g), della Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare, sottoscritta a Montego Bay il 10 dicembre 1982 e ratificata dall’Italia ai sensi della legge 2 dicembre 1984, n. 689. Il provvedimento di divieto “è adottato di concerto con il Ministro della difesa e con il Ministro delle infrastrutture e dei trasporti, secondo le rispettive competenze, informandone il Presidente del Consiglio dei ministri”. Il decreto sicurezza bis escludeva dunque espressamente dall’area della sua applicabilità le navi militari battenti bandiera italiana.

Il Decreto e la propaganda in una collegialità inesistente

A partire dall’entrata in vigore del “decreto sicurezza bis” il Ministro dell’interno faceva ampio uso del potere di vietare l’ingresso nelle acque territoriali e quindi nei porti italiani, a navi delle ONG che avevano operato attività SAR ( di ricerca e soccorso) in acque internazionali, in conformità a quanto previsto dalle Convenzioni internazionali, e dal diritto interno, anche per gli espressi richiami operati alle fonti sovranazionali dagli articoli 10 e 117 della Costituzione. Continuava nel frattempo una intensa collaborazione della Marina italiana, con la sedicente guardia costiera “libica”, mentre venivano bloccate le attività di ricerca e soccorso fino allora operate dalle navi della Guardia Costiera ( come la Diciotti e la Dattilo) con un accresciuto ruolo della Guardia di Finanza, utilizzata piuttosto che per soccorrere, per notificare ai comandanti delle ONG i provvedimenti di divieto di ingresso nelle acque territoriali impartiti dal ministro dell’Interno. Il “concerto” con gli altri ministri, previsto dal decreto sicurezza bis, si riduceva ad una mera formalità, mentre il Presidente del Consiglio veniva solo “informato” dei divieti. In diverse occasioni lo stesso ministro dell’Interno pro tempore Salvini continuava ad affermare che i divieti di ingresso erano imposti al fine di ottenere l’assunzione della responsabilità dei soccorsi da parte dello Stato di bandiera della nave, se non la redistribuzione dei migranti, anche se soccorsi da navi italiane come la Mare Jonio di Mediterranea Saving Humans, verso altri Paesi europei.

Appariva evidente come lo scopo immediato della nuova normativa introdotta con il Decreto legge n.53/2019 fosse il respingimento delle navi umanitarie e l’inasprimento delle sanzioni contro chi si rende “colpevole” di soccorso, per avere operato in modo “autonomo”, senza obbedire, in altri termini, agli obblighi di riconsegna alla guardia costiera libica. Per avere impedito che i naufraghi fossero rigettati nei centri di detenzione dai quali erano fuggiti. Nessun porto libico può essere qualificato quale luogo di sbarco sicuro, non avendo la Libia aderito alla Convenzione relativa allo status dei rifugiati (Ginevra, 28 luglio 1951) ed essendo la situazione in suddetto Stato, oggi frammentato in più entità territoriali con diversi governi, caratterizzata da sistematiche violazioni dei diritti umani, come ribadito nel 2012 dalla Corte europea dei diritti dell’uomo nella pronuncia relativa al caso Hirsi Jamaa e altri contro Italia, e come confermato fino ad oggi da tutti i rapporti delle diverse agenzie e missioni delle Nazioni Unite (UNHCR, OIM, UNSMIL).

Si è così formalizzato un contorto sistema normativo penale e amministrativo che risulta in violazione al principio di gerarchia delle fonti e che potrà portare ad una duplicazione della pena nei confronti degli stessi soggetti, ponendo anche il problema del coordinamento tra il procedimento amministrativo, demandato al prefetto ed il procedimento penale. Un coordinamento che nel decreto legge n.53/2019 adesso convertito in legge, rimane assolutamente oscuro. Oscurità che potrebbe portare anche ad una declaratoria di illegittimità costituzionale, valutando i tempi delle diverse procedure, il sovrapporsi di differenti ipotesi di confisca delle navi, e l’ammontare elevatissimo delle sanzioni pecuniarie imposte dal prefetto, al di fuori di qualunque criterio di adeguatezza e proporzionalità, rispetto ai fatti contestati. Tutto ciò, a carico di persone non ancora condannate in via definitiva. Si sono adottate così misure fortemente dissuasive delle attività di soccorso in acque internazionali nel Mediterraneo centrale, con conseguenze spesso mortali.

L’Unione europea ed i decreti italiani di Salvini

A pochi giorni dall’entrata in vigore, in Italia, del cosiddetto “decreto sicurezza bis”, e dall’immediata adozione del primo “divieto ministeriale di ingresso” nelle acque territoriali italiane ai sensi del nuovo art. 11, co. 1-ter T.U. immigrazione, il Commissario per i diritti umani del Consiglio d’Europa, organo indipendente attualmente rappresentato dalla bosniaca Dunja Mijatović, aveva emanato una raccomandazione dall’eloquente titolo “Lives Saved. Rights protected. Bridging the protection gap for refugees and migrants in the Mediterranean” (ZIRULIA,DPC).

Nel documento si sottolineava che “il primo RCC (Centrale di coordinamento) contattato, anche se l’emergenza è avvenuta al di fuori della sua SRR (Zona SAR), mantiene la responsabilità dell’evento finché sia accertato che l’RCC competente per quella regione, o altro RCC, abbia dichiarato di assumere il coordinamento e si sia effettivamente attivato in tal senso (p. 20)”. La Centrale operativa della Guardia Costiera italiana rimane dunque responsabile dell’operazione SAR, e per essa il Ministero dell’Interno che ne stabilisce le linee di azione, fino a quando non sia accertato che i naufraghi siano stati presi in carico da un Paese che garantisca un porto sicuro di sbarco. E dunque “non è giustificabile la prassi degli Stati membri del Consiglio d’Europa consistente nel tentare di dirottare le richieste d’aiuto proveniente dalla SRR libica sul JRCC di quel Paese; al contrario, deve ritenersi che il diritto internazionale determini il radicamento ed il mantenimento della responsabilità in capo agli stessi RCC continentali”. In precedenza, la portavoce della Commissione Europea Nathasha Berhaud, ancora prima della denuncia di un gruppo di giuristi al Tribunale penale internazionale, aveva escluso che la Libia, nelle sue diverse articolazioni territoriali, potesse essere considerata come un luogo sicuro di sbarco. Che la Libia non garantisca porti sicuri di sbarco lo afferma anche una recente sentenza del Tribunale di Trapani, che va attentamente considerata per cogliere la illegittimità degli ordini impartiti dal Ministero dell’Interno alle ONG, ed i conseguenti divieti di ingresso. Soprattutto dopo l’offensiva del generale Haftar sulla Tripolitania nessun porto della Libia può essere qualificato come “Place of Safety”.

Il dovere dello Stato sui soccorsi in mare

Il soccorso in mare e l’ingresso nelle acque territoriali dei sopravvissuti ad un naufragio non possono essere equiparati ad attività di trasporto di immigrati irregolari. Ma anche ove si riscontrasse una agevolazione dell’ingresso di “clandestini”, lo Stato italiano non potrebbe esimersi dall’assunzione di responsabilità in ordine allo sbarco delle persone soccorse. Il dovere dello Stato, e dunque del ministro dell’Interno, di indicare un porto sicuro di sbarco non può essere oggetto di una periodica negoziazione politica volta alla redistribuzione dei naufraghi tra diversi Paesi quando il conseguente ritardo delle trattative comporta il loro trattenimento a tempo indeterminato sulla nave soccorritrice e di fatto un respingimento collettivo in frontiera con grave pregiudizio dei diritti fondamentali delle persone.

Gli “incidenti”, il più clamoroso a Lampedusa, nel caso della Sea Watch 3 con Carola Rackete al comando, sul quale si è recentemente pronunciata la Corte di Cassazione, come le denunce degli operatori umanitari, generalmente i comandanti della nave ed i capomissione, si susseguivano, e si ripetevano i sequestri, disposti dall’autorità giudiziaria ed in breve tempo revocati, o di più lunga durata, disposti dai prefetti in base alla previsione dell’art. 2 del “decreto legge sicurezza bis”.

La Corte di Cassazione ha recentemente confermato la decisione assunta dal Giudice delle indagini preliminari del Tribunale di Agrigento, che escludeva la legittimità dell’arresto della comandante della Sea Watch 3 Carola Rackete. In questo caso non è stato accolto il ricorso presentato dalla Procura di Agrigento.

Nell’ordinanza del GIP di Agrigento del 2 luglio 2019, si afferma che : «l’art. 11 comma ter del D. Lgs 286-98 (introdotto dal D. L. n. 53/2019): difatti, ai sensi di detta disposizione, il divieto interministeriale da essa previsto (di ingresso, transito e sosta) può avvenire, sempre nel rispetto degli obblighi internazionali dello Stato, solo in presenza di attività di carico o scarico di persone in violazione delle leggi vigenti nello Stato Costiero, fattispecie qui non ricorrente vertendosi in una ipotesi di salvataggio in mare in caso di rischio di naufragio. Peraltro, l’eventuale violazione del citato art. 11 comma 1 ter – si ribadisce sanzionata in sola via amministrativa – non fa venir meno l’inderogabile disposto di cui all’art. 10 ter del Dlgs 286/98, avente ad oggetto l’obbligo di assicurare il soccorso, prima, e la conduzione presso gli appositi centri di assistenza, poi».

Mentre numerosi procedimenti aperti contro le ONG si concludevano con richieste di archiviazione, da ultimo nel caso della nave Mare Jonio ad Agrigento, aumentavano le denunce ed i procedimenti penali aperti a carico dell’ex ministro dell’Interno Salvini per omessa indicazione di un porto di sbarco sicuro e per la conseguente indebita privazione della libertà personale dei naufraghi intrappolati a bordo delle navi soccorritrici dopo essere stati soccorsi in alto mare.

Il diritto internazionale contro i decreti legge italiani

Come ha osservato il Garante Nazionale per le persone private della libertà personale, Mauro Palma,  nel suo parere sul Decreto legge n.53 del 2019, “lo Stato costiero può eccezionalmente sospendere temporaneamente, senza discriminazioni di diritto o di fatto tra navi straniere, il diritto di passaggio inoffensivo in zone specifiche di mare, quando ciò sia indispensabile per la propria sicurezza. Tuttavia, una lettura della norma che consideri la fattispecie del salvataggio in mare (che continua fino allo sbarco in un luogo sicuro – place of safety) come una violazione delle norme in materia di immigrazione dello Stato costiero e, di conseguenza, come una ipotesi di passaggio non inoffensivo appare non in linea con gli obblighi internazionali di soccorso previsti in vario modo da norme contenute nelle più importanti convenzioni sul diritto del mare (Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare del 1982, Convenzione SOLAS del 1974 e Convenzione SAR del 1979) e dagli artt. 485 e 489 del Codice della Navigazione italiano”.

L’obbligo di salvare la vita in mare costituisce un preciso dovere degli Stati che non si esaurisce nel primo intervento di salvataggio e prevale su tutte le norme e gli accordi bilaterali finalizzati al contrasto dell’immigrazione irregolare. Le Convenzioni internazionali in materia, cui l’Italia ha aderito, costituiscono un limite alla potestà legislativa dello Stato e, in base agli artt. 10, 11 e 117 della Costituzione, non possono costituire oggetto di deroga da parte di valutazioni discrezionali dell’autorità politica (…), assumendo un rango gerarchico superiore rispetto alla disciplina interna (l’art. 117 Cost. prevede infatti che la potestà legislativa è esercitata nel rispetto, tra l’altro, dei vincoli derivanti dagli obblighi internazionali. Lo afferma una importante sentenza del Giudice delle indagini preliminari di Trapani, sul caso Vos Thalassa/Diciotti ed in modo meno esplicito lo stesso principio era stato già alla base di decisioni precedenti di altri giudici, nell’ambito di procedimenti di  convalida del sequestro di alcune navi delle ONG, impegnate nel soccorso in acque internazionali nel Mediterraneo centrale.

In quella occasione, di fronte ad un divieto di ingresso in porto frapposto dal Viminale, Di Maio, allora ministro del Lavoro e dello Sviluppo economico e vicepresidente del Consiglio, ha espresso una posizione che appare di rilievo anche rispetto al recente caso Gregoretti.  In un intervento alla trasmissione televisiva Omnibus su La7, mentre la nave Diciotti restava al largo del porto di Trapani, dopo avere preso a bordo i naufraghi soccorsi dal rimorchiatore Vos Thalassa,  affermava che “non è immaginabile chiudere l’ingresso a una nave italiana” e aggiungendo che “se si tratta di una nave italiana, che è intervenuta in una situazione che dovremmo chiarire, bisogna necessariamente farla sbarcare”.

Precedenti giuridici sui “passaggi inoffensivi”

Nel mese di agosto dello scorso anno , “alla luce della documentazione prodotta” (medical report e relazione psicologica) e “della prospettata situazione di eccezionale gravità ed urgenza”, il TAR del Lazio, con un decreto cautelare monocratico ha giustificato “la concessione della richiesta” per “consentire l’ingresso della nave Open Arms in acque territoriali italiane e quindi di prestare l’immediata assistenza alle persone soccorse maggiormente bisognevoli”. Nel suo provvedimento il giudice amministrativo scrive che “il ricorso in esame non appare del tutto sfornito di fondamento giuridico in relazione al dedotto vizio di eccesso di potere per travisamento dei fatti e di violazione delle norme di diritto internazionale del mare in materia di soccorso”. Il Tar rileva che “la stessa amministrazione intimata (ovvero il Ministero dell’Interno) riconosce, nelle premesse del provvedimento impugnato, che il natante soccorso da Open Arms in area SAR libica – quanto meno per l’ingente numero di persone a bordo – era in ‘distress’, cioè in situazione di evidente difficoltà” e “per cui appare, altresì, contraddittoria la conseguente valutazione effettuata nel medesimo provvedimento, dell’esistenza, nella specie, della peculiare ipotesi di ‘passaggio non inoffensivo’”.

Il giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Agrigento, Stefano Zammuto, ha poi disposto la restituzione (dissequestro) della nave della Ong Open Arms osservando che “non sussistono, dopo l’evacuazione e il soccorso dei migranti, esigenze probatorie anche in considerazione del fatto che non si ascrive all’organizzazione e all’equipaggio alcuna responsabilità”.  Secondo lo stesso magistrato, piuttosto, si potrebbero configurare gravi reati, allo stato a carico di ignoti, che avrebbero impedito l’ingresso della nave nelle acque territoriali e lo sbarco dei naufraghi nel porto sicuro più vicino.

Il giudice di Agrigento scrive infatti che “sussiste il fumus del reato di sequestro di persona da parte dei pubblici ufficiali in corso di identificazione sulla base del fatto che il Tar aveva sospeso il divieto di ingresso in acque territoriali e i migranti sono, quindi, stati trattenuti indebitamente dal 14 agosto”. Il magistrato rileva “analogie con la cosiddetta vicenda Diciotti” in quanto, in questo caso, “è stato omesso il preciso obbligo di individuare un porto sicuro spettante all’Italia in quanto primo porto di approdo in base al trattato di Dublino”

Come ha ricordato il Giudice delle indagini preliminari di Trapani, nella sentenza sul caso della legittima difesa riconosciuta ai naufraghi raccolti dal rimorchiatore Vos Thalassa nel luglio lo scorso anno, “il memorandum Italia-Libia, essendo stato stipulato nel 2017, quando il principio di non-refoulement aveva già acquisito rango di jus cogens, è: – privo di validità, atteso che ai sensi dell’art. 53 della Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati ‘è nullo qualsiasi trattato che, al momento della sua conclusione, sia in contrasto con una norma imperativa di diritto internazionale generale; – incompatibile con l’art. 10 co. 1 Cost., secondo cui ‘l’ordinamento italiano si conforma alle norme di diritto internazionale generalmente riconosciute, tra le quali rientra ormai anche il principio di non-refoulement’.” Secondo il giudice di Trapani, il Memorandum d’intesa tra Italia e Libia stipulato il 2 febbraio 2017, mai approvato dal Parlamento secondo la procedura fissata dall’art. 80 della Costituzione, costituisce “un’intesa giuridicamente non vincolante e non avente natura legislativa”.

Carola Rackete ed il diritto internazionale

Il Tribunale di Agrigento, con l’ordinanza del 2 luglio 2019 che ha negato la convalida degli arresti di Carola Rackete, ha riaffermato il principio di legalità, restituendo dignità al diritto internazionale ed ai diritti umani, nel quadro normativo delineato dalla nostra Carta costituzionale. Le motivazioni addotte dal Giudice per le indagini preliminari di Agrigento chiariscono che il soccorso in acque internazionali va distinto dal trasporto di clandestini, al contrario di quanto sostenuto dal ministro dell’Interno. L’ordinanza del Gip di Agrigento afferma anche che il cosiddetto “decreto sicurezza bis” non è applicabile alle ONG che hanno salvato vite umane in alto mare. Il giudice, in sostanza, ritiene inapplicabile il decreto sicurezza bis quando si tratti di sbarcare in un porto sicuro naufraghi soccorsi in acque internazionali: “Ritiene questo giudice che nessuna idoneità a comprimere gli obblighi gravanti sul capitano della Sea Watch 3, oltre che delle autorità nazionali, potevano rivestire le direttive ministeriali in materia di ‘porti chiusi’ o il provvedimento del ministro degli Interni di concerto con il ministero della Difesa e delle Infrastrutture che faceva divieto di ingresso, transito e sosta alla nave, nel mare nazionale, trattandosi peraltro solo di divieto sanzionato da sanzione amministrativa”. Il reato di resistenza a pubblico ufficiale deve ritenersi “scriminato per avere agito l’indagata in adempimento di un dovere”. Il dovere di soccorso dei naufraghi “non si esaurisce con la mera presa a bordo dei naufraghi, ma nella loro conduzione al porto sicuro più vicino”.

La Terza Sezione penale della Cassazione, dopo una camera di consiglio svolta il 16 gennaio scorso, ha rigettato il ricorso presentato la scorsa estate dal procuratore capo di Agrigento Luigi Patronaggio e dall’aggiunto Salvatore Vella contro l’ordinanza, firmata il 2 luglio 2019 dal gip Alessandra Vella che decise di non convalidare l’arresto di Rackete, escludendo il reato di resistenza e violenza a nave da guerra, che era stato contestato alla comandante per avere, il 29 giugno dello stesso anno, forzato un tentativo di impedire l’attracco in banchina della nave già entrata in porto a Lampedusa sotto scorta della Guardia di Finanza.

La prospettiva sulla base della quale il Viminale, prima e dopo il decreto sicurezza bis, ha adottato divieti di ingresso in porto non solo nei confronti delle ONG, ma anche nei casi di sbarco da imbarcazioni militari italiane, viene così completamente ribaltata: non è illecita l’attività di soccorso in acque internazionali, ma, in via di ipotesi, ricorre un illecito in ordine alla mancata indicazione di un porto di sbarco sicuro, conseguenza del divieto di ingresso nelle acque territoriali.

Convenzioni internazionali e Regolamenti europei

Convenzioni internazionali e Regolamenti europei assumono quindi immediato rilievo nell’ambito della giurisdizione interna in materia di soccorsi in mare. Sotto il vaglio del giudice finiscono le norme interne e le prassi applicate che costituiscono una violazione di norme cogenti di rilievo internazionale.

L’obbligo per lo Stato responsabile della zona SAR di adoperarsi affinché le persone soccorse siano condotte in un “luogo sicuro” ( Place of Safety) rappresenta un fondamentale punto di svolta rispetto alla disciplina internazionale più risalente. Nella sentenza pronunciata dal Tribunale di Agrigento il 7 ottobre 2009 relativa al caso Cap Anamur, il collegio giudicante ha ritenuto di specificare che tale “peso” non si riferisce unicamente alle incombenze legate alla somministrazione del vitto e dell’assistenza medica, ma, soprattutto, va rapportato alla necessità di garantire ai naufraghi “il diritto universalmente riconosciuto di essere condotti sulla terraferma”.

Nessuna norma di diritto internazionale del mare autorizza uno Stato a esercitare poteri d’interdizione su imbarcazioni sospettate di trasportare migranti irregolari nelle acque internazionali. In base alla sentenza del Tribunale di Agrigento sul caso Cap Anamur, “le violazioni delle norme sull’immigrazione possono costituire illeciti rilevanti per gli ordinamenti nazionali degli Stati che ne sono coinvolti (Stato di partenza o Stato di arrivo o entrambi). Ma è ovvio che qualsiasi illecito d’immigrazione clandestina si consuma soltanto dopo che le persone coinvolte sono entrate nel mare territoriale dello Stato di destinazione ( o di uno Stato di transito), e non già prima, e cioè quando la nave che li trasporta si trova ancora in alto mare”..

Le Convenzioni SOLAS ed UNCLOS invalidano il “decreto sicurezza bis”

L’art. 19 della Convenzione UNCLOS prevede la libertà di navigazione in acque internazionali, ed anche nel mare territoriale, ma al secondo comma della norma si prevede una deroga che in Italia è stata utilizzata capovolgendo il rapporto regola eccezione. In base all’art. 19 comma 2 della stessa Convenzione Unclos però “il passaggio di una nave nelle acque territoriali di uno Stato” è permesso “fintanto che non arreca pregiudizio alla pace, al buon ordine e alla sicurezza dello Stato costiero”. La disposizione contenuta nel decreto sicurezza bis all’art. 2 permette al ministro dell’interno di qualificare come “non inoffensiva” la condotta della nave che dopo una azione di soccorso in acque internazionali, chieda di fare ingresso nelle acque territoriali. La disposizione avrebbe natura “meramente esemplificativa”, anche se  la lettera g) del comma 2 precisa che tra le attività che potrebbero portare a considerare il passaggio non inoffensivo c’è anche “il carico o lo scarico di materiali, valuta o persone in violazione delle leggi e dei regolamenti doganali, fiscali, sanitari o di immigrazione vigenti nello Stato costiero”.

La Convenzione Internazionale per la sicurezza della vita in mare del 1974 (Convenzione Solas) impone poi gli interventi di soccorso  al comandante di una nave “che si trovi nella posizione, di essere in grado di prestare assistenza”. In altri termini chi si trovi più vicino al mezzo in difficoltà, per il quale è giunta una chiamata di soccorso, ha l’obbligo di avvertire le competenti autorità SAR e di attivarsi immediatamente seguendo le istruzioni fornite dal Comando centrale della Guardia Costiera (IMRCC). Una prescrizione che non sempre è stata adempiuta tempestivamente, soprattutto quando sono venute in gioco questioni di competenza che ritardavano l’avvio delle azioni di soccorso, come nel caso, attualmente all’esame del Tribunale di Roma, della strage avvenuta a sud di Malta l’11 ottobre 2013.

La Convenzione SOLAS specifica l’obbligo contenuto nell’art. 98, par. 2, CNUDM, prevedendo l’obbligo per tutti gli Stati parte di adottare le misure necessarie per la comunicazione di situazioni di pericolo e per il coordinamento delle attività nelle loro aree di responsabilità, nonché per il salvataggio delle persone in pericolo nel mare che circonda le loro coste. Tali misure devono comprendere la creazione, l’operazione e il mantenimento dei mezzi e delle attrezzature che si ritiene siano fattibili e necessarie, alla luce della densità del traffico e dei pericoli alla navigazione, e dovranno, nella misura possibile, prevedere adeguati mezzi per localizzare e salvare queste persone.

Come osserva Papanicolopulu:

“Tra le varie misure che lo Stato costiero deve adottare rientra anche quella di dotarsi di imbarcazioni appositamente destinate ad operazione di ricerca e soccorso in mare. A tale riguardo, vi è una certa elasticità nel dato normativo, in quanto non è espressamente richiesto che lo Stato costiero si doti di un numero di mezzi sufficiente a far fronte a tutte le richieste di soccorso. Questo è comprensibile, alla luce delle limitazioni di fatto che molti Stati incontrano, tra cui quelle di tipo economico. Come si è visto, le ONG che operano nel Mediterraneo si sono dotate di imbarcazioni per soccorrere i migranti in pericolo. L’affidamento ad esse di compiti di soccorso da parte degli Stati costieri rientra pienamente nel quadro previsto dalle Convenzioni internazionali che, come illustrato, prevedono la possibilità per gli Stati di avvalersi di imbarcazioni private per adempiere ai propri obblighi di fornire soccorso. Ma vi è di più. Stante l’obbligo dello Stato costiero di fare tutto il possibile per assicurare un efficace sistema di ricerca e soccorso in mare e di avvalersi dei mezzi disponibili a tal fine, il mancato ricorso ai servizi offerti dalle navi delle ONG o, ancora peggio, l’intralcio recato alle operazioni di soccorso condotte da queste navi, si potrebbero configurare come una violazione dei propri obblighi da parte dello Stato costiero”.

La Convenzione di Amburgo, detta “Convenzione SAR”

La terza Convenzione internazionale che viene in considerazione riguarda anch’essa la ricerca ed il salvataggio marittimo. La Convenzione di Amburgo SAR (1979) impone un preciso obbligo di soccorso e assistenza delle persone in mare “…senza distinguere a seconda della nazionalità o dello stato giuridico, stabilendo altresì, oltre l’obbligo della prima assistenza anche il dovere di sbarcare i naufraghi in un ‘luogo sicuro’”. La Libia non può essere considerata in alcun caso un “porto di sbarco sicuro”.  L’obbligo di proteggere la vita umana in mare si applica in qualsiasi spazio marittimo, a prescindere dalla sua condizione giuridica (acque marine interne, mare territoriale, alto mare). Tutti gli stati che hanno notizia dell’evento di soccorso devono concorrere al salvataggio delle vite dei naufraghi. Il primo stato che ha notizia di un evento di soccorso non può liberarsi dai suoi obblighi di intervento fino a quando non abbia certezza che un’altro stato può svolgere le attività di salvataggio con la massima tempestività e nel rispetto dei diritti umani.

L’art. 10, par 1, della Convenzione di Amburgo del 1979 (SAR) prevede che ogni comandante è obbligato, nella misura in cui lo possa fare senza serio pericolo per la propria nave e le persone a bordo, a rendere assistenza a qualsiasi persona che rischia di perire in mare.  Il comandante di una nave in navigazione che sia in grado di poter prestare assistenza, al ricevimento di un segnale da qualsiasi provenienza indicante che delle persone si trovano in pericolo in mare, è obbligato a portarsi a tutta velocità ad assisterle, se possibile informando tali persone o il servizio di ricerca e soccorso di quanto la nave sta facendo.

Esiste un preciso dovere per le autorità SAR informate dal comandante di coordinare le attività di soccorso ed indicare il porto sicuro di sbarco più vicino.

L’obbligo di competenza del coordinamento di un soccorso

Una volta che la Centrale nazionale di coordinamento di soccorso marittimo della Guardia Costiera di Roma abbia comunque ricevuto la segnalazione di un’emergenza e assunto il coordinamento iniziale delle operazioni di soccorso – anche se l’emergenza si è sviluppata fuori dalla propria area di competenza SAR – questo impone alle autorità italiane di portare a compimento il salvataggio individuando il luogo sicuro di sbarco dei naufraghi. Se le autorità di Malta hanno negato il loro consenso allo sbarco in un porto di quello Stato, l’Italia non può negare lo sbarco in un proprio porto sicuro, che diventa essenziale per completare le operazioni di salvataggio. Se, come risulta dai rapporti delle Nazioni Unite e come ha riconosciuto persino il ministro degli esteri del precedente governo Conte, Enzo Moavero Milanesi, “la Libia non garantisce porti di sbarco sicuri”, spetta al Ministero dell’Interno, di concerto con la Centrale operativa della Guardia Costiera di Roma, indicarne uno con la massima sollecitudine, anche se l’evento SAR si è verificato nelle acque internazionali che ricadono nella pretesa SAR libica. Eventuali inadempimenti di tali obblighi potranno essere sanzionati a livello nazionale o internazionale. Non si può ammettere che in acque internazionali ci siano persone sottratte a qualsiasi giurisdizione, magari per effetto della qualificazione come «clandestini».

L’Autorità competente così investita della questione deve assumere immediatamente il coordinamento, ricevuta la segnalazione, e indicare allo Stato di primo contatto, appena possibile, se sussistono le condizioni perché sia effettuato l’intervento. Sarà l’autorità nazionale che ha avuto il primo contatto con la persona in pericolo in mare a coordinare le operazioni di salvataggio, tanto nel caso in cui l’autorità nazionale competente SAR dia risposta negativa alla possibilità di intervenire in tempi utili quanto in assenza di ogni riscontro da parte di quest’ultima. La cessione della competenza ad operare interventi SAR in acque internazionali non dovrà comunque pregiudicare la dignità e la vita delle persone che si devono soccorrere.

In base a quanto espressamente previsto dalle Convenzioni UNCLOS e SAR, il primo MRCC che riceva notizia di una possibile situazione di emergenza SAR ha la responsabilità di adottare le prime immediate azioni per gestire tale situazione, anche qualora l’evento risulti al di fuori della propria specifica area di responsabilità. Ciò almeno fino a quando tale responsabilità non venga formalmente accettata da un altro MRCC, quello competente per l’area o altro in condizioni di prestare una più adeguata assistenza (Manuale IAMSAR – Ed. 2016; Risoluzione MSC 167-78 del 20/5/2004). Il mero recupero a bordo della nave soccorritrice delle persone in pericolo o dei naufraghi, non determina tuttavia la conclusione delle operazioni S.A.R., perché le operazioni possono considerarsi terminate solo con lo sbarco di dette persone in un luogo sicuro (place of safety o P.O.S.). Per tale motivo, l’obbligo di individuare detto luogo sicuro, in accordo con tutte le altre Autorità eventualmente interessate, ricade sull’MRCC che ha la responsabilità del coordinamento delle operazioni stesse, in accordo con tutte le altre Autorità governative interessate. Il rifiuto di Malta che non accetta lo sbarco di persone soccorse nella vasta zona SAR che per ragioni economiche continua ad attribuirsi, ma al di fuori delle proprie acque territoriali ( 12 miglia dalla costa), non esclude la responsabilità del ministro dell’interno italiano nella indicazione di un porto sicuro di sbarco, soprattutto in caso di soccorso operato da una nave militare battente bandiera italiana.

IMO (International Maritime Organization)

L’Organizzazione marittima internazionale, IMO (International Maritime Organization) è una Organizzazione internazionale frutto di una convenzione delle Nazioni Unite. L’urgente necessità di individuare un luogo sicuro in cui condurre gli individui soccorsi in mare ha indotto il Comitato per la sicurezza marittima dell’IMO a chiarire le procedure esistenti ai fini della sua determinazione. Ciò è avvenuto attraverso l’adozione di due risoluzioni di emendamento, rispettivamente, alla Convenzione SAR e alla Convenzione SOLAS, entrate in vigore nel 2006 per tutti gli Stati parte alle medesime Convenzioni ,con la sola eccezione di Malta che non le ha ratificate, aventi quali obbiettivi quello di garantire agli individui in pericolo l’assistenza necessaria e di minimizzare le possibili conseguenze negative per l’imbarcazione che presti soccorso.

L’I.M.O. (International Marittime Organisation) nel maggio 2004 ha adottato due emendamenti alla Convenzione internazionale per la sicurezza della vita in mare del 1974 (SOLAS) ed a quella di Amburgo (SAR): emendamenti entrati in vigore il 1.7.2006 con lo scopo di integrare l’obbligo del comandante di prestare assistenza con un corrispondente obbligo a carico degli Stati competenti per la regione SAR di cooperare nelle operazioni di soccorso e di prendersi in carico i naufraghi individuando e fornendo al più presto, la disponibilità di un luogo di sicurezza  POS (Place of Safety) inteso come luogo in cui le operazioni di soccorso si intendono concluse e la sicurezza dei sopravvissuti garantita.

La Guardia Costiera e la “legge del mare”

Come ha affermato il contrammiraglio Liardo in una audizione alla Camera:

“Lo scopo delle norme internazionali di diritto del mare vigenti dal 2004 è quello di assicurare che all’obbligo del comandante della nave di prestare assistenza faccia da necessario complemento l’obbligo degli Stati di coordinare le operazioni e fornire ogni possibile assistenza alla nave soccorritrice, liberandola quanto prima dall’onere sostenuto in adempimento del dovere di soccorso. In particolare tali emendamenti e le discendenti linee guida emanate dall’IMO (Ris. MSC 167-78 del 20.5.2004) hanno stabilito l’obbligo, per lo Stato cui appartiene il MRCC che per primo abbia ricevuto la notizia dell’evento o che comunque abbia assunto il coordinamento delle operazioni di soccorso, di individuare sul proprio territorio un luogo sicuro ove sbarcare le persone soccorse, qualora non vi sia la possibilità di raggiungere un accordo con uno Stato il cui territorio fosse eventualmente più prossimo alla zona dell’evento”.

Se si esclude che la Libia possa garantire porti sicuri di sbarco, come escludono l’UNHCR, la Commissione europea e la magistratura italiana, in caso di disaccordo con le autorità maltesi, l’Italia non può eludere l’obbligo di una sollecita indicazione del porto sicuro di sbarco più vicino, o di altro rapidamente raggiungibile nel territorio nazionale. Come peraltro è stata prassi regolarmente seguita dal 2014 al 2017.

La stessa Guardia Costiera osservava già nel 2018 come:

“le Autorità libiche, oltre ad aumentare la presenza in mare seppure limitatamente a specifiche aree, hanno provveduto ad inoltrare all’International Maritime Organization (I.M.O.) una dichiarazione relativa all’istituzione di un’area di responsabilità SAR (Search and Rescue Region – SRR) in data 14.12.2017 che faceva seguito ad una precedente dichiarazione dello scorso luglio successivamente annullata nei giorni precedenti alla nuova dichiarazione. L’arrivo sullo scenario delle unità della Marina Militare e della Guardia Costiera libica ha tuttavia comportato, in talune circostanze, criticità dovute alle difficoltà di comunicazioni sia con le rispettive Autorità di riferimento a terra che con i mezzi a mare impegnati nelle operazioni, in parte mitigata, negli ultimi mesi dell’anno, dall’avvio dell’operazione italiana Nauras”.

Secondo quanto dichiarato dall’UNHCR, «il soccorso in mare è una tradizione secolare e un obbligo che non si esaurisce tirandole persone fuori dall’acqua. Un salvataggio può essere considerato completo una volta che i passeggeri hanno raggiunto la terraferma in un porto sicuro». Un gruppo di giuristi del Comitato per i diritti umani delle Nazioni Unite ha scritto al governo italiano richiamando l’art. 98 della Convenzione UNCLOS che il decreto legge sicurezza bis richiama soltanto per la norma di carattere derogatorio rispetto al principio generale della libertà di navigazione (art. 19), precisando che la normativa introdotta dalla Convenzione «is con-sidered customary law. It applies to all maritime zones and to all persons in distress, without discrimination, as well as to all ships, including private and NGO vessels under a State flag» . In ordine alle attività SAR ed alla indicazione di un porto di sbarco sicuro TUTTI i naufraghi vanno sbarcati nei tempi più rapidi senza che gli stati possano distinguere a seconda della loro vulnerabilità, della loro età o del loro sesso. Con l’ovvia riserva preferenziale delle evacuazioni per accertate condizioni sanitarie d’urgenza ( MEDEVAC).

Perché è obbligatorio il soccorso delle barche dei migranti

Le imbarcazioni che trasportano i migranti nella maggior parte dei casi sono unsafe, cioè prive dei requisiti di navigabilità secondo la Convenzione SOLAS. Come osservano Leanza e Caffio, “da ciò deriva la circostanza che la richiesta di soccorso può pervenire agli organi SAR nazionali prima che si verifichi un evento pregiudizievole per la vita delle persone trasportate. Il problema riguarda in particolare la questione dell’esistenza di un effettivo o imminente”distress“ potendosi anche presentare il caso che la richiesta sia avanzata in assenza di pericolo imminente, ma tuttavia pervenga da un’imbarcazione priva dei requisiti di sicurezza. La nozione di “distress” è così stabilita dalla convenzione di Amburgo del 1979 (Annex, ch. 1, para. 1.3.11) “a)situation wherein there is a reasonable certainty that a vessel or a per-son is threatened by grave and imminent danger and requires immediate assistance”.

La nozione di “distress” generalmente adottata in diritto internazionale demolisce la ricostruzione delle “consegne concordate”, perché se è vero che la presenza della nave soccorritrice ai limiti delle acque territoriali libiche è largamente prevedibile dai trafficanti, non si può affermare che la nave si trovi in quella zona allo scopo di operare una attività di agevolazione dell’ingresso irregolare, quanto piuttosto per impedire che, come purtroppo continua a verificarsi in troppi casi, l’assenza delle imbarcazioni di soccorso o il loro ritardato arrivo, magari in attesa che intervenga qualche motovedetta libica donata dall’Italia, producano l’annegamento di tutti o parte dei migranti, che una volta abbandonati in alto mare sono soltanto naufraghi da soccorrere e non certo “clandestini” da fare entrare in territorio europeo in violazione delle leggi vigenti. Che invece prevedono espressamente l’ipotesi dell’ingresso per ragioni di soccorso di migranti privi di valido titolo di ingresso, per stabilire che, in assenza di una richiesta di protezione internazionale, può essere disposto il respingimento ( art. 10 del T.U. n.286/1998) o l’espulsione ( art. 13 dello stesso Testo Unico). Ma solo dopo il loro sbarco a terra nel porto sicuro più vicino.

Chiunque sia in grado di intervenire per soccorrere vite umane in mare ha l’obbligo giuridico di farlo e in caso contrario si configurerebbe come omissione di soccorso (secondo gli articoli 1113 e 1158 del codice della navigazione), con le eventuali aggravanti dovute a conseguenze drammatiche, in primo luogo naufragio e omicidio colposi. I poteri-doveri d’intervento e coordinamento da parte degli apparati di un singolo Stato nell’area di competenza non escludono, sulla base delle norme su indicate, che unità navali di diversa bandiera possano iniziare il soccorso quando l’imminenza del pericolo per la vita umana lo richieda.  L’art. 1158, I Comma Cod. Nav., configura il reato di omissione di soccorso in capo al comandante della nave qualora lo stesso non presti opera di salvataggio nei casi in cui ne ha l’obbligo a norma del Codice della Navigazione. Obbligo che, evidentemente, sussisteva nel caso in esame in relazione all’art. 490, II Comma, Cod. Nav. Il comandante della nave, di qualsiasi nave coinvolta in un evento SAR che si trovi in prossimità, o comunque più vicina al battello da soccorrere,  ai sensi dell’articolo 490, II comma, Cod. Nav., ha l’obbligo di salvataggio (così come recita la rubrica di tale articolo). Obbligo che  certamente sussisteva in capo  a chi si trovava dinanzi a persone in mare in condizioni di grave pericolo per il sovraccarico dell’imbarcazione, per la distanza dalla costa ed il tempo già trascorso in mare, per la difficoltà di manovra Si tratta di un obbligo che, quando il mezzo soccorritore si trova sulla scena del soccorso, non è differibile in ossequio ad accordi bilaterali o a codici di qualsiasi natura, e neppure, magari per modificare il luogo di sbarco, trasferendo la responsabilità del soccorso ad altra autorità SAR.

Secondo l’art. 69 del Codice della Navigazione (Soccorso a navi in pericolo e a naufraghi), l’autorità marittima, che abbia notizia di una nave in pericolo ovvero di un naufragio o di altro sinistro, deve immediatamente provvedere al soccorso e, quando non abbia a disposizione né possa procurarsi i mezzi necessari, deve darne avviso alle altre autorità che possano utilmente intervenire.

Le procedure che seguono il soccorso

La formulazione dell’art. 10 ter del Testo Unico sull’immigrazione n.286 del 1998 come successivamente emendato non consente di distinguere diverse regole di sbarco a seconda della bandiera che batte la nave soccorritrice. Infatti, secondo questa norma:

“lo straniero rintracciato in occasione dell’attraversamento irregolare della frontiera interna o esterna ovvero giunto nel territorio nazionale a seguito di operazioni di salvataggio in mare è condotto per le esigenze di soccorso e di prima assistenza presso appositi punti di crisi allestiti nell’ambito delle strutture di cui al decreto-legge 30 ottobre 1995, n. 451, convertito, con modificazioni, dalla legge 29 dicembre 1995, n. 563, e delle strutture di cui all’articolo 9 del decreto legislativo 18 agosto 2015, n. 142. Presso i medesimi punti di crisi sono altresì effettuate le operazioni di rilevamento fotodattiloscopico e segnaletico, anche ai fini di cui agli articoli 9 e 14 del regolamento UE n. 603/2013 del Parlamento europeo e del Consiglio del 26 giugno 2013 ed è assicurata l’informazione sulla procedura di protezione internazionale, sul programma di ricollocazione in altri Stati”.

Nell’ordinanza del GIP di Agrigento del 2 luglio 2019, si afferma che:

«l’art. 11 comma ter del D. Lgs 286-98 (introdotto dal D. L. n. 53/2019): difatti, ai sensi di detta disposizione, il divieto interministeriale da essa previsto (di ingresso, transito e sosta) può avvenire, sempre nel rispetto degli obblighi internazionali dello Stato, solo in presenza di attività di carico o scarico di persone in violazione delle leggi vigenti nello Stato Costiero, fattispecie qui non ricorrente vertendosi in una ipotesi di salvataggio in mare in caso di rischio di naufragio. Peraltro, l’eventuale violazione del citato art. 11 comma 1 ter – si ribadisce sanzionata in sola via ammnistrativa – non fa venir meno l’inderogabile disposto di cui all’art. 10 ter del Dlgs 286/98, avente ad oggetto l’obbligo di assicurare il soccorso, prima, e la conduzione presso gli appositi centri di assistenza, poi».

La propagandistica criminalizzazione dei soccorritori

Da tempo la narrazione dei fatti viene rovesciata per criminalizzare gli interventi di soccorso e preparare l’intervento dei giudici penali o delle autorità amministrative con procedimenti che anche quando non si arriva ad una condanna definitiva comportano il fermo delle navi di soccorso, con un aumento esponenziale delle vittime in mare, sempre tenendo conto della forte riduzione delle partenze dalla Libia ( anche oltre il 90 per cento in meno a partire dal 2018,  rispetto agli anni dal 2014 al 2017). Eppure i rapporti delle Nazioni Unite sono sempre più dettagliati nella esposizione delle violenze inflitte ai migranti riportati indietro dalla guardia costiera libica ed internati nei centri di detenzione governativi o ceduti ai trafficanti.

Il Giudice delle indagini preliminari di Catania che nel provvedimento di convalida del sequestro della nave Open Arms nel mese di marzo del 2018, senza qualificarlo come tale, tratteggia i connotati di un respingimento collettivo effettuato su ordine delle autorità italiane, che avevano inizialmente assunto la responsabilità SAR e dunque avevano esercitato per una prima frazione temporale una piena giurisdizione sulle persone soccorse in acque internazionali.

Scrive il GIP di Catania: “la Difesa di ………. poi, a giustificazione della condotta della ONG e degli indagati in merito alla mancata consegna dei migranti ai libici, richiama il principio di non refoulement (divieto di respingimento), sancito dall’art. 33 della Convenzione di Ginevra. Anche questa eccezione non può essere condivisa, poiché le motovedette libiche erano intervenute per effettuare una operazione di soccorso, come richiesto da IMRCC di Roma e sotto l’egida italiana con le navi militari di stanza a Tripoli, e perciò non si può parlare minimamente di respingimento, ma solamente di soccorso e salvataggio in mare”. In realtà, quanto riconosciuto dal GIP di Catania, “le motovedette libiche erano intervenute per effettuare una operazione di soccorso, come richiesto da IMRCC di Roma e sotto l’egida italiana con le navi militari di stanza a Tripoli”, rende chiaramente gli assetti operativi concordati negli ultimi mesi tra la guardia costiera di Tripoli e le autorità italiane ( Marina militare e IMRCC di Roma).

La ricostruzione proposta dal giudice catanese, in buona misura corrispondente con la impostazione politica che ha portato al Memorandum d’intesa con la Libia del 2 febbraio 2017, e poi al Codice di condotta Minniti, che comunque non può essere considerato neppure “normativa secondaria“, perché privo di qualsiasi effetto normativo, potrebbe reggere soltanto se la Libia intera, e non solo una sua piccola parte, aderisse alla Convenzione di Ginevra e la applicasse effettivamente, e se i suoi porti fossero qualificabili come Place of Safety. Una qualificazione che è esclusa da numerosi rapporti delle Nazioni Unite, da testimonianze giornalistiche concordanti, e soprattutto dai corpi delle persone che continuano a fuggire dalla Libia, corpi che testimoniano più di mille parole, abusi, stupri, riduzione in schiavitù, commercio di esseri umani che le diverse autorità libiche, seppure supportate da missioni europee, non sono evidentemente in grado di contrastare.

Si deve infine osservare come l’aggiramento della sentenza Hirsi Jamaa contro Italia si stia utilizzando la peculiare situazione legale e geografica che caratterizza lo stato di Malta, che da tempo ha concluso con la Libia un accordo di respingimento in mare, e che non ha mai accettato le modifiche (emendamenti) alle Convenzioni SAR e SOLAS che stabiliscono l’obbligo per lo stato responsabile di una zona SAR che sarebbe tenuto anche ad indicare un porto sicuro di sbarco ( Place of Safety).

Secondo un rapporto della Guardia Costiera italiana del 2018 ,

“In alcune occasioni particolarmente complesse, caratterizzate cioè da elevato numero di migranti, dalla scarsità di vettori idonei a trasferire i migranti verso i P.O.S., da avverse condizioni meteorologiche, è stata richiesta la collaborazione e cooperazione ai Maritime Rescue Coordination Centre viciniori (Malta e Tunisi) che tuttavia non hanno accolto la richiesta di sbarcare i migranti soccorsi presso i propri porti. In particolare:

– MRCC Tunisi ha declinato la richiesta di accogliere i migranti in quanto gli stessi non erano di nazionalità tunisina né erano partiti dalle coste tunisine e l’assetto intervenuto nelle operazioni SAR non batteva bandiera tunisina; in aggiunta, ha dichiarato di non essere in grado di accogliere l’ingente numero di migranti (578 in totale) a causa dello scarso preavviso ed in considerazione della mancanza di strutture e risorse logistiche per l’accoglienza.

– MRCC Malta, invece, ha declinato la medesima richiesta per non aver coordinato le operazioni SAR essendo le stesse avvenute al di fuori della propria Search and Rescue Region.”

La Libia e la sua SAR zone

Per quanto detto, in ordine alla frammentazione del territorio libico, alla guerra civile in corso, ed alla contiguità della sedicente guardia costiera “libica” con le milizie di diverse città, variamente colluse o direttamente infiltrate dai trafficanti, come a Sabratha ed a Zawia, rimane del tutto priva di efficacia, sotto il profilo del diritto internazionale, la autoproclamazione di una zona SAR libica, adottata dal governo di Tripoli, dopo alterne vicende, il 28 giugno del 2018, e subito accolta con favore dalle autorità italiane. La zona SAR libica infatti è una diretta conseguenza della operatività degli accordi intercorsi in precedenza tra Italia e Libia e la sua creazione, per quanto risalente ad una decisione unilaterale delle autorità di Tripoli, ha nella sostanza una fonte prevalentemente pattizia, legata come è ad un forte sostegno italiano, dopo le riserve dell’IMO che nel dicembre del 2017 avevano portato alla sospensione di una prima dichiarazione dei libici che sostenevano di avere istituito una zona SAR di loro competenza.

Appare evidente, oltre che rispettoso del dato normativo, come la trattativa con gli altri Stati europei, e con la stessa Commissione Europea, potesse essere condotta con i medesimi risultati, se i naufraghi fossero stati sbarcati a terra, nel porto sicuro più vicino, in conformità delle Convenzioni internazionali e nel rispetto delle procedure dettate dall’art. 10 ter, del Testo Unico n.286/1998 (cd. approccio Hotspot), procedure peraltro consolidate negli anni passati e concordate, a partire dal 2016, con le autorità europee. Come si può agevolmente desumere dagli stessi rapporti di attività del Corpo della Guardia costiera italiana, che la memoria difensiva del senatore Salvini sembra ignorare del tutto. Come sembrano del tutto ignorati, nella memoria difensiva sul caso Gregoretti presentata dal senatore Salvini alla giunta per le autorizzazioni a procedere, circostanza assai grave trattandosi di soccorsi operati da navi militari che battevano bandiera italiana, il manuale operativo IAMSAR, e le Linee guida sulle operazioni di soccorso in mare dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati ed i migranti che da anni costituiscono, o dovrebbero costituire le modalità di intervento nei casi SAR, soprattutto da parte dei mzzi appartenenti ai corpi militari dello stato.

Prima lo sbarco e dopo le procedure conseguenti

Secondo l’UNHCR, quando i naufraghi si trovano ancora in mare non è possibile una valutazione formale dello status di rifugiato o di richiedente asilo (in virtù del Protocollo di Palermo del 2000 contro la tratta di migranti; Reg. EU 2014/656 per le operazioni Frontex; d.lgs 286/’98 – T.U. immigrazione e discendente DM 14 luglio 2003; ecc.). Tutte le imbarcazioni coinvolte in operazioni SAR hanno come priorità il soccorso e il trasporto in un “luogo sicuro” dei migranti raccolti in mare e le azioni di soccorso prescindono dallo status giuridico delle persone. Il rifiuto, aprioristico e indistinto, di un governo, peggio di un singolo ministro, di far approdare la nave in porto comporta l’impossibilità di valutare le singole situazioni delle persone a bordo, e viola il divieto di espulsioni collettive previsto dall’art. 4 del Protocollo n. 4 alla CEDU. L’invito a rivolgere la prua verso un altro stato (ad esempio Malta o la Tunisia) rivolto ad una nave che ha effettuato un soccorso e che si trova all’interno della zona contigua alle acque territoriali di un paese, per quanto osservato in precedenza, viola il diritto internazionale. L’articolo 10 del Testo Unico sull’immigrazione 256/98 prevede ancora espressamente la possibilità di applicare il respingimento differito (comma 2) alle persone straniere che sono state “temporaneamente ammesse nel territorio per necessità di pubblico soccorso”. Ma anche nei casi di respingimento differito ci sono precisi limiti alla discrezionalità amministrativa, come ricorda la Corte Costituzionale. Sempre nel rigoroso rispetto del principio di legalità che impone ai pubblici ufficiali di operare in questo campo sulla base di apposite previsioni normative che ne giustifichino i poteri.

Il principio di non refoulement implica “no rejection at frontiers without access to fair and effective procedures for determining status and protection needs”. In altre parole, è possibile individuare un “contenuto minimo” di natura procedurale del diritto d’asilo, che “prima ancora di imporre in capo agli Stati precisi obblighi materiali di tipo positivo in ordine alla concessione del beneficio, non consente loro comportamenti che possano costituire una limitazione della libertà di accesso alle procedure, a meno di non svuotare di significato la partecipazione alla Convenzione di Ginevra sui rifugiati”. Come ha ribadito l’UNHCR nel suo Paper sulle intercettazioni in mare ciò dovrebbe comportare in linea generale che la persona intercettata in prossimità della zona contigua alle acque territoriali abbia accesso alle procedure nello Stato che ha effettuato l’intercettazione, poiché questo di solito consente sia l’accesso alle strutture di accoglienza, sia eque ed efficienti procedure d’asilo, nel rispetto degli standards garantiti dal diritto internazionale.

Se è vero che, in base alla Convenzione UNCLOS lo stato può comunque impedire l’ingresso nei propri porti ad una nave sospettata di trasportare migranti irregolari, è altrettanto da considerare che se uno Stato respinge una imbarcazione carica di naufraghi soccorsi in acque internazionali, senza controllare se a bordo vi siano dei richiedenti asilo o soggetti non respingibili, o altrimenti inespellibili , come donne abusate e/o in stato di gravidanza e minori, e senza esaminare se essi possiedano i requisiti per il riconoscimento dello status di rifugiato, commette una grave violazione del principio di non respingimento sancito dall’art. 33 par. 1 della Convenzione del 1951 se i territori (Stati terzi o alto mare) verso cui la nave è respinta non offrono garanzie sufficienti per l’incolumità dei migranti o per il riconoscimento dei loro diritti fondamentali. Respingere una nave che ha effettuato un soccorso (SAR) verso l’alto mare, con la certezza che nessuno dei paesi confinanti (come aree SAR) provvederà al soccorso tempestivo dei naufraghi, corrisponde ad una grave lesione del diritto internazionale, oltre che ad un atto disumano, che nessuna norma di legge potrà mai ratificare.

La Commissione europea non ha alcun potere vincolante in materia e non può adottare decisioni imperative in materia di ricollocazione di persone sbarcate in uno stato membro. Né può evidentemente adottare prassi o regole che violino le Convenzioni internazionali di diritto del mare o in materia di rifugiati e richiedenti asilo (Convenzione di Ginevra), nè tantomeno può farsi promotrice di una disapplicazione generalizzata del Regolamento Dublino III. Le attività di redistribuzione dei naufraghi in corso dalla fine del 2017 si basano soprattutto sull’utilizzo su base volontaria ( a fronte del modesto numero delle persone da trasferire) delle cd. clausole umanitarie previste dal Regolamento già vigente e non su una sua sostanziale disapplicazione.

Il Regolamento di Dublino per il caso Gregoretti

Per effetto del Regolamento Dublino attualmente in vigore tutti i naufraghi della Gregoretti dovevano essere sbarcati al più presto e potere presentare in Italia una richiesta di protezione internazionale, anche se intendevano poi trasferirsi in un altro paese o se un accordo europeo ne prevedesse un ricollocamento. In base all’art. 3 del Regolamento n.604/2013/UE, gli Stati membri esaminano qualsiasi domanda di protezione internazionale presentata da un cittadino di un paese terzo o da un apolide sul territorio di qualunque Stato membro, compreso alla frontiera e nelle zone di transito.

Se si dovesse continuare ad attribuire rilievo ai divieti di sbarco imposti dal Viminale in base al decreto sicurezza bis, o decisi dal ministro dell’Interno di propria iniziativa, come nel caso Gregoretti, si potrebbe anche prospettare la possibilità che si arrivi ad uno o più interventi della Corte Costituzionale quando si tratti, in un processo penale, amministrativo o civile, di valutare l’incidenza di una norma contenuta in una legge dello Stato sulla violazione di un dovere di ricerca e soccorso sancito dal Diritto internazionale, tanto a carico di soggetti privati, che delle autorità statali, e questo appare possibile, come si è già detto, in base al preciso richiamo  gerarchico alle norme sovranazionali contenuto negli articoli 10,11 e 117 della Costituzione.

Per violazioni dei tempi massimi di trattenimento di migranti presenti in territorio italiano, senza la richiesta convalida giurisdizionale, l’Italia è stata già condannata nel 2016 sul caso Khlaifia. E nessuno può escludere che anche la nave Gregoretti, come in precedenza la nave Diciotti, entrambe della Guardia costiera, costituissero già territorio italiano, seppure ubicate nelle acque internazionali, e poi ormeggiate in un porto italiano. Territorio italiano nel quale si erano verificate violazioni dei principi costituzionali e delle norme interne in materia di limitazioni della libertà personale.

Tocca intanto ai giudici del Tribunale di Catania, dopo l’autorizzazione a procedere concessa dal Senato, accertare fatti e responsabilità individuali  nel caso del divieto di sbarco imposto lo scorso anno alla nave della Marina militare italiana Gregoretti. Sarà un banco di prova di grande importanza, che va oltre la pur rilevante valenza del caso, che costituirà una verifica sulla effettività del principio di legalità nel nostro paese, prima che la questione dei divieti di sbarco di naufraghi nei porti italiani venga portata all’esame delle Corti europee e dei Tribunali internazionali.

Associazione Diritti e Frontiere:
Related Post