di Fulvio Vassallo Paleologo
Lo sbarco dei naufraghi soccorsi nel mese di giugno dello scorso anno dalla nave della ONG Sea Watch al comando di Carola Rackete ed il successivo arresto della comandante, costituirono il primo e più significativo caso di applicazione del cosiddetto decreto sicurezza bis (D.L. n. 53/2019, convertito nella L. n. 77/2019). Una importante decisione della Corte di Cassazione, le cui motivazioni sono state pubblicate ieri, accerta la correttezza dell’operato di Carola Rackete, e ribadisce gli obblighi di soccorso a carico degli Stati, fino alla indicazione di un porto sicuro ed allo sbarco dei naufraghi.
Nel caso della Sea Watch 3, verificatosi prima che si vietasse l’ingresso nelle acque territoriali ad altre navi delle ONG, il ministro dell’Interno rifiutava per due giorni lo sbarco a terra, anche quando era già confermata la disponibilità di diversi Paesi europei che avevano dichiarato di volere accogliere i naufraghi soccorsi dalla ONG che erano rimasti bloccati sulla nave in condizioni disumane per due settimane.
L’ingresso nelle acque territoriali e quindi nel porto di Lampedusa, il 29 giugno 2019, per stato di necessità, era dunque una diretta conseguenza del rifiuto delle autorità italiane che avevano impedito per giorni lo sbarco dei naufraghi, inclusi donne vittime di abusi in Libia e minori non accompagnati. Il tentativo di scaricare sull’Olanda, o su altri paesi mediterranei, come Malta, l’onere di fornire un porto di sbarco, oltre a risultare privo di qualsiasi base legale, ha comportato di fatto l’esasperazione della situazione dei migranti a bordo della Sea Watch 3.
“La soluzione per le persone a bordo della Sea Watch è possibile solo una volta sbarcate”. Così il commissario europeo Dimitris Avramopoulos, affermava da Bruxelles, aggiungendo che la Commissione “è coinvolta da vicino nel coordinarsi con gli Stati membri per ricollocare i migranti”, ma solo quando fossero stati sbarcati a terra. Alla fine era stata anche offerta la disponibilità di cinque Paesi europei. La forzatura imposta dall’ex ministro dell’Interno italiano, che continuava per giorni a negare l’attracco in porto alla Sea Watch 3, ha aggravato lo stato di emergenza a bordo della nave ed ha creato i presupposti per una ulteriore criminalizzazione del soccorso umanitario.
L’arresto di Carola Rackete
Il Giudice delle indagini preliminari (GIP) di Agrigento, con l’ordinanza del 2 luglio 2019, aveva negato la convalida degli arresti di Carola Rackete, riaffermando il principio di legalità, restituendo dignità al diritto internazionale ed ai diritti umani, nel quadro normativo delineato dalla nostra Carta costituzionale. Le motivazioni addotte dal GIP di Agrigento chiarivano che il soccorso in acque internazionali va distinto dal trasporto di clandestini, al contrario di quanto sostenuto dal ministro dell’Interno e dagli organi di polizia che avevano formulato la notizia criminis a carico della comandante Rackete. La Procura di Agrigento aveva comunque escluso la ricorrenza di una qualsiasi causa esimente operante in favore della comandante della Sea Watch 3.
L’ordinanza del Gip di Agrigento affermava che il cosiddetto decreto sicurezza bis (D.L. n. 53/2019, convertito nella L. n. 77/2019) non è applicabile alle Organizzazioni non governative che hanno salvato vite umane in alto mare. Il giudice, in sostanza, riteneva inapplicabile il decreto sicurezza bis quando si tratti di sbarcare in un porto sicuro naufraghi soccorsi in acque internazionali: “Ritiene questo giudice che nessuna idoneità a comprimere gli obblighi gravanti sul capitano della Sea Watch 3, oltre che delle autorità nazionali, potevano rivestire le direttive ministeriali in materia di ‘porti chiusi’ o il provvedimento del ministro degli Interni di concerto con il ministero della Difesa e delle Infrastrutture che faceva divieto di ingresso, transito e sosta alla nave, nel mare nazionale, trattandosi peraltro solo di divieto sanzionato da sanzione amministrativa”. Il reato di resistenza a pubblico ufficiale deve ritenersi “scriminato per avere agito l’indagata in adempimento di un dovere”. Per la dott.ssa Vella, il dovere di soccorso dei naufraghi “non si esaurisce con la mera presa a bordo dei naufraghi, ma nella loro conduzione al porto sicuro più vicino”.
Dopo quella decisione l’ex ministro dell’Interno aveva attaccato pesantemente il giudice Vella che era stata posta in regime di sorveglianza dopo le gravi minacce ricevute da sostenitori del leader leghista che inneggiavano alla “chiusura” dei porti. Come quelli che avevano pesantemente insultato, al limite dell’aggressione fisica, la comandante della Sea Watch al momento del suo arrivo nel porto di Lampedusa.
La macchina dell’odio che già aveva colpito Carola Rackete , prima e dopo lo sbarco a Lampedusa, si rivolgeva contro un magistrato che aveva solo applicato correttamente la legge, dimostrando coraggio e professionalità in un momento in cui alti esponenti politici scaricavano la loro violenza contro giudici ed operatori umanitari che si richiamavano al rispetto dei principi costituzionali e del diritto internazionale.
Il giudizio della Suprema Corte
La Terza sezione penale della Corte di Cassazione, dopo una camera di consiglio svolta il 16 gennaio scorso, ha rigettato il ricorso presentato la scorsa estate dal procuratore capo di Agrigento Luigi Patronaggio e dall’aggiunto Salvatore Vella contro l’ordinanza, firmata il 2 luglio 2019 dal GIP Alessandra Vella che decise di non convalidare l’arresto di Rackete, escludendo il reato di resistenza e violenza a nave da guerra, che era stato contestato alla comandante per avere, il 29 giugno dello stesso anno, forzato un tentativo di impedire l’attracco in banchina della nave già entrata in porto a Lampedusa. La sentenza della Corte, nelle motivazioni che sono state pubblicate oggi, richiama puntualmente tutti gli obblighi di soccorso stabiliti dal diritto internazionale, secondo una ricostruzione gerarchicamente ordinata delle fonti.
Sarà importante valutare adesso quale sarà la reazione della Procura della Repubblica di Agrigento ancora impegnata nel processo nei confronti della comandante Rackete, quella Procura che sugli stessi principi ha basato le indagini nei confronti del senatore Salvini, dopo il caso Gregoretti, sul caso Open Arms sul quale si sta pronunciando il Senato, nella Giunta per le autorizzazioni a procedere.
Il merito del caso secondo il diritto
Secondo la Corte di Cassazione (Sentenza n. 6620, depositata il 20 febbraio 2020) “Il controllo di ragionevolezza del giudice della convalida deve dunque essere effettuato sulla base di una interpretazione adeguatrice delle norme di rango primario – le norme appunto che disciplinano la convalida dell’arresto in flagranza – a quelle di rango costituzionale che stabiliscono limiti tassativi al potere dell’autorità di polizia giudiziaria di incidere sulla libertà personale degli individui. Il giudice di Agrigento ha correttamente interpretato quelle norme di legge (artt. 385 e 391 cod.proc.pen.) alla luce dei principi di rango costituzionale. Egli ha puntualmente ricostruito la vicenda processuale, ripercorrendo nel corpo del provvedimento la scansione temporale degli eventi, riepilogando gli antefatti dal giorno del salvataggio dei naufraghi fino ai contatti tra la capitana e la polizia giudiziaria nei giorni successivi, allorché la Sea Whatch3 era alla fonda davanti al porto di Lampedusa, nonché ciò che avvenne poco prima dell’ingresso in porto, la notte del 29 giugno 2019. Tale ricostruzione risultava necessaria allo scopo di inquadrare un evento che si caratterizzava per la sua singolarità, oggettivamente al di fuori dei casi normalmente affrontati in sede di convalida di arresto. Alla luce di tutto ciò, il Giudice ha ritenuto non legittimo l’arresto della Rackete in quanto operato in presenza di un divieto stabilito dall’art. 385 cod.proc.pen. Secondo quanto argomentato nel provvedimento impugnato, la misura precautelare era stata adottata al di fuori del perimetro di legalità, in forza della ricorrenza di una causa di giustificazione, individuata nell’adempimento del dovere di soccorso. Tale causa di giustificazione trovava correttamente il proprio fondamento, diversamente da quanto ritenuto dal ricorrente, proprio in una valutazione complessiva e non parcellizzata di tutti gli elementi fattuali rilevanti per comprendere la situazione palesatasi agli operanti nelle fasi immediatamente precedenti alla condotta di ingresso nel porto, e di quelli ad essi antecedenti, tutti elementi conosciuti da coloro che avevano operato l’arresto”.
La Corte di Cassazione ritiene che: “Tenuto conto che la privazione della libertà personale della Rackete era avvenuta in quel preciso contesto fattuale, descritto alle pagg. 8-11 dell’impugnata ordinanza, il Giudice ha escluso la legittimità dell’arresto perché effettuato, quanto alla sussistenza del reato di cui all’art. 1100 cod nav., in assenza del requisito di ‘nave da guerra’ della motovedetta V.808, e, quanto al reato di cui all’art. 337 cod. pen., in presenza di una causa di giustificazione, ex art. 51 cod.pen.”.
Secondo i giudici della Cassazione: “All’esito di un percorso esegetico delle fonti normative di rango internazionale, che sono vincolanti per lo Stato italiano e per tutti coloro che sono tenuti nel loro operare all’osservanza della legge italiana, il Giudice ha ritenuto configurabile in capo alla capitana della nave la causa di giustificazione dell’adempimento di un dovere di soccorso che, a mente dell’art 385 cod. proc. pen., comporta uno specifico divieto di arresto in flagranza e di fermo. È ben vero che, sulla base dell’inequivoco dato testuale della norma processuale, detto divieto opera a condizione che la causa di non punibilità sia riconoscibile nel contesto dei fatti che hanno richiesto l’intervento d’urgenza (“quando, tenuto conto delle circostanze del fatto, appare”). Non di meno, contrariamente all’assunto del ricorrente, non è certo la presenza di una articolata motivazione del provvedimento ad escludere di per sé che l’esimente “appaia” sussistente. L’articolata motivazione, al contrario, si giustifica proprio in forza della complessità della vicenda, della delicatezza del bene giuridico compresso (la libertà individuale), della conseguente necessità di ricostruire con attenzione e precisione le fonti normative, anche di rango internazionale, idonee a fondare la sussistenza della causa di giustificazione dell’art. 51 cod.pen. e il suo esatto contenuto. Sono questi gli elementi, indicati dal Giudice, a costituire il parametro della valutazione della ragionevolezza dell’operato di coloro che hanno eseguito l’arresto.”
Le ragioni di Carola Rackete ed i torti del Ministero dell’Interno
La Corte di Cassazione condivide dunque “la valutazione del Giudice di Agrigento, che ha ritenuto non ci fossero i presupposti per convalidare l’arresto, eseguito in quel descritto contesto fattuale, poiché operante il divieto di cui all’art. 385 cod. proc. pen., è corretta. La verosimile esistenza della causa di giustificazione è stata congruamente argomentata. In questo ambito, il provvedimento ripercorre, necessariamente, le fonti internazionali (Convenzione per la salvaguardia della vita umana in mare, SOLAS- Safety of Life at Sea, Londra, 1974, ratificata dall’Italia con la legge n. 313 del 1980; Convenzione SAR di Amburgo del 1979, resa esecutiva dall’Italia con la legge n. 147 del 1989 e alla quale è stata data attuazione con il D.P.R. n. 662 del 1994; Convenzione UNCLOS delle Nazioni Unite sul diritto del mare, stipulata a Montego Bay nel 1982 e recepita dall’Italia dalla legge n. 689 del 1994), sia allo scopo di individuare il fondamento giuridico della causa di giustificazione, identificata nell’adempimento del dovere di soccorso in mare, sia al fine di delinearne il contenuto idoneo a scriminare la condotta di resistenza. Proprio le citate fonti pattizie in tema di soccorso in mare e, prima ancora, l’obbligo consuetudinario di soccorso in mare, norma di diritto internazionale generalmente riconosciuta e pertanto direttamente applicabile nell’ordinamento Io interno, in forza del disposto di cui all’art. 10 comma 1 Cost. – tutte disposizioni ben conosciute da coloro che operano il salvataggio in mare, ma anche da coloro che, per servizio, operano in mare svolgendo attività di polizia marittima -, sono il parametro normativo che ha guidato il Giudice nella valutazione dell’operato dei militari per escludere la ragionevolezza dell’arresto della Rackete, in una situazione nella quale la citata causa di giustificazione era più che “verosimilmente” esistente. Né si potrebbe ritenere, come argomenta il ricorrente, che l’attività di salvataggio dei naufraghi si fosse esaurita con il loro recupero a bordo della nave. L’obbligo di prestare soccorso dettato dalla convenzione internazionale SAR di Amburgo, non si esaurisce nell’atto di sottrarre i naufraghi al pericolo di perdersi in mare, ma comporta l’obbligo accessorio e conseguente di sbarcarli in un luogo sicuro (c.d. “piace of safety”). Il punto 3.1.9 della citata Convenzione SAR dispone: «Le Parti devono assicurare il coordinamento e la cooperazione necessari affinché i capitani delle navi che prestano assistenza imbarcando persone in pericolo in mare siano dispensati dai loro obblighi e si discostino il meno possibile dalla rotta prevista, senza che il fatto di dispensarli da tali obblighi comprometta ulteriormente la salvaguardia della vita umana in mare. La Parte responsabile della zona di ricerca e salvataggio in cui viene prestata assistenza si assume in primo luogo la responsabilità di vigilare affinché siano assicurati il coordinamento e la cooperazione suddetti, affinché i sopravvissuti cui è stato prestato soccorso vengano sbarcati dalla nave che li ha raccolti e condotti in luogo sicuro, tenuto conto della situazione particolare e delle direttive elaborate dall’Organizzazione (Marittima Internazionale). In questi casi, le Parti interessate devono adottare le disposizioni necessarie affinché lo sbarco in questione abbia luogo nel più breve tempo ragionevolmente possibile». Le Linee guida sul trattamento delle persone soccorse in mare (Ris. MSC.167-78 del 2004) allegate alla Convenzione SAR, dispongono che il Governo responsabile per la regione SAR in cui sia avvenuto il recupero, sia tenuto a fornire un luogo sicuro o ad assicurare che esso sia fornito. Per l’Italia, il piace of safety è determinato dall’Autorità SAR in coordinamento con il Ministero dell’Interno. Secondo le citate Linee guida, «un luogo sicuro è una località dove le operazioni di soccorso si considerano concluse; dove la sicurezza dei sopravvissuti o la loro vita non è più minacciata; le necessità umane primarie (come cibo, alloggio e cure mediche) possono essere soddisfatte; e può essere organizzato il trasporto dei sopravvissuti nella destinazione vicina o finale» (par. 6.12). «Sebbene una nave che presta assistenza possa costituire temporaneamente un luogo sicuro, essa dovrebbe essere sollevata da tale responsabilità non appena possano essere intraprese soluzioni alternative». (par. 6.13)”.
Per la Corte di Cassazione, “Non può quindi essere qualificato ‘luogo sicuro’, per evidente mancanza di tale presupposto, una nave in mare che, oltre ad essere in balia degli eventi metereologici avversi, non consente il rispetto dei diritti fondamentali delle persone soccorse. Né può considerarsi compiuto il dovere di soccorso con il salvataggio dei naufraghi sulla nave e con la loro permanenza su di essa, poiché tali persone hanno diritto a presentare domanda di protezione internazionale secondo la Convenzione di Ginevra del 1951, operazione che non può certo essere effettuata sulla nave. Ad ulteriore conferma di tale interpretazione è utile richiamare la risoluzione n. 1821 del 21 giugno 2011 del Consiglio d’Europa (L’intercettazione e il salvataggio in mare dei domandanti asilo, dei rifugiati e dei migranti in situazione irregolare), secondo cui «la nozione di “luogo sicuro” non può essere limitata alla sola protezione fisica delle persone ma comprende necessariamente il rispetto dei loro diritti fondamentali» (punto 5.2.) che, pur non essendo fonte diretta del diritto, costituisce un criterio interpretativo imprescindibile del concetto di “luogo sicuro” nel diritto internazionale”.
La demolizione del “decreto sicurezza bis”
Tutte le argomentazioni addotte dall’ex ministro dell’Interno Salvini come base dei suoi provvedimenti, prima del decreto sicurezza bis, semplici direttive, poi decreti, di divieto di ingresso nelle acque territoriali, sono demolite. Anche la ricostruzione dei fatti secondo la quale la comandante Rackete avrebbe intenzionalmente tentato di schiacciare contro il molo la piccola mootovedetta della Guardia di finanza, che si interponeva andando avanti ed indietro, tentando di impedire il definitivo attracco della nave, viene destituita di fondamento. Come era evidente sin dal principio, in base alla ricostruzione dei video e alle numerose foto riprese anche da comuni cittadini durante le concitate fasi dell’ormeggio della nave in banchina.
Secondo la Corte di Cassazione, “In conclusione, la verifica del giudice della convalida è stata correttamente compiuta e corretta è la sua decisione. Il giudice non soltanto ha ritenuto configurabile, nella situazione descritta nel provvedimento, la causa di giustificazione dell’adempimento del dovere di soccorso, individuandone la portata, ma ha anche valutato che la sussistenza di tale scriminante fosse percepibile da parte degli operanti che avevano proceduto all’arresto, sulla base di una valutazione della singolarità della vicenda e delle concrete circostanze di fatto, come meticolosamente riepilogate. Non è ammessa, infatti, una privazione della libertà personale da parte della polizia giudiziaria quando, avuto riguardo alle circostanze del caso, ricorrano nel concreto cause di giustificazione idonee ad escluderne la rilevanza penale, in termini di ragionevolezza, sulla scorta degli elementi di conoscenza in capo a coloro che hanno operato la misura privativa della libertà personale (Sez. 6, n. 49124 del 01/10/2003, P.M. in proc. Todirica, Rv. 227721 – 01)”.
La “nave da guerra” della Guardia di Finanza
Dopo questa importante conclusione appare di rilievo secondario la questione della qualificazione come “nave da guerra” della piccola motovedetta della Guardia di finanza che si era infilata nello stretto spazio tra la nave in fase di ormeggio e la banchina tentando di impedirne l’attracco. Anche perchè i giudici della Cassazione chiariscono in premessa che la causa di giustificazione in favore della comandante Rackete avrebbe operato anche se si fosse configurata l’ipotesi di reato di resistenza a nave da guerra (art. 1100 del Codice della navigazione).
Si osserva in proposito che “le navi della Guardia di Finanza sono certamente navi militari, ma non possono essere automaticamente ritenute anche da navi da guerra. Sono altresì navi da guerra solo in presenza degli ulteriori requisiti sopra indicati: qualora ‘appartengano alle Forze armate’, qualora ‘portino i segni distintivi esteriori delle navi militari’, qualora ‘siano poste sotto il comando di un ufficiale di marina al servizio dello Stato e iscritto nell’apposito ruolo degli ufficiali o in documento equipollente’, e qualora il loro equipaggio ‘sia sottoposto alle regole della disciplina militare’. …Per poter essere qualificata come ‘nave da guerra’, tuttavia, l’unità della Guardia di finanza deve altresì essere comandata da ‘un Ufficiale di Marina al servizio dello stato e iscritto nell’apposito ruolo degli Ufficiali o in documento equipollente’, il che nel caso in esame non è dimostrato. Non è sufficiente che al comando vi sia un militare, nella fattispecie un maresciallo, dal momento che il ‘maresciallo’ non è ufficiale. Né peraltro il ricorso documenta se tale ‘maresciallo’ avesse la qualifica di cui sopra. Dunque, non è stata dimostrata, nel caso concreto, la sussistenza di tutti i requisiti necessari ai fini della qualificazione quale ‘nave da guerra’ della motovedetta V.808 della Guardia di finanza, nei cui confronti sarebbe stata compiuta la condotta di resistenza”.
La Cassazione sul caso Rackete e le conseguenze sulle navi Ong
Le motivazioni addotte dalla Corte di Cassazione appaiono coerenti con le contestazioni contenute nella richiesta di autorizzazione a procedere formulata con l’ordinanza del Tribunale dei ministri di Palermo sul caso Open Arms, su cui dovrà pronunciarsi tra breve il Senato. I richiami al sistema gerarchico delle fonti, alla Costituzione ed alle norme internazionali forniscono anche la misura degli abusi di discrezionalità amministrativa esercitati dall’ex ministro dell’interno fin dal momento del suo insediamento al Viminale, a partire dal caso Aquarius, con la politica propagandistica di “chiusura dei porti”. Una politica che ha fatto la fortuna elettorale della lega, a scapito del rispetto dello stato di diritto e del diritto internazionale del mare.
Si potrebbe attendere adesso che il Senato, sulla base di queste motivazioni conceda nel caso Open Arms l’autorizzazione a procedere contro il senatore Salvini, che per difendersi continua a diffamare le organizzazioni umanitarie che sono rimasti gli unici soggetti che inviano navi di soccorso nel Mediterraneo centrale. Dopo che gli stati hanno ritirato nelle acque territoriali i propri assetti navali, ed insieme con i mezzi della agenzia europea Frontex si limitano alla perlustrazione aerea al mero scopo di “law enforcement”, dunque in funzione di contrasto dell’immigrazione irregolare, senza garantire alcuna forma di soccorso coordinato. E tutti dovrebbero sapere che cosa è avvenuto in Libia a partire dallo scorso anno, con il dilagare della guerra civile, come hanno rilevato in più occasioni l’OIM e l’UNHCR che hanno lanciato appelli finora inascoltati dagli stati perchè si garantissero vie legali di fuga e missioni di soccorso coordinate tra gli stati e le Organizzazioni non governative.
Ci sarebbe da auspicare, ma le più recenti contorsioni delle forze politiche in Parlamento non lasciano molto da sperare, che i principi sanciti adesso dalla Corte di Cassazione vengano riconosciuti anche dal legislatore con l’abrogazione degli articoli 1 e 2 del decreto sicurezza bis (D.L. n. 53/2019, convertito nella L. n. 77/2019) che permettevano, e permettono tuttora al ministro dell’interno, di impedire o ritardare lo sbarco in un porto sicuro dei naufraghi soccorsi da mezzi privati, soprattutto nel caso in cui questi appartengano alle organizzazioni non governative, ritenute “complici dei trafficanti”, “taxi del mare”, “fattori di attrazione (pull factor)“, definizioni spregevoli in contrasto con la realtà, oltre che con i dati normativi, che adesso i chiari principi affermati dalla Corte di cassazione dovrebbero spazzare via. Sarà importante che tali principi, soprattutto nella parte che ribadiscono gli obblighi di soccorso a carico degli stati fino alla indicazione di un porto di sbarco sicuro, già presi in considerazione nei numerosi casi di archiviazione delle accuse contro le ONG, siano tenuti presenti nei diversi processi ancora aperti a Trapani (Juventa), ancora nella fase delle indagini preliminari a quasi tre anni dai fatti, ed a Ragusa (Open Arms), addirittura per violenza privata.
Il costo di questa gigantesca montatura mediatico-giudiziaria non è stato pagato soltanto dagli operatori umanitari, ma soprattutto dai migranti che hanno fatto naufragio, e che ancora in questi giorni sono dispersi in alto mare. Migliaia di persone che a causa della pressione esercitata sulle navi delle ONG, a partire dal Memorandum di intesa con il governo di Tripoli del 2 febbraio 2017 e del Codice di condotta adottato dall’ex ministro dell’interno Minniti, sono stati abbandonate in mare o respinte con l’aiuto della sedicente guardia costiera “libica”. La guardia costiera di un governo che non controlla neppure il territorio della capitale e che, come è stato dimostrato, risulta collusa con le organizzazioni criminali che tutti a parole dicono di volere combattere.
Dopo quanto affermato dalla Corte di Cassazione con la sentenza pubblicata ieri, occorre dare immediatamente un porto di sbarco sicuro in Italia alle centinaia di migranti ancora tenuti in alto mare dopo essere stati soccorsi dalla nave Ocean Viking di SOS Mediterraneé.
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