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Un medico si ammala… La mia storia

di Franca Regina Parizzi

Avevo 40 anni, ero sempre stata bene di salute, a parte un drammatico incidente stradale da cui ero uscita con nove fratture, ma nessuna tale da richiedere un intervento chirurgico, e con la consapevolezza di volere ancora tanto dalla vita e tuttavia di non essere immortale. A parte questo episodio, ripeto, ero sempre stata bene. Ero nel pieno della mia attività lavorativa, avevo da poco vinto il concorso di Aiuto, ero rientrata da alcuni mesi dagli Stati Uniti, avevo voglia di fare ricerca, d’ impegnarmi ancora di più, di non limitarmi alla stretta routine ospedaliera.

Erano i primi di dicembre 1988 e stavo per partire per Bologna per un congresso. Ma non mi sentivo bene. A parte la tosse, forse un po’ di febbre, ero molto affaticata. Avevo seguito tutto il congresso, ma quel malessere non accennava a diminuire, nonostante avessi iniziato una terapia antibiotica. Al mio rientro avevo ripreso il lavoro, ma stavo sempre peggio, facevo fatica a respirare e il percorso a piedi per raggiungere la mia auto nel posteggio dell’ospedale era un vero calvario, dovevo camminare piano e fermarmi spesso perché non ce la facevo. Era già più di una settimana che prendevo l’antibiotico, ma senza il benché minimo miglioramento, allora pregai una collega di ascoltarmi il torace. Mi disse che avevo una polmonite. Non mi allarmai più di tanto: antibiotici, un po’ di riposo e sarei guarita, pensavo. A casa cercai di ascoltarmi il torace da sola e sentii un soffio al cuore, ma forse volevo negare l’evidenza, forse era per la febbre …

Dovevo fare una radiografia, ma non me la sentivo di andare in ospedale. Tutta quella strada dal posteggio al reparto di Radiologia! Così andai in un centro privato che aveva il vantaggio di trovarsi al pian terreno, proprio sulla strada, e avrei potuto posteggiare proprio lì e fare solo pochi passi. Fatta la lastra, il radiologo mi chiamò e me la mostrò, dicendomi che avevo un notevole versamento pleurico bilaterale e che avrei dovuto ricoverarmi. Non se ne parlava nemmeno! E mio figlio? Matteo aveva allora solo 11 anni. Meglio una mamma ammalata a letto, ma a casa, che una mamma in ospedale. E poi, era una bella pleuropolmonite, va bene, ma potevo curarmi da sola. Se l’antibiotico non aveva funzionato, dovevo solo cambiarlo.

A casa telefonai al mio medico curante per avere il certificato da inviare in ospedale. Venne a visitarmi e confermò la diagnosi di pleuropolmonite e il cambio dell’antibiotico. Gli parlai del soffio al cuore che avevo sentito, lo sentì anche lui, ma non sembrò preoccuparsi molto.

Mancavano pochi giorni a Natale. Proprio la sera della vigilia di Natale, il mio medico mi telefonò per sapere come stavo. In realtà stavo sempre allo stesso modo, ero molto stanca, facevo fatica a respirare, avevo la tosse, forse un po’ di febbre (in tutto quel periodo non mi ero mai misurata la temperatura, comunque certamente non avevo un febbrone). Mi disse che ci aveva ripensato, la presenza di quel soffio al cuore gli aveva fatto venire in mente un paziente che aveva seguito in reparto di recente e che aveva curato per polmonite a lungo senza ottenere un miglioramento e che in realtà aveva uno scompenso cardiaco, perciò si sarebbe sentito più tranquillo se avessi fatto un ecocardiogramma. Si era già messo d’accordo con il cardiologo in ospedale e mi avrebbe accompagnato la mattina dopo lui stesso (la mattina di Natale!).

Mentre facevo l’ecocardiogramma, il cardiologo chiamò i medici interni e una collega perché vedessero anche loro le immagini sullo schermo, che commentava in termini talmente tecnici da risultare incomprensibili anche a me, che sono un medico. Io tacevo rispettosamente.

Finché non ne potei più e gli dissi che forse, se si fosse trovato al mio posto, avrebbe voluto sapere qualcosa. Mi rispose che se si fosse trovato al mio posto sarebbe andato di corsa da un cardiochirurgo. Sic!

Mi consigliò un nome e mi disse che aveva lo studio lì vicino. Rimasi senza parole, non ricordo neppure che cosa provai, non mi capacitavo. Non avevo mai avuto, o per lo meno non sapevo di avere, problemi cardiaci. Che cosa era successo? Non so quanto tempo ci misi a riprendermi e a trovare il coraggio di chiedergli perché dovessi andare dal cardiochirurgo, so soltanto non mi dette altre spiegazioni se non che avevo un’insufficienza della valvola mitrale. Il mio medico mi riaccompagnò a casa e rientrando in macchina, vidi per strada mio figlio con lo zainetto sulle spalle, che si avviava verso la fermata dell’autobus … Ho ancora quell’immagine impressa davanti agli occhi e ancora mi procura un’incredibile sofferenza! Non sapendo se la mamma sarebbe ritornata a casa o no dall’ospedale, aveva telefonato al papà e si stava avviando a cercare un autobus che lo portasse a Milano da lui. Tornammo insieme a casa.

Cercavo di non mostrarmi preoccupata con Matteo, chissà se ce l’ho fatta? Ma mentre lui giocava o guardava la televisione, leggevo i miei libri dell’università, in particolare il testo di Clinica Chirurgica: sostituzione della valvola mitrale, circolazione extracorporea, mortalità 16%. È vero, quel testo risaliva a circa vent’anni prima, ma per me quei numeri erano una mazzata! Iniziai così il mio pellegrinaggio (doctor shopping) dagli specialisti.

Consigliata da quell’amico, da quel collega, mi sottoposi a diversi ecocardiogrammi in diversi centri. Chi diceva che era una valvulopatia antecedente, che si era scompensata con la polmonite, chi diceva invece che avevo avuto un’endocardite acuta in corso di polmonite e dovevo stare a riposo assoluto, insomma scendevo dal letto e ci ritornavo, completamente sbalestrata e incapace di prendere in mano le redini della mia situazione. In mezzo a questa ridda di pareri diversi, ascoltai quelli che preferivo ascoltare, cioè quelli di chi non riteneva affatto che ci fosse l’indicazione all’intervento cardiochirurgico, che mi terrorizzava. E così, imbottita di pillole per diminuire il lavoro del cuore, piano piano mi ripresi e ritornai alla vita normale. Senza particolari cautele, senza risparmiarmi, cercando di dimenticare. Ma non era possibile dimenticare: le pillole che dovevo assumere tutti i giorni e la fatica che facevo a respirare anche con il minimo sforzo erano lì, presenti tutti i giorni.

Un anno e mezzo dopo, d’estate, ero al mare in Liguria dai miei genitori e preparavo l’esame di idoneità a primario, una grossa fatica che molti colleghi ricorderanno. Io quell’esame non l’ho mai sostenuto (l’anno successivo è stato definitivamente abolito), perché la mia salute è precipitata di nuovo. La stessa cosa di un anno e mezzo prima: una grande stanchezza, la fatica a respirare non più soltanto in occasione di uno sforzo, ma anche a letto, sì che dovevo stare sempre seduta giorno e notte e non riuscivo a dormire. Ancora una diagnosi di polmonite, questa volta del medico consultato dai miei genitori, ancora antibiotici, ancora senza risultati. Così mi hanno trasportato a Monza, al Pronto Soccorso: ero in scompenso cardiaco e l’ecocardiogramma dimostrò che questa volta non era soltanto la valvola mitrale a essere colpita, ma anche la valvola aortica e la tricuspide.  Ancora una volta rifiutai il ricovero, non volevo creare traumi a mio figlio. Un ecocardiogramma transesofageo confermò l’interessamento delle tre valvole.

Non ne potevo più di quel calvario, ricordo che dissi al cardiologo che mi seguiva che se l’intervento mi avesse ridato l’opportunità di andare in bicicletta, ero pronta ad affrontarlo. Non so perché lo dissi, forse perché dopo quasi due anni in cui la difficoltà a respirare mi impediva di fare anche delle semplici camminate, il mio desiderio di recuperare un’attività normale, come andare in bicicletta, era diventato un sogno. Fatto sta che lui si arrabbiò molto per quella frase e mi disse che sì, era forse arrivato il momento di prendere in considerazione l’intervento, ma che non mi aspettassi chissà che cosa, dopo qualche anno sarei tornata allo stesso punto. Non so perché disse così, forse perché stava vivendo un periodo particolarmente difficile (la moglie era in fase terminale), forse perché avrà pensato che, se avesse dato l’indicazione all’intervento due anni prima, avrei dovuto sostituire solo la valvola mitrale, mentre ora le valvole colpite erano tre. Ma allora non aveva ritenuto opportuno l’intervento, né peraltro io ero pronta a sentirmelo proporre. O forse nessuno aveva saputo propormelo con le parole giuste?

Un’altra cosa che ricordo di quel colloquio con il cardiologo fu che, quando gli chiesi spiegazioni sul tipo di valvole da impiantare, se biologiche o meccaniche, mi rispose seccamente che sarebbero certamente state meccaniche, avrei dovuto prendere la terapia anticoagulante tutta la vita (lo sapevo già), ma di valvole biologiche non se ne parlava neanche. “Non vorrà avere ancora dei figli alla sua età?” mi disse. A parte il fatto che erano fatti miei, che comunque non avevo preso in considerazione quell’ipotesi, non ero poi così vecchia, avevo 42 anni. Mia madre alla mia età aveva avuto il terzo figlio. Comunque non stava a lui decidere della mia vita! Non avevo pensato, certo, di avere altri figli, ma sbattermi in faccia così che non avrei più dovuto averne è un’altra cosa! Ho ingoiato anche questa e non ho detto nulla. Uscita dal suo studio, ero talmente sconvolta che presi un viale di intenso traffico a senso unico contro mano, ricordo che vidi il fronte delle auto che venivano verso di me. Mi ripresi subito, mi misi in carreggiata e decisi che volevo vivere e che mi sarei operata, senza ascoltare più nessuno.

Quella determinazione non mi ha abbandonato un istante e sono certa di averla trasmessa anche ai miei genitori e a mio figlio. Il bisogno che sentivo di proteggerli e la voglia che avevo di vivere mi davano carica e ottimismo. Mi rimproveravo per la debolezza con cui avevo precedentemente dato retta ai medici che non ritenevano opportuno l’intervento e per non aver invece ascoltato il cardiologo che per primo mi aveva detto che al mio posto sarebbe andato di corsa dal cardiochirurgo. Era stato brusco, è vero, ma aveva ragione. Oggi mi chiedo: e se avesse saputo dirmelo nel modo giusto?  Magari facendomi sedere, senza tutto quel codazzo di allievi intorno, faccia a faccia, facendomi rivestire e non tenendomi lì seminuda, sdraiata, in posizione di estremo disagio e inferiorità …

Venni a sapere in seguito che la percentuale di mortalità per l’intervento sulle tre valvole era dell’1-2%. Questi numeri, ben diversi da quel 16% che avevo letto sul mio libro (ormai obsoleto) di Clinica Chirurgica, contribuirono non poco a tranquillizzarmi.

Il momento del ricovero fu un’altra esperienza traumatizzante. Mi indicarono il mio letto, al centro di uno stanzone che aveva altri otto letti lungo le pareti: piansi disperatamente, e piangere non è una mia consuetudine. Mi sentivo osservata al centro della stanza, circondata da otto sconosciute, non volevo parlare con nessuna. Dovetti attendere più di dieci giorni prima di essere operata, mi dissero che non potevo andarmene a casa e rientrare per l’intervento, perché avrei perso il turno, che avrei dovuto avere pazienza. Un giorno mi fecero anche la preanestesia, ma poi mi riportarono in reparto perché era arrivato un cuore da trapiantare e il mio intervento doveva essere rinviato.

L’attesa era snervante, ma riuscivo a far passare le giornate tra le chiacchiere con le altre ricoverate (il mutismo iniziale non durò molto, in fondo non sono un’asociale), le visite dei parenti e degli amici, qualche libro, qualche giornale, insomma le solite cose che riempiono la vita di chi è ricoverato in ospedale. Ma io avevo una chance in più: conoscevo i colleghi della Pediatria, che era proprio al piano di sopra, perciò quando potevo andavo lì e partecipavo anche alle riunioni sui casi clinici. Avevo bisogno di sentirmi ancora io. E loro mi hanno aiutato. Poi, non avevo il pigiama, figuriamoci se io potevo stare in ospedale in pigiama! Una tuta andava bene lo stesso e io potevo sentirmi ancora “dall’altra parte”, no?

Andavo così spesso in Pediatria, che a volte i medici non mi trovavano a letto quando facevano il giro: nella fotocopia della cartella clinica ho letto nel diario alcune volte: “la paziente non è a letto”. Bene, una in meno da visitare, avranno pensato. Una volta ero invece a letto quando vennero i medici a fare il giro e ricordo che, giunti al mio letto, dissero: “questa è una mitroaortica!”. Mi seccai moltissimo di non essere chiamata con il mio nome e cognome. Avevo fatto anche io così qualche volta facendo il giro in Pediatria? Non ricordo, ma credo di no.

A parte le mie fughe in Pediatria, per il resto mi comportavo come una qualunque paziente. Finalmente giunse il giorno in cui fui portata in sala operatoria. Mi furono impiantate due valvole meccaniche, la mitrale e l’aortica, mentre non fu necessario sostituire anche la terza valvola, la tricuspide. Mi risvegliai in un letto della Rianimazione, ero intubata e quel tubo cominciava a darmi molto fastidio. Allora me lo tolsero: ero in grado di respirare da sola. Ho pochi e confusi ricordi di quei due giorni trascorsi lì, ma ricordo molto bene il cardiochirurgo che mi aveva operato, che venne a trovarmi e, sedendosi sul mio letto, mi disse di aver saputo da sua figlia, anch’essa medico, che io l’avevo interrogata all’esame di Pediatria. Scherzai con lui sul timore di averla tartassata. Poi ricordo mia madre, piccola piccola e tutta bardata, che si lavava le mani al di là della vetrata prima di entrare in sala. Poi il rientro in reparto, un decorso post-operatorio caratterizzato da un’infinita debolezza (ero molto anemica) e soprattutto da dolori insopportabili. In particolare quando dovettero togliermi i drenaggi: il medico, un omone alto almeno un metro e 90, tirava con forza uno di quei tubi che non voleva saperne di sfilarsi, puntellandosi con un piede a una sbarra del mio letto. L’infermiera che lo accompagnava a ogni tentativo faceva una smorfia di dolore. Figuratevi io!

Ma il dolore si dimentica.

Dodici anni dopo ho dovuto essere nuovamente sottoposta a intervento: la valvola aortica non funzionava bene e io ero affaticata e avevo difficoltà respiratoria al minimo sforzo. Sono stata operata dallo stesso cardiochirurgo, ma in una struttura privata. Questa seconda esperienza è andata molto meglio della prima: una terapia del dolore adeguata mi ha evitato tutte quelle inutili sofferenze patite dopo il primo intervento e con un’intensa ed efficace riabilitazione (che non avevo fatto dopo il primo intervento) la ripresa è stata più veloce e più brillante: una vera rinascita! Poi ero più serena, Matteo era cresciuto nel frattempo, non era più un bambino, i miei genitori non c’erano più e non avevo la preoccupazione di causare loro ulteriori sofferenze.

Da medico, ho cercato di dare una spiegazione a tutto quello che mi era successo e sono certa che tutto è incominciato a 30 anni, quando lavoravo in un ospedale della Repubblica di Guinea, Africa occidentale. Dopo circa 2 settimane da un episodio di tonsillite, mi comparvero febbre alta e un dolore in corrispondenza del cuore, così intenso e persistente da costringermi a stare rannicchiata e curvata in avanti. Mi fu diagnosticata la malaria, anche se non furono trovati parassiti nel mio sangue, e fui trattata di conseguenza. Ma in Africa la malaria è considerata meno di un’influenza e non era pensabile stare a riposo e non andare a lavorare. Dopo un po’ di tempo passarono sia il dolore che la febbre.

Rientrata da alcuni mesi in Italia, improvvisamente, mentre ero al lavoro in ospedale, ho avuto un febbrone. Per la mia storia precedente di soggiorno in Africa, anche questa volta tutti pensarono alla malaria, ma i parassiti anche questa volta nel sangue non furono trovati. Il primo episodio era certamente la prima manifestazione di una malattia reumatica, una complicanza di una faringite da Streptococco oggi rara nel nostro Paese, ma articoli scientifici documentano un’epidemia di ceppi particolarmente virulenti di Streptococco in quegli anni proprio nell’Africa tropicale occidentale. Il secondo episodio è stato una recidiva: la mia valvola mitrale era certamente già danneggiata, ma io non ero mai stata visitata da nessuno fino a quel fatidico dicembre 1988.

Questa storia è anche pubblicata nel libro “Parole che curano. L’empatia come buona Medicina” di Franca Regina Parizzi e Maurizio Maria Fossati, edito da Publiediting.

Anche un medico, quando si ammala seriamente,

può essere vittima di errori da parte di altri medici, subirne l’arroganza,

sperimentare la totale confusione e il disorientamento

derivanti da pareri diversi di vari specialisti consultati,

fino a recuperare con fatica la capacità e la lucidità

per decidere della propria vita.

Franca Regina Parizzi: Nata a Milano il 15.12.1947, ha conseguito la laurea in Medicina e Chirurgia nel 1972 presso l’Università degli Studi di Milano con voti 110/110 e lode. Nel 1974 è stata assunta presso l’Ospedale San Gerardo di Monza, inizialmente come Assistente nel Reparto di Malattie Infettive e successivamente, dal 1980, nel Reparto di Pediatria, divenuto nel 1983 sede della Clinica Pediatrica dell’Università degli Studi di Milano Bicocca, ove ha ricoperto successivamente (dal 1988) il ruolo di Aiuto Corresponsabile Ospedaliero, e, dal 2000, di Dirigente Medico con incarico di Alta Specializzazione. Ha conseguito la Specializzazione in Malattie Infettive e successivamente in Chemioterapia, entrambe presso l’Università degli Studi di Milano. Nel 1977 e 1978 è stata responsabile del Reparto di Pediatria presso l’Hôpital Général de Kamsar (République de Guinée – Afrique de l’Ouest) nell’ambito della Cooperazione Tecnica con i Paesi in via di sviluppo del Ministero degli Affari Esteri italiano. Autrice di numerose pubblicazioni scientifiche su riviste nazionali e internazionali e relatrice in diversi convegni (nazionali e internazionali). Dal 2010 si è trasferita da Monza a Lampedusa, isola alla quale è profondamente legata, dove esercita tuttora la sua attività come pediatra.
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